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La ragazza scomparsa
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La ragazza scomparsa
E-book386 pagine5 ore

La ragazza scomparsa

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Info su questo ebook

Una madre affronta la sua paura più grande. Un detective alle prese con il suo caso più complesso.
È un caldo pomeriggio di primavera in un tranquillo quartiere residenziale di Sacramento, California, quando Samantha, tredici anni, all’improvviso scompare nel nulla. Sua madre Zoe è attonita, preoccupata, distrutta. Teme che le possa essere successo qualcosa di terribile. Qualcosa che in passato è accaduto anche a lei, e che le ha cambiato la vita. Zoe è disposta a perdere tutto ciò che con fatica ha costruito pur di ritrovarla: il lavoro, la casa, il compagno. Ma la prima ipotesi formulata dalla polizia è quella di una banale ripicca adolescenziale, perché a quanto pare la ragazzina detesta l’uomo che Zoe ha deciso di sposare per regalare a Samantha un'esistenza meno travagliata della sua. Ma se non fosse così? Se Anton fosse sì un maniaco dell’ordine e del controllo, un arrivista interessato a una famiglia di facciata, ma non c’entrasse nulla con la sparizione di Sam? Sono queste le domande che tormentano Jonathan Stivers, l'investigatore privato a cui Zoe ha chiesto aiuto per ritrovare Samantha. È un caso che lo mette in seria difficoltà, e non solo perché ha pochissimi indizi su cui basare le ricerche e ancor meno tempo a disposizione. A complicare la situazione c'è anche la sconvolgente attrazione che prova nei confronti di Zoe, e un sospetto che con il passare delle ore si rafforza sempre di più: Sam è stata rapita da qualcuno che conosceva. Qualcuno che vive vicino alla famiglia e ne ha studiato le abitudini. Qualcuno che non è chi dice di essere.
Brenda Novak ci regala una serratissima corsa contro il tempo alla disperata ricerca di una ragazza innocente, un viaggio negli abissi del male per ritrovare Samantha prima che venga trascinata per sempre in un vortice di orrore.  
LinguaItaliano
Data di uscita6 giu 2019
ISBN9788858999042
La ragazza scomparsa
Autore

Brenda Novak

Autrice americana, vive a Sacramento con la famiglia. I suoi romanzi da sempre incontrano i favori della critica e l'entusiasmo di migliaia di lettrici.

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    Anteprima del libro

    La ragazza scomparsa - Brenda Novak

    978-88-5899-904-2

    1

    Sacramento, California

    Il rumore sordo che proveniva dal portabagagli della sua auto sorprese Tiffany a tal punto che per poco non perse il controllo della vettura uscendo dalla carreggiata. Cosa diavolo stava succedendo? Il quattordicenne che lei e suo marito avevano ribattezzato Rover doveva essere morto. Non poteva sbarazzarsi del corpo, se era ancora vivo!

    Cosa fare? Strinse spasmodicamente il volante. Doveva fermarsi a controllare. Come poteva tornare in vita un ragazzo che era stato ucciso? Eppure il tonfo che aveva sentito era inequivocabile. Era Rover, in preda al panico perché aveva ripreso conoscenza in uno spazio angusto e buio?

    Le sembrava impossibile che respirasse ancora. Ma, se era vivo, sicuramente si era reso conto di essere alla fine. Non avrebbe mai rivisto i suoi genitori se non avesse fatto qualcosa, qualunque cosa.

    Eppure la stupiva sempre come gli adolescenti che suo marito portava a casa finissero per diventare timorosi e facilmente manipolabili. Forse era merito di Colin, che ci sapeva fare con loro e sapeva sempre scegliere il tipo giusto.

    Un altro tonfo. Ora le sudavano le mani. Accidenti! Non doveva succedere. Era la prima volta che qualcosa andava storto.

    Per fortuna era improbabile che qualcuno potesse sentire il rumore. Tiffany guardò nello specchietto retrovisore. Dietro di lei c'era un SUV, con una donna al volante che aveva abbassato il finestrino per godersi il tepore di quella bella giornata di primavera. Però non sembrava essersi accorta di niente, anche se la vettura le era molto vicina.

    Sentì altri tonfi sordi. Agitata, si decise ad accostare, sperando che il SUV non si fermasse a sua volta perché la donna aveva sentito qualcosa. Come avrebbe potuto spiegare la presenza di un ragazzo nel bagagliaio, oltretutto in quelle condizioni?

    No, era meglio proseguire. Avrebbe svoltato al prossimo semaforo, sperando che il SUV andasse dritto. Avrebbe ripreso la direzione per arrivare all'autostrada e poi avrebbe imboccato un sentiero sterrato e si sarebbe inoltrata tra le montagne, in mezzo agli alberi.

    E poi? Una cosa era sbarazzarsi di un cadavere, ben altra cosa era dover finire il lavoro con le sue mani.

    Il rumore proveniente dal bagagliaio divenne più forte e insistente. Tiffany stava attraversando il centro abitato. Magari qualche passante lo avrebbe sentito.

    Fece un respiro profondo. Doveva sistemare le cose a qualsiasi costo, oppure Colin si sarebbe arrabbiato. Se avesse commesso un errore, sarebbero finiti entrambi in prigione.

    Con il cuore in gola, frugò nella borsa appoggiata sul sedile accanto finché non trovò il cellulare e chiamò suo marito.

    «Pronto?»

    «Colin, è vivo!» esclamò, angosciata.

    Un attimo dopo sentì la voce registrata di Colin alla segreteria telefonica e, frustrata, interruppe la comunicazione. Colin si era divertito un mondo a registrare quel Pronto? all'inizio del messaggio sulla segreteria. Ci cascavano tutti quelli che chiamavano e credevano che fosse lui a rispondere veramente. Ma ora Tiffany non ci trovava niente da ridere. Aveva bisogno di Colin.

    «Aiuto! Qualcuno mi aiuti!»

    Era Rover che gridava!

    Tiffany imboccò la prima svolta a destra e accelerò. Per fortuna, il SUV era andato dritto.

    Compose il numero dello studio legale dove Colin lavorava. Le rispose la segretaria, Misty, a cui chiese di passarle Colin. Ma Misty rispose che era in riunione con il suo superiore. Colin si era laureato in legge solo da un anno ed era praticante nello studio legale Scovil, Potter & Clay. Faceva molta attenzione a comportarsi bene per avere l'approvazione degli avvocati da cui dipendeva, specialmente Walter Scovil, il socio più anziano. Tiffany, però, era convinta che ciò che stava succedendo fosse di una gravità tale da consentirle di disturbarlo.

    Perciò mentì dicendo che era un'emergenza e doveva parlare subito con Colin, spiegando che la madre era caduta e si era fatta molto male.

    Colin odiava sua madre e non si sarebbe preso il disturbo di attraversare la strada per andarla a trovare, neanche se fosse stata sul letto di morte, ma gli altri non lo sapevano e Tiffany si guardava bene dal confidarsi con qualcuno. Lei e Colin sapevano che cosa avrebbe pensato la gente se avesse sentito gli epiteti con cui chiamava sua madre.

    La segretaria capitolò facilmente davanti a quella scusa e andò a chiamarle Colin.

    Il semaforo era diventato rosso, nel frattempo, e il traffico stava rallentando. Tiffany non poteva rischiare di farsi sentire e non voleva fermarsi, ma le altre auto la bloccavano e le impedivano di mettere la freccia e svoltare. Non aveva altra scelta se non aspettare che scattasse il verde. Per fortuna, dal bagagliaio non proveniva più un solo lamento. Forse era finalmente morto...

    «Perché mi chiami, Tiffany?» tuonò Colin.

    Tiffany trasalì sentendo improvvisamente la voce del marito al cellulare. Ormai piangeva senza ritegno, ma si asciugò le lacrime quando si accorse che l'uomo in fila accanto a lei la fissava incuriosito attraverso il finestrino.

    «Si tratta di Rover.»

    «Che è successo?»

    «È vivo.»

    «Come?» esclamò Colin.

    «È vivo» ripeté Tiffany.

    «Non può essere.»

    «Te lo giuro. L'ho sentito battere e gridare aiuto nel portabagagli.»

    «Allora accosta e sistema la faccenda.»

    «Qui? Sono in mezzo al paese.»

    «No, non puoi» ammise Colin. Dopo qualche secondo di silenzio, aggiunse: «In che strada sei?».

    «Sono sulla Hazel, a Fair Oaks, voglio arrivare all'autostrada che porta alle montagne.»

    «Esci dal paese, poi accosta e risolvi la situazione.»

    «In che senso?» gli chiese Tiffany, anche se aveva già capito cosa voleva che facesse.

    «Nel senso che devi sistemare la cosa una volta per tutte» sussurrò lui. «Finisci il lavoro.»

    Avrebbe dovuto uccidere Rover da sola, con le sue mani? Provava una stretta alla bocca dello stomaco al solo pensiero. Il ragazzino era stato il cucciolo di Colin, il suo giocattolo preferito. Stava a lui chiudere la questione. «Ma non ho un'arma!» protestò.

    «Usa un ramo o una pietra. Vedrai che è facile.»

    Tiffany era sconvolta. Quello che era cominciato come un passatempo si era trasformato in un incubo. A volte, di notte, restava sveglia per ore a pensare, e le sembrava incredibile che la sua vita avesse imboccato una direzione tale da non aver più il controllo delle sue azioni e delle sue decisioni. Tuttavia non sapeva come uscirne. Colin non avrebbe neanche preso in considerazione l'ipotesi di smettere. Per lui, la scossa di adrenalina, l'eccitazione erotica, l'inebriante senso di potere erano come droghe, e l'aveva irretita ripentendo la solita promessa. Solo un'altra volta, poi smetto.

    E ora lei non sarebbe stata più solo una complice, ma una partecipante attiva, costretta a rimediare ai suoi errori. «Scherzi? Sai che non ne avrei mai la forza.»

    «Non hai altra scelta!»

    Il semaforo diventò verde. Il conducente dell'auto accanto alla sua le fece un sorriso prima di accelerare, ma Tiffany si preoccupò che avesse potuto insospettirsi.

    «Ma...»

    «Fallo e basta» la interruppe Colin. «O giuro su Dio che...» Non finì la frase, non ce n'era bisogno. Tiffany sapeva già che cosa le sarebbe successo se non avesse sistemato la questione. Colin l'avrebbe punita severamente, ora che non aveva più un cucciolo su cui sfogarsi.

    «Ho capito, ho capito. Comunque non lo sento più muoversi.»

    «Allora mi hai disturbato per niente?» sbuffò Colin. «Sei patetica!»

    «Non trattarmi così, dopo tutto quello che ho fatto per te!»

    «Non cominciare. Sai che mi devi tutto. Non saresti nessuno, senza di me. Quando ti ho conosciuto, eri solo una grassa vacca scialba.» Colin abbassò la voce, ma Tiffany immaginò che fosse nel suo ufficio con la porta chiusa, altrimenti non avrebbe potuto parlarle con tale libertà. «Alle superiori non c'era un solo ragazzo che ti guardasse, brutta e malvestita com'eri. Ora, invece, tutti i miei amici sbavano quando passi. Ti ho trasformato in una supermodella, ti ho insegnato io a curarti.»

    Per Tiffany, curarsi, come lo definiva Colin, era un impegno a tempo pieno. Lui pretendeva che facesse due ore al giorno di palestra, la pesava regolarmente e controllava ogni suo boccone affinché il peso non aumentasse di un grammo. La voleva magra e tonica, ma con una bella quarta di reggiseno. Tiffany aveva il seno piccolo, per cui lui le aveva imposto un intervento di chirurgia plastica per aumentarlo. Avrebbe voluto che portasse addirittura una quinta, ma il chirurgo plastico si era opposto e Colin aveva dovuto rinunciare a realizzare le sue fantasie. Però le aveva fatto rifare anche il naso, le labbra e gli zigomi. Erano sotto di novemila dollari in banca, ma Colin non si preoccupava per quelle spese eccessive. Gli importava solo di essere la coppia più ammirata e invidiata del quartiere e del suo ufficio.

    «Non mi interessa quello che pensano di me gli altri uomini» disse Tiffany. Era vero. Colin era l'unico di cui le importasse qualcosa, l'unico che l'avesse mai amata. Colin era tutto il suo mondo, e lei non voleva perderlo.

    «Allora, se ti preoccupi tanto di quello che penso io di te, fai quello che ti dico!» tuonò Colin.

    Tiffany si sentiva leggermente rincuorata perché dal bagagliaio non provenivano più rumori. «Va bene» acconsentì quindi, docile.

    «Brava.»

    Tiffany vide lo svincolo autostradale a destra e lo imboccò. Lì sarebbe stato difficile che qualcuno potesse sentire Rover. «Ero solo impaurita» si giustificò.

    «Lo so, piccola. Ma sei più forte di quanto tu creda. Sei mia, tutta mia, e io ti ho addestrato bene. So quello che sei in grado di fare. Fidati di me.»

    Colin era troppo possessivo, ma Tiffany si riteneva fortunata a essere sua moglie, perché lui la faceva sentire bella e desiderata. Ogni tanto la portava a farsi fare un nuovo tatuaggio. Aveva il nome di suo marito tatuato in varie parti del corpo, sul seno, su una natica e all'interno di una coscia, perché lui voleva vedere il proprio marchio impresso sulla pelle della moglie da qualunque angolazione la prendesse. Tiffany lo accontentava volentieri, perché Colin non avrebbe investito tante energie, soldi e tempo su di lei se non l'avesse considerata importante. Però, chi cercava di opporsi a lui, finiva male.

    Con un brivido, ricordò l'episodio che aveva portato alla fine del loro rapporto con Rover. Era stata tutta colpa del ragazzo, che sapeva perfettamente cosa volesse Colin. Se gli avesse ubbidito, lui gli avrebbe fatto male solo un po', ma poi sarebbe guarito. Non ci sarebbe stato motivo di ucciderlo. E invece ora lei stava andando a sbarazzarsi del suo cadavere.

    «Che cosa vuoi per cena?» chiese a Colin per cambiare discorso.

    «E che ne so? Fai tu» sbuffò lui. «Ora devo tornare alla riunione. Mi hai fatto perdere già troppo tempo.»

    «Sì, scusa.»

    «Grazie per l'aiuto, Tiffany. Stasera ti dimostrerò tutto il mio amore» le disse Colin prima di chiudere.

    Sorridendo, Tiffany mise il cellulare in borsa. Senza Rover, sarebbero stati di nuovo soli, come piaceva a lei. Sapeva che non avrebbe dovuto essere gelosa dei giocattoli di suo marito, o cuccioli, come li chiamava lui, ma non le piaceva quello che lui li costringeva a fare. Inoltre, si era resa conto che Colin li trovava più appaganti e interessanti di lei, specialmente i maschi. Anche ora che aveva il seno al silicone e i tatuaggi, e si piegava a tutti i suoi giochetti sadomaso, Tiffany temeva di essere per lui solo un trofeo, una bella moglie da esibire ad amici e colleghi per farsi invidiare.

    Fattasi forza, si disse che sarebbe riuscita a portare a termine il suo compito. Si sarebbe diretta verso i boschi, avrebbe oltrepassato la baita che un anno avevano affittato per passarci le vacanze di Natale prima che il padre di Colin acquistasse un piccolo chalet in montagna. Poi si sarebbe addentrata tra gli alberi e avrebbe lasciato il corpo. Tornando a casa, avrebbe fatto la spesa per preparare una bella cenetta per Colin, e quella sera si sarebbe fatta legare e frustare per compiacerlo. Con un po' di fortuna, lui l'avrebbe perdonata per averlo chiamato in ufficio e avrebbe dimenticato Rover.

    Rassicurata, proseguì e trovò un posto perfetto. A quel punto aprì il bagagliaio, convinta di trovare Rover morto.

    Invece era vivo. Appena lei alzò il cofano, lui le saltò addosso. Con un occhio gonfio e chiuso, le labbra spaccate e lividi dappertutto, sembrava un mostro. La fece cadere a terra, ma, invece di aggredirla, scappò gridando.

    Tiffany non osò seguirlo. Risalì in macchina e partì a razzo, mettendo a dura prova le sospensioni sul terreno accidentato, per togliersi di mezzo prima che Rover attirasse l'attenzione di qualcuno.

    Ora avrebbe dovuto trovare il modo di dare la brutta notizia a Colin.

    2

    Samantha Duncan si annoiava a morte. Aveva creduto che sarebbe stato bello saltare la scuola, ma tutto il divertimento era finito la prima settimana. Con sua madre che lavorava tutto il giorno, la casa era sempre deserta e silenziosa. Anche se sua madre diceva sempre che era dotata di tutti i comfort ed era la casa più bella in cui avessero mai vissuto, a Samantha non importava dei cosiddetti comfort. Si sentiva un peso, un fastidio che Anton Lucassi sopportava per poter vivere con sua madre.

    Samantha preferiva non pensare ad Anton. Le faceva venire il mal di stomaco, oltre alla stanchezza tremenda che l'attanagliava. Avrebbe dovuto tenere la mente occupata con qualcosa di costruttivo, come diceva sua madre. Da quando stava con Anton, parlava in modo strano. Nessuno si era preso la briga di spiegarle che cosa potesse essere costruttivo, ma doveva pur inventarsi qualcosa. Era solo lunedì e mancavano quattro lunghi giorni al fine settimana. Le veniva da piangere al solo pensiero che quel supplizio sarebbe durato altre due settimane. A quel punto, i suoi compagni che sgobbavano a scuola erano più fortunati.

    Sentì squillare il telefono e alzò la testa dal lettino a bordo piscina, schermandosi gli occhi contro il riverbero del sole sull'acqua mentre guardava il display del cordless. Era di nuovo il fidanzato di sua madre. Sicuramente voleva controllare che tutto andasse bene. Era un maniaco e un perfezionista, doveva avere sempre tutto sotto controllo. Per un attimo, Samantha fu tentata di non rispondere, ma sapeva che Anton ci avrebbe riprovato.

    Non riusciva proprio a capire che cosa avesse trovato in lui sua madre.

    «Pronto?» rispose con voce assonnata, sperando di convincerlo che l'aveva svegliata da un pisolino.

    «Sam?»

    E chi voleva che fosse?, pensò Samantha, alzando gli occhi al cielo. A casa c'era solo lei! «Sì?»

    «Ti sei ricordata di spegnere il televisore, vero? Non lo lascerai acceso tutto il giorno, spero.»

    E l'aveva chiamata per questo?, pensò lei, incredula. «L'ho spento» lo rassicurò.

    «Che cosa stai facendo?»

    «Dormivo.»

    Samantha sperava che Anton si scusasse per averla disturbata, ma lui non sembrava essersi reso conto di essere stato inopportuno. «Non sei in piscina, spero.»

    Samantha sbuffò. Non pensava che fosse proibito anche questo. «Veramente sì. Pensavo di unire l'utile al dilettevole e abbronzarmi mentre dormivo.»

    «Non ungere di olio solare i cuscini bianchi del lettino! Con quello che costano...» si raccomandò Anton.

    Samantha alzò gli occhi al cielo. Anton le aveva detto cento volte che gli erano costati una fortuna. Non perdeva occasione per ricordarle quanto fossero costose e delicate le cose che aveva in casa, e per rimproverarla di non prestare abbastanza attenzione a non sciuparle.

    «Non uso l'olio» brontolò.

    Ad Anton non sfuggì il tono ostile. «Non seccarti, voglio insegnarti ad avere cura delle cose.»

    Samantha chiuse gli occhi e fece un respiro profondo per cercare di controllare l'irritazione che provava ogni volta che parlava con Anton. Avrebbe voluto gridargli che non voleva vederlo né sentirlo mai più. Lo avrebbe fatto, se non fosse stato per sua madre, che era tanto contenta di stare finalmente con qualcuno e avere una bella casa comoda. Samantha non voleva rovinarle la vita più di quanto non avesse già fatto nascendo. «Non sono seccata» replicò, in tono più conciliante.

    «Bene. Hai sentito tua madre?»

    Samantha avrebbe voluto rispondergli che, per fortuna, sua madre la tormentava meno di lui. «Mi chiama quando può. Se quelli per cui lavora non fossero tanto bastardi, potremmo stare di più al telefono.» La settimana prima, sua madre era tornata a casa a pranzo e aveva rischiato il licenziamento perché il tragitto in auto era lungo per andare e tornare dall'ufficio, e aveva fatto tardi.

    «A parte il fatto che devi moderare il linguaggio» la rimproverò Anton in tono severo. «Nel mondo reale funziona così. Bisogna rispettare le regole e comportarsi in maniera responsabile. Prima lo impari e prima dimostrerai di essere cresciuta.»

    Samantha sbuffò per la predica. Ma come faceva sua madre a sopportarlo?

    «Hai ragione» tagliò corto per rabbonirlo. «Ma ora, scusami, vorrei rimettermi a dormire. Sono veramente stanca.»

    «Sì, riposa pure.»

    «Grazie. A proposito, ho spento tutte le luci in casa. Te lo dico, così non dovrai disturbarti a richiamarmi per chiedermelo.» Samantha lo stava prendendo in giro, ma, ovviamente, Anton non se ne accorse.

    «Mi fa piacere che ogni tanto mi dai ascolto. A più tardi allora.»

    «Grazie per aver chiamato.» Samantha sorrise. Era divertente essere esageratamente educata con Anton, perché lui non capiva mai che lo faceva apposta. Anton non si rendeva conto che lei lo detestava e che sapeva di non piacergli. Anton la considerava solo una seccatura, nonostante si sforzasse di dimostrare a sua madre il contrario.

    Chiusa la comunicazione, sentì un rumore proveniente dalla casa dei vicini, che attirò la sua attenzione. Una porta si aprì e si chiuse, il che le parve strano perché Tiffany e Colin Bell non erano mai a casa durante il giorno.

    Per distrarsi si alzò e andò a sbirciare da dietro lo steccato che divideva i due giardini. Era ancora debole perché aveva la mononucleosi, per cui attraversò il prato camminando piano, anche se si accorse che stava riprendendo le forze a poco a poco. Il medico le aveva detto che sarebbe dovuta restare a casa quattro settimane, e ne erano già passate quasi due. Il suo unico obiettivo era quello di tornare a scuola; il resto non contava.

    Per arrivare proprio a ridosso della recinzione, dovette passare sopra l'aiuola che il giardiniere aveva piantato un mese prima. Non le importava affatto di rovinare i fiori, perché era per colpa delle aiuole che era stata costretta a dare via il suo cane. Era ancora indignata e non riusciva a capacitarsi di come avesse fatto la madre ad acconsentire.

    Sbirciò attraverso un buco tra due assi dello steccato e vide la moglie del vicino, Tiffany Bell, una bella donna con cui Samantha scambiava qualche parola ogni tanto.

    Notò che non era vestita per andare al lavoro. Era infermiera in una casa di riposo e di solito portava un'uniforme o il camice, e scarpe bianche da infermiera. Invece, quel giorno, indossava dei jeans sdruciti, scarpe da tennis e una maglietta aderente che le faceva sembrare ancora più grande il seno.

    Samantha era sicura che si fosse rifatta le tette. Lei era quasi piatta, ma, avendo solo tredici anni, non aveva perso la speranza. Non portava neanche il reggiseno, mentre la sua migliore amica, Marti Seacrest, portava già la seconda. Sua madre le diceva di non preoccuparsi, perché si sarebbe sviluppata più tardi, ma Samantha si era accorta che i ragazzi a scuola guardavano solo le ragazze prosperose, come Marti.

    «E ora che faccio?» gemette Tiffany, nel giardino accanto.

    Samantha non vedeva nessuno. Era possibile che la vicina stesse parlando con lei?

    «Scusi, diceva a me?» le chiese timidamente.

    Tiffany trasalì violentemente e si votò di scatto verso di lei. «Chi è?»

    Samantha capì subito di aver commesso un errore, ma era ormai troppo tardi. «Sono Sam. Non sono andata a scuola, oggi. Anzi, non ci vado da diverso tempo.»

    «Perché?» chiese Tiffany in direzione dello steccato.

    «Sto male.»

    «Allora perché non sei in casa?» «Sono in convalescenza.»

    «E perché mi spii?»

    «Mi annoio.»

    Tiffany era chiaramente nervosa e si mordeva l'interno della bocca. «C'è qualcosa che non va?» le chiese Samantha.

    «Che cosa te lo fa pensare?» replicò Tiffany, sospettosa.

    Non solo si comportava in modo strano, era anche vestita diversamente dal solito. Samantha, infatti, l'aveva sempre vista in jeans stretti, tacchi alti, camicette trasparenti o morbidi golfini scollati, oppure abiti eleganti e aderenti, invece ora appariva sciatta.

    «Mi sembra nervosa, e poi non la vedo mai a casa a quest'ora» le spiegò.

    «Allora mi spii!»

    «No, ma immagino che una persona che lavora non torni a casa a metà giornata» ribatté Samantha, logica.

    Tiffany non parve tranquillizzata. «E perché dici che sono nervosa?»

    Samantha aveva questa sensazione, però si era anche accorta di aver sbagliato tutto. Non avrebbe dovuto dire quelle cose a Tiffany.

    «Mi scusi, non volevo disturbarla» disse in fretta, pronta ad andarsene.

    «Aspetta!»

    Samantha non voleva più parlare con lei, ma Tiffany l'apostrofò: «Da quanto tempo non vai a scuola?».

    Il suo tono sospettoso la mise a disagio. Era lo stesso che adottava Anton quando era convinto che lei si fosse comportata male. Ma perché la vicina doveva pensarlo?

    «Da una decina di giorni.»

    Tiffany si avvicinò allo steccato e Samantha vide chiaramente che aveva il mascara sbavato e gli occhi rossi, come se avesse pianto.

    «Serve aiuto?» le chiese, impietosita.

    Tiffany attraversò il prato e si mise davanti allo steccato. «Lo fai spesso?»

    «Che cosa?»

    «Spiarci.»

    «Io non vi spio.»

    «Però mi guardavi da un buco nello steccato.»

    Ora Tiffany era più vicina e Samantha notò una macchia rossa sulla maglietta. Sembrava sangue. Si era fatta male? Forse piangeva per quel motivo.

    «Si è ferita?»

    «No, perché?»

    «Quello non è sangue?»

    Tiffany si guardò e impallidì. «Cavoli, non me n'ero accorta!» esclamò, barcollando.

    «Posso fare qualcosa per lei?»

    «No, è stata solo una brutta giornata.»

    «Vuole che chiami i paramedici?»

    «No, non chiamare nessuno!» esclamò in fretta Tiffany, togliendosi la maglietta. «Anzi, sì, puoi farmi un favore? Telefona a mio marito e digli di venire subito.»

    «Qual è il numero? Vado a prendere il cordless.»

    «Non ricordo. Ce l'ho nella rubrica del cellulare.»

    «E dov'è il cellulare?» Tiffany si guardò intorno smarrita, ma non fece in tempo a rispondere. Vacillando, si accostò a un lato del prato e vomitò sull'erba.

    «Stia ferma lì. Arrivo» le disse Samantha, correndo verso il cancelletto per uscire dal suo giardino ed entrare in quello dei vicini.

    «Mi dispiace, mi dispiace tanto!» gemette Tiffany, piangendo.

    «Per che cosa?» le chiese Samantha, arrivata alle sue spalle.

    «Non è stata colpa mia.»

    «Ma cosa?»

    Tiffany si asciugò gli occhi, spandendosi ancora di più il mascara, con il risultato di sembrare un panda, o forse un pagliaccio, pensò Samantha.

    «Niente. Non mi sento bene... Non ragiono...»

    «Non si preoccupi, sono qua io. Che posso fare per lei?»

    3

    Zoe aggrottò le sopracciglia, perplessa e preoccupata. Da due ore cercava di contattare sua figlia al telefono, ma Sam non rispondeva mai. Forse non sentiva squillare perché si era addormentata con la radio accesa...

    «Scusi!» esclamò una voce femminile vagamente isterica.

    Zoe trasalì e alzò lo sguardo. Jan Buppa, la sua capoufficio, incombeva su di lei, ma Zoe era tanto preoccupata e assorta nei pensieri da non aver neanche sentito i suoi passi che si avvicinavano. La sua scrivania era in mezzo alla sala degli impiegati, per cui aveva imparato a ignorare i rumori circostanti per concentrarsi sul lavoro, tuttavia in quel caso era stato controproducente. Bisognava essere sempre all'erta per accorgersi quando stava arrivando Jan.

    «Mi dispiace interrompere il suo sogno a occhi aperti, ma vorrei sapere se ha intenzione di finire quelle pratiche prima di andare a casa» disse la donna in tono acido, indicando la pila di cartelle che Zoe aveva sulla scrivania. Ne avrebbe avuto per tre giorni, ma Jan voleva che finisse prima delle cinque.

    Ricordava ancora quando Anton, che era fiscalista, le aveva detto che era fortunata perché lui era riuscito a farla assumere alla Tate Commercial, il cui proprietario era uno dei suoi clienti. Zoe cercava sempre di essere efficiente ed educata, perché il suo comportamento sul lavoro non avesse delle ripercussioni negative sulla reputazione di Anton.

    «Certo, signora» disse in tono ossequioso. «Potrà dare agli agenti i contratti pronti e compilati entro domattina, come promesso.»

    «Mi fa piacere. Volevo solo assicurarmi che non avesse dimenticato le nostre scadenze.»

    Zoe digrignò i denti mentre Jan si allontanava e tornava alla sua scrivania. Purtroppo non poteva permettersi di risponderle male; aveva bisogno di quel lavoro. D'altra parte, se avesse compilato tutti i moduli dei contratti, sarebbe tornata a casa ancora più tardi del solito, e le dispiaceva lasciare Sam da sola per tutto quel tempo.

    Per farsi forza, ricordò quello che le aveva detto Anton quando lei si era lamentata delle angherie di Jan. Le aveva spiegato che la donna era delusa perché avrebbe voluto far assumere sua nuora, per questo non nutriva una particolare simpatia nei suoi confronti. L'aveva incoraggiata a sopportare, dicendole che il primo anno poteva essere duro, ma che le serviva un impiego in una grande agenzia come quella, per fare esperienza in attesa di prendere la licenza come agente immobiliare. Il successo professionale richiede impegno e sacrificio, aveva sentenziato Anton. Era una delle sue massime preferite.

    Zoe non poteva dargli torto. Se voleva migliorare la sua posizione, doveva sopportare. Anzi, se non fosse stato per Jan, sarebbe stata contenta di lavorare alla Tate Commercial. Era il posto giusto per cominciare la sua carriera di agente immobiliare. Zoe voleva essere brava, dimostrare a se stessa di essere in grado di elevarsi socialmente e diventare quello che suo padre non era mai stato. Però, in quel momento, era troppo preoccupata per Samantha per essere efficiente.

    Pur sapendo che Jan la teneva d'occhio, chiamò il suo compagno.

    «Pronto?»

    «Ciao, Anton. Hai sentito Sam, oggi?»

    «L'ho chiamata a mezzogiorno. Perché?»

    «Non mi risponde al telefono.»

    «Dormiva ancora quando l'ho chiamata. L'ho svegliata io.»

    Zoe guardò l'orologio. «Ma ora sono le tre!»

    «Non dimenticare che la mononucleosi fa sentire stanchi. È normale che dorma molto.»

    «A che ora vai a casa stasera?»

    «Verso le sei o le sette.»

    «Come mai così tardi? Non è periodo di dichiarazione dei redditi.»

    «Ho dei bilanci da verificare.»

    «Puoi fare una pausa e andare a controllare come sta Sam?»

    «Vuoi che vada fino a casa?» esclamò Anton, incredulo. «Tra andare e tornare, perderei minimo venti minuti!»

    Zoe aveva mal di testa da quella mattina. «Sì, per favore» rispose, massaggiandosi una tempia.

    «È assurdo! Cosa vuoi che le sia successo, mentre riposava?»

    «Non so, è per questo che vorrei che la controllassi. Che ne sai? Potrebbe essere svenuta a bordo piscina, aver battuto la testa ed essere caduta in acqua.»

    «Come la fai tragica!» sbuffò lui. «Sam ha tredici anni, non è stupida. Perché dovrebbe passeggiare a bordo piscina, sapendo di essere malata?»

    «Anton, sii buono. Ci andrei io, se potessi, ma sono bloccata qui, sepolta sotto una valanga di pratiche e Dio solo sa quando finirò e potrò tornare a casa.»

    Ci fu una lunga pausa, poi Anton fece un sospiro. «E va bene, vorrà dire che farò una

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