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Il potere dei tuoi occhi
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E-book158 pagine2 ore

Il potere dei tuoi occhi

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Info su questo ebook

Darlene Scalera ama ambientare i suoi romanzi nei luoghi più suggestivi degli Stati Uniti, di cui ama la vita semplice e raccolta, gli angoli pittoreschi e senza paragoni al mondo.
Lorna O'Reilly non sa niente di lui: da dove viene, qual è il suo passato, e soprattutto quali sono le sue reali intenzioni. In ogni caso, non può fare a meno di accettare Julius Holt in casa sua. Quello sconosciuto bellissimo e magnetico, dagli occhi da zingaro, ha lo strano potere di incantarla con un solo sguardo, così, davanti alla sua richiesta di un lavoro, Lorna lo accontenta senza esitare. Ma non appena la loro convivenza comincia, un problema diventa lampante per tutti e due: come fare a resistere alla continua tentazione di baciarsi? La "soluzione" arriva quando Julius pensa di...
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2021
ISBN9788830526549
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    Anteprima del libro

    Il potere dei tuoi occhi - Darlene Scalera

    Copertina. «Il potere dei tuoi occhi» di Scalera Darlene

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Help Wanted: Husband?

    Harlequin American Romance

    © 2002 Darlene Scalera

    Traduzione di Carla Ferrario

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2005 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eBook ISBN 978-88-3052-654-9

    Frontespizio. «Il potere dei tuoi occhi» di Scalera Darlene

    1

    Lorna non aveva mai visto un uomo così grande e grosso. Non che avesse avuto grandi opportunità, avendo trascorso tre quarti della sua vita nell’Accademia femminile del Sacro Cuore e l’altro quarto all’interno dei confini della contea... ma ne aveva visti abbastanza. Uno di troppo, avrebbero commentato gli abitanti di Hope, Massachusetts, e se qualcuno avesse avuto abbastanza fegato da dirglielo in faccia, Lorna gli avrebbe dato ragione.

    Nascosta dietro l’albero che stava potando, osservò l’uomo girare attorno al vecchio furgone. Portava jeans scoloriti che accentuavano le solide gambe da vichingo e un giubbetto altrettanto sbiadito teso al massimo sulle spalle troppo ampie.

    Era una giornata particolarmente calda, soltanto la neve rimasta nel bosco poteva far pensare all’inverno.

    L’uomo avanzò a passi pesanti, arrestandosi per studiare la casa, una vecchia costruzione squadrata, che era stata un austero edificio del New England fino a cinque giorni prima, quando Lorna aveva dipinto le imposte di un giallo squillante. Lei sospettava che fosse proprio quel contrasto ad attirare l’interesse del-l’uomo. Appena possibile avrebbe ridipinto il portone consumato di un brillante blu pavone. Basta con i colori cupi, si era ripromessa mentre seguiva il funerale del marito, neanche sei settimane prima. La vita è troppo corta e bella per i colori cupi.

    Fedele a quel giuramento, al funerale aveva indossato un abito color verde pallido. Si era mossa decisa, bersagliata dai mormorii di disapprovazione della gente. È impazzita per il dolore, dicevano. Nel suo caso la pazzia era scusabile, visto che solo due giorni prima suo marito era stato sorpreso a letto con la moglie di un altro e colpito da una fucilata in una zona anatomica innominabile in pubblico. Ogni volta che il racconto veniva ripetuto gli uomini rabbrividivano e le donne annuivano con malcelata soddisfazione, ripetendo che dopotutto la giustizia divina esiste.

    Ma Lorna non era impazzita, il giorno in cui suo marito era stato condotto all’eterno riposo, anzi la sua mente era del tutto lucida. La sua pazzia si era manifestata tre mesi prima, quando aveva creduto che lui la sposasse per amore e non per il denaro della sua famiglia.

    Al funerale Lorna si era fatta strada nella navata con un’occhiata obliqua verso il padre, seduto in prima fila nel banco che apparteneva da sempre alla famiglia McDonough. I suoi antenati avevano fondato Hope, e a ogni generazione le proprietà della famiglia, diventata la più ricca della contea, crescevano. Il padre di Lorna, Axel McDonough, era conosciuto da tutti, persino dalla figlia, come il Boss.

    Ma quel giorno, quando suo padre si era voltato verso di lei, Lorna aveva scorto la sua eterna espressione di disapprovazione e aveva deciso che né lui né nessun altro uomo sarebbe più stato il Boss.

    Il gigante intanto era rimasto immobile a fissare la casa. All’improvviso sorrise, apparendo subito più giovane. Lorna controllò con il polpastrello dell’indice le punte aguzze delle forbici da potatura. Non era la prima volta che vedeva un sorriso nascere con quella facilità.

    Hope, pensò Julius Holt. Era stato il nome della città, che significava speranza, a spingerlo fin lì. Non appena visto l’annuncio economico si era spinto sulla strada che costeggiava il corso del fiume verso sud, un susseguirsi di curve strette.

    Prima di tutto aveva avvistato il campo, poi il frutteto che si estendeva fino all’orizzonte. Molti alberi, trascurati, erano cresciuti troppo. I rami intrecciati dondolavano alla brezza, lasciando intravedere la luce. Julius si era lasciato guidare dai tronchi massicci, immaginando in fondo alla strada una vecchia abitazione in rovina, con necessità di una buona imbiancatura. E sotto quel tetto una famiglia riunita, un vecchio cane silenzioso e milioni di ricordi.

    Poi aveva superato una curva ed era rimasto turbato da imposte giallo canarino assolutamente fuori luogo, proprio come si era sentito lui per tutta la vita. Aveva fermato il camioncino, smontato, fatti pochi passi e di nuovo era stato costretto a fissare quelle imposte. Allora aveva sorriso pensando: Be’, che mi venga un colpo! Sono a Hope, a Speranza.

    Si trovava al limite del frutteto quando, in mezzo al grigio, era balenato qualcosa di verde.

    Una donna alta e sottile era uscita dai filari angola-ti, vestita con una tuta verde limone del tutto in disaccordo con le labbra strette e la fronte corrugata. Era stata una visione così inaspettata da farlo sorridere di nuovo, pur sapendo di apparire idiota di fronte a quella donna vestita da carnevale. Che gli puntava contro le forbici da potatura.

    «Buongiorno signora» salutò con un cenno del capo.

    «Signorina» lo corresse lei. Il suo tono di superiorità suonò brusco alle orecchie di Julius.

    «Signorina» accettò di buon grado. Infilò con cautela una mano nella tasca posteriore dei jeans sotto lo sguardo attento di lei, che teneva ancora le forbici, e ne tolse un pezzetto di carta di giornale. «Sono venuto per il lavoro.»

    Lorna lo scrutò con attenzione, ma l’uomo resse l’esame senza abbassare lo sguardo, incuriosito da quegli occhi verde acqua, dolci quanto tutto il resto era scostante. Lei si portò una mano sullo stomaco e si passò l’altro braccio sulla fronte, le punte delle forbici dirette verso l’alto. Poi, con espressione quasi sorpresa, lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e le forbici caddero a terra. La donna oscillò come uno dei rami troppo cresciuti alle loro spalle.

    «Signora... voglio dire, signorina...»

    Lorna si accasciò ai suoi piedi, gli occhi velati da un’espressione indifesa.

    «Signorina? Signorina?» Julius si piegò sulle ginocchia e la scosse. La donna teneva gli occhi chiusi ma respirava. «Andiamo, non mi lasci proprio adesso» si sentì pregare, come se per tutta la vita non avesse fatto altro che cercare un datore di lavoro vestito da carnevale per gestire una fattoria a pezzi.

    Le tastò il polso ossuto, sostenuto dal battito debole e le diede un colpetto sul dorso della mano. Si guardò attorno spaesato. Se anche fosse stato il tipo da cercare aiuto, nessuno lo avrebbe sentito. Abbassò lo sguardo sulla donna, notando che il suo viso aveva perso ogni durezza. Aveva la pelle chiara e liscia.

    «Al diavolo!» esclamò. E senza indugiare oltre sollevò la donna tra le braccia.

    Lorna aveva l’impressione di galleggiare nel vuoto. Il dondolio e il calore erano troppo gradevoli per rinunciarvi. Aprì gli occhi e fu subito attirata da un bagliore dorato. Cercò di mettere a fuoco finché non riuscì a distinguere un viso. Allora allungò la mano.

    «È San Nicholas.»

    Lei fece scattare indietro la testa e distinse la catena con una medaglia d’oro che pendeva dal collo dell’uomo. Lui aveva labbra piene incurvate verso l’alto, quelle di chi sorride spesso, e occhi dello stesso blu di cui Lorna voleva dipingere il portone.

    «Il santo patrono di...»

    Non ascoltò altro e cominciò a divincolarsi dalle braccia forti che la sorreggevano. «Mi metta giù!»

    «Calma» la esortò lui, con una tale tenerezza da renderla immediatamente docile, anche se solo per pochi secondi.

    «Andiamo!» Nonostante i suoi colpi, l’uomo la depositò sui gradini del portico con la stessa gentilezza di poco prima. Poi indietreggiò, continuando a studiarla con espressione divertita, mentre Lorna, con il fiato corto per la lotta e la collera, lo ricambiava torva, raccogliendo particolari da segnalare alla polizia. L’uomo possedeva lineamenti forti, decisi, simili a pietra scolpita, e sopracciglia folte e scure che mettevano in risalto gli occhi blu.

    «Meglio che stia seduta per qualche minuto. È finita a terra come un sacco di patate.»

    «Sono svenuta?» domandò lei, cominciando a ricordare il senso di leggerezza alla testa che l’assaliva se si sollevava di scatto o dimenticava di mangiare. La sua collera si spense in fretta, così come si era accesa. Allontanò lo sguardo, ormai irritata solo con se stessa. «Non ho fatto colazione.» Aveva cercato di inghiottire qualcosa, ma non era riuscita a trattenere niente. Controllò l’orologio. «E neanche pranzato.»

    Si sollevò in piedi.

    «Resti seduta.»

    «Sto bene.» Si passò una mano tra i capelli, alla ricerca di ciocche ribelli. «Grazie per l’aiuto.»

    L’uomo la sostenne e lei rimase a fissare quella mano enorme, ricordandone la forza. Sollevò la testa e incontrò di nuovo i suoi incredibili occhi azzurri. Assunse un tono professionale e distaccato. «Le interessa il lavoro?»

    Julius la studiò. Era più alta della media. Le labbra piene erano sempre serrate. Gli occhi grigioverdi, prima chiusi, rivelavano palpebre bianche come il latte e fitte di vene sottili. Quando si erano aperti all’improvviso, mentre Julius la reggeva tra le braccia, avevano rivelato una dolcezza per cui un uomo può anche perdere la testa.

    Adesso quegli occhi erano fissi su di lui con espressione da aguzzino. Fila subito via, si disse Julius, l’istinto di sopravvivenza all’erta. Ma adocchiando le persiane gialle alle spalle della donna rispose solo: «Sì, signorina...».

    Lei si passò di nuovo la mano sui capelli. Sembrava stanca. «In realtà non sono signorina.»

    Fu presa di nuovo da un capogiro e si afferrò alla ringhiera del portico. «Sono la signora O’Reilly.»

    «Signora O’Reilly.» La considerò in silenzio per qualche istante, poi sorrise. In quel sorriso aperto si leggeva la scioltezza di un uomo che sapeva di piacere alle donne. «Potrei parlare direttamente col capo?»

    Lorna si raddrizzò, risultando ancora più alta. «Io sono il capo, signor...?»

    La sorpresa si riflesse nei suoi occhi per un attimo, ma non alterò il suo sorriso.

    Lorna strinse le labbra.

    «Mi chiamo Holt. Julius Holt.»

    Lei incrociò le braccia sul petto. «Ha esperienza nel campo?»

    L’uomo continuava a sorridere. «Oh, sì. Ho cominciato in Oklahoma, lavorando nella fattoria di mio nonno finché non fece bancarotta e mio padre si trasferì in California. Avevo circa sette anni.»

    Aveva assunto un tono colloquiale, come se fosse disposto a esaurire ogni curiosità di Lorna.

    «E avete fatto fortuna in California?»

    Lui scosse la testa, e al sorriso seguì una risata. «Nemmeno un po’.» Riprese un’espressione seria. «Purtroppo mio padre morì poco dopo.» Schioccò le dita. «Di punto in bianco, proprio davanti ai miei occhi.» Si raddrizzò scuotendo la testa. «La vera sorpresa fu che non ci avesse lasciato le penne prima per via dell’alcool. Mia madre resse ancora per un po’, allevava galline e coltivava l’orto, ma alla fine cominciò a bere anche lei.» Parlava in tono concreto. «Lavorai in diverse fattorie per circa un anno, finché la legge non venne a prendere me e mia sorella.»

    «Quanti anni aveva?» La voce di Lorna assunse un tono più dolce di quanto avrebbe voluto.

    «Tredici.»

    «Tredici?» Lorna sollevò di scatto la

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