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Mario Farnese. Guerriero geniale, abile governante, marito, padre e protettore di artisti e letterati
Mario Farnese. Guerriero geniale, abile governante, marito, padre e protettore di artisti e letterati
Mario Farnese. Guerriero geniale, abile governante, marito, padre e protettore di artisti e letterati
E-book484 pagine5 ore

Mario Farnese. Guerriero geniale, abile governante, marito, padre e protettore di artisti e letterati

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È un saggio biografico storico e artistico che intende dare il giusto riconoscimento a una delle figure di spicco del Cinquecento italiano, ma quasi sconosciuta al grande pubblico: Mario Farnese, abile condottiero e stratega, illuminato e sensibile governante, nonché raffinato intenditore d'arte e mecenate. La sua vita, come discendente del ramo cadetto della famiglia, viene raccontata a partire dalla nascita all'educazione militare ricevuta alla corte di Parma, passando per l'arruolamento nei Paesi Bassi, al successivo matrimonio con Camilla Meli Lupi di Soragna, alle campagne militari contro gli Ottomani in Ungheria, alla sua attività diplomatica.

Viene raccontato l>interesse per i problemi delle sue terre anche quando era lontano e impegnato in guerra, vengono forniti dei cenni biografici sui figli e degli approfondimenti sulle committenze e sulle opere realizzate a Latera e a Farnese. Viene, infine, per la prima volta analizzato il suo ruolo di mecenate e protettore di artisti e letterati come: il poeta Antonio Ongaro, lo scultore Francesco Mochi e i pittori Antonio Maria Panico e Giuseppe de Ribera.
LinguaItaliano
Data di uscita1 feb 2022
ISBN9791220388269
Mario Farnese. Guerriero geniale, abile governante, marito, padre e protettore di artisti e letterati

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    Anteprima del libro

    Mario Farnese. Guerriero geniale, abile governante, marito, padre e protettore di artisti e letterati - Bonaventura Caprio

    INTRODUZIONE

    Mario Farnese non fu certamente uno dei tanti personaggi che si trovano elencati nelle varie genealogie solo perché discendente della grande e famosa stirpe del giglio e del liocorno. Al contrario, fu una figura di grande rilievo politico, militare, diplomatico, amministrativo e perfino artistico e letterario, che solo negli ultimi anni sta trovando una giusta definizione del suo poliedrico ingegno e una meritata rivalutazione della sua personalità, capace di assumere aspetti straordinariamente diversi e multiformi.

    Apparteneva al cosiddetto ramo minore della famiglia Farnese (anch’esso indagato e approfondito solo nell’ultimo decennio), che aveva il suo capostipite in Bartolomeo (Meo), secondogenito di Pietro Bartolomeo (1350-1415).

    Questo ramo era nato per volontà del fratello primogenito, Ranuccio detto «il Vecchio» o «Seniore» (1390 (?)-1450), che nel dettare il suo testamento al notaio Angelo fu Nicola di Montepulciano nella rocca di Ischia, il 2 luglio 1450¹, non volle lasciare il fratello Bartolomeo senza proprietà, assegnandogli i due paesi di Latera e Farnese. Ad essi si aggiunse, il 7 gennaio 1514, il castello di Giove, in Umbria, acquistato dai monaci benedettini di Mantova da Galeazzo I Farnese.²

    In questo modo, i discendenti di Ranuccio il Vecchio, vale a dire Pier Luigi (1435 (?)-1478) e Gabriele Francesco (?-1475) (tutti gli altri figli erano femmine e salvo specifiche disposizioni non potevano partecipare alla divisione dell’eredità), proseguirono, invece, quello che fu sempre considerato il ramo principale della famiglia, che nel 1537, per opera del pontefice Paolo III (Alessandro Farnese), governerà il neo Ducato di Castro e di Ronciglione, che comprendeva i paesi che costituivano il primo nucleo delle proprietà farnesiane: Castro (sede vescovile e prescelta come capitale), Montalto, Musignano, Ponte della Badia, Canino, Cellere, Pianiano, Arlena, Tessennano, Piansano, Valentano, Ischia, Gradoli, Grotte, Borghetto, Bisenzo, Capodimonte, parte del lago di Bolsena con le isole Bisentina e Martana. A questo primo nucleo si unirà poi un vasto territorio nell’area del monte Cimino e del lago di Vico con i paesi di Ronciglione, Caprarola, Nepi, Fabrica di Roma, Canepina, Vallerano, Vignanello, Corchiano e Castel Sant’Elia.

    Il ramo cadetto proseguirà la sua discendenza, parallelamente a quella dei cugini sopraelencati, con i soli paesi di Latera e Farnese, come Ducatum Nuncupatum, vale a dire nominato nel Ducato di Castro, ma di fatto separato e privo di valore giuridico. Nel latino antico nuncupare significava, infatti, letteralmente, «esprimere a voce, esprimere solennemente». Mario era uno dei discendenti del ramo cadetto dei Farnese e arrivò a governare il suo piccolo feudo dopo la morte del fratello Fabio, nel 1579.

    Questa breve premessa storica rappresenta una necessaria precisazione per avere quantomeno un’idea della situazione territoriale del patrimonio farnesiano in generale e delle proprietà del nostro personaggio.

    Per la sua grande intelligenza e versatilità, sia nelle arti militari che in quelle civili, per la sua fine sensibilità artistica e per la sua intraprendenza innovativa, Mario è considerato una figura di primaria importanza e un protagonista del suo tempo.

    È indubbio che il suo piccolo feudo, situato in posizione strategica tra le aree d’influenza della Chiesa, della repubblica di Siena, del comune di Orvieto e della contea degli Orsini, con lui subì una svolta fondamentale, uscendo dal provincialismo che lo avvolgeva da anni e colmando in parte il ritardo economico, giuridico, ma in particolar modo culturale che lo separava dal Ducato di Castro e di Parma e Piacenza.

    A differenza della maggior parte dei governanti della sua epoca e degli stessi parenti del ramo maggiore, operò attivamente, con tutti i mezzi e le possibilità che aveva a disposizione, per migliorare la vita dei suoi sudditi, con l’emissione di avanzate e fondamentali norme per regolare la struttura e l’attività del suo piccolo feudo e con la realizzazione di opere di grande impegno sociale, religioso e architettonico, che durante il suo governo portarono un periodo di benessere e di sviluppo economico e culturale, sia per la comunità di Latera che per quella di Farnese.

    In tutte le sue azioni, sia militari che diplomatiche, agì sempre con devozione alla Chiesa e con lealtà e franchezza verso gli avversari, onorando e coprendo di gloria il nome dei Farnese, non solo del suo ramo ma anche di quello, molto più ricco e famoso, dei parenti di Castro, Parma e Piacenza, con i quali intrattenne sempre buonissimi rapporti di amicizia e di collaborazione. Fu considerato da tutti un abile condottiero, un brillante stratega e un capace organizzatore di difese militari, sia in Italia che all’estero, e fu consigliere ascoltato e stimato di numerosi capi di Stato e di pontefici. Fu anche un distinto e diplomatico cortigiano, dal linguaggio forbito e dai modi eleganti e gentili, in grado di attirare l’attenzione e la stima di tutti i personaggi della sua epoca.

    Fu, infine, un grande intenditore e collezionista d’arte, mecenate e scopritore di giovani talenti, sia nella pittura che nella scultura. Fu insomma, come vedremo, «un uomo per tutte le stagioni», adatto ad ogni circostanza e ad ogni situazione, un personaggio intelligente, capace e valido in qualsiasi evenienza.

    Fig. 1. Palazzo Comunale di Farnese. Stemma di Mario Farnese. 1616.

    Da notare che i gigli sono disposti in modo ellissoide, tipico del ramo cadetto, mentre quelli del ramo principale sono generalmente disposti dall'alto verso il basso in modo 3, 2, 1.

    Nei capitoli successivi parleremo, anzitutto, della sua intensa vita di uomo d’armi, di stratega, di politico e di diplomatico. Entreremo poi nei dettagli del suo matrimonio e della sua figura di marito e padre di numerosi figli. Nell’ultima parte, affronteremo il discorso quasi sconosciuto e mai affrontato in modo ordinato e compiuto (sulla base delle notizie fino ad oggi conosciute) del suo entusiasmo per le arti in genere, ma in particolar modo del suo mecenatismo artistico e della sua grande passione per la letteratura, per la pittura e la scultura, che lo portarono ad avere rapporti molto stretti e privilegiati con i più noti collezionisti e con i più grandi artisti della sua epoca.

    MARIO FARNESE:

    Una vita da guerriero

    NASCITA E ADOLESCENZA DI MARIO FARNESE

    Secondo la storiografia ufficiale, Mario fu il quartogenito figlio maschio di Pier Bertoldo II Farnese e di Giulia Acquaviva d’Aragona.³

    Di lui non si conosce con precisione né il luogo né l’esatta data di nascita, in quanto non risulta registrato nel Libro dei Battezzati della parrocchia di Farnese e neanche in quello di Latera, che però è andato in gran parte disperso.

    Secondo i vari studiosi farnesiani⁴ dal matrimonio tra Pier Bertoldo e Giulia Acquaviva nacquero da quindici a diciassette figli, che generalmente sono i seguenti: Ferdinando (o Ferrante) (1543-1606), Galeazzo (1544-1575), Fabio (1547-1579), Mario [1548 (?)-1619] e Alessandro gemelli, Giulio, Claudia, Violante, Francesca, Clelia, Vittoria, Ottavia, Virginia, Isabella (1548-?) e Flaminia (1556?).

    Pier Bertoldo ebbe inoltre, da un’altra donna, anche un figlio illegittimo, che fu chiamato Carlo.

    Nell’albero genealogico dell’Archivio Segreto Vaticano sono nominati i soli maschi: Ferdinando, Galeazzo, Fabio, Mario e Alessandro.

    Non è riportato Giulio, che è sicuramente esistito, in quanto registrato nel Libro dei Battesimi della Parrocchia di San Salvatore in Farnese con la seguente frase: «[…] alli XXIIII nascette un figlio all’Ill.mo ser Bertoldo Farnese la notte seguente al sacro fonte se chiamò Giulio».

    Questo libro è il più antico documento della parrocchia e, oltre a Giulio, sono elencati in esso altri cinque figli di Pier Bertoldo Farnese: Ferrante, Galeazzo, Fabio, Isabella e Clelia. Con molta probabilità gli altri nove o dieci figli furono battezzati in altra sede.

    Sulla base delle notizie che conosciamo e seguendo un ragionamento logico, basato sulle date di nascita certe e conosciute dei fratelli e delle sorelle, possiamo tentare di ricavare, con una buona approssimazione, anche la data di nascita di Mario.

    Possiamo allora dire che, essendo il fratello maggiore Ferdinando (o Ferrante) nato nel 1543, Galeazzo II nel 1544, Fabio il 22 gennaio 1547 e la sorella Isabella il 31 dicembre 1548, con molta probabilità, Mario nacque da parto gemellare con Alessandro⁶, tra la fine del 1547 e gli inizi del 1548.

    Secondo il Litta⁷, Mario Farnese nacque nel 1527, ma questa data è sicuramente errata e va spostata di oltre vent’anni, in quanto avrebbe avuto circa sei-sette anni più del padre, la cui data di nascita si fa risalire approssimativamente al 1521 circa (non abbiamo purtroppo nessun documento in proposito).⁸

    Il padre Pier Bertoldo II era diventato signore di Latera e Farnese e secondo signore di Giove nel 1540, dopo la morte del genitore Galeazzo I [1477 (?)-1540] e, come tanti suoi antenati, aveva intrapreso giovanissimo la carriera militare, raggiungendo abbastanza velocemente una posizione di rilievo tra i numerosi capitani di ventura che all’epoca operavano nella penisola. Lo troviamo, infatti, a fianco di personaggi molto noti, come Gian Paolo Orsini, Alfonso Gonzaga, Alfonso del Finale, Emanuele Filiberto di Savoia e Marcantonio Colonna, futuro eroe della battaglia di Lepanto.

    Tra il 15 e il 20 dicembre del 1542 si unì in matrimonio con Giulia Acquaviva, come risulta da un documento rinvenuto nel Comune di Amelia⁹, ma abitavano, in quegli anni, prevalentemente a Farnese con frequenti soggiorni a Latera, dove risiedeva la vecchia madre del Farnese, Isabella Anguillara.

    È verosimile che risalga proprio a loro e agli anni tra il 1550 e il 1560 la prima trasformazione della rocca del paese, da costruzione puramente difensiva a edificio residenziale.¹⁰

    Pier Bertoldo dettò il suo testamento il 20 agosto del 1560, morendo intorno ai quarant’anni d’et๹ e lasciando eredi universali i figli maschi: Ferrante (Ferdinando), Fabio, Galeazzo e Mario.¹² Alle femmine, Clelia, Vittoria, Flaminia, Ottavia e Virginia, destinò una dote di 5.000 scudi ciascuna se si fossero maritate, e di soli 1.000 scudi qualora fossero rimaste nubili o avessero intrapreso la vita monastica. Nel testamento non sono citate le figlie Claudia, Violante e Francesca, che con molta probabilità si erano già fatte suore.

    Pier Bertoldo morì verosimilmente poco dopo il testamento, poiché il 22 ottobre del 1560 un certo Giovanni Riminese presentò i conti «per commissione della Ill.ma Sig.ra Donna Giulia Acquavivq e del Signor Ferrante suo figlio».¹³ In quella data, pertanto, Pier Bertoldo doveva essere già deceduto.

    Tra il 1560 e il 1567, morì anche la moglie Giulia Acquaviva, perché in una nota ritrovata nell’Archivio Segreto Vaticano si legge che: «Ferrante Farnese e i fratelli il 27 giugno 1567 pagano per il castello di Latera il censo di tre scudi d’oro».¹⁴

    Pier Bertoldo aveva stabilito di far intraprendere al primogenito Ferdinando (o Ferrante) la carriera ecclesiastica e a Galeazzo, Fabio e Mario quella militare, che all’epoca poteva ancora rappresentare una buona professione, anche se rischiosa, e garantire rilevanti guadagni.

    Fu così che Fabio e Mario, quasi coetanei, furono inviati giovanissimi presso la corte dei parenti di Parma, in modo da poter imparare bene l’uso delle armi, studiare i manuali di guerra, di tecnologia di assalto e di strategie difensive più innovativi e ascoltare i consigli e le lezioni dei principali condottieri dell’epoca.

    Nel giro di pochi decenni, lo scenario militare e dei campi di battaglia si era trasformato: era cambiato il modo di reclutare e organizzare un esercito, di armarlo e di disporlo in battaglia, sia su terra che in mare, ed era mutato anche il modo di erigere una fortificazione e di affrontare un assedio. Erano finiti i tempi della «lancia» e della cavalleria pesante medievale.

    I signori e gli aristocratici che intendevano intraprendere la carriera militare dovevano conoscere bene i moderni sistemi di conduzione di una guerra o di porre un assedio.

    Dovevano studiare e addestrarsi per apprendere le nuove tecnologie e strategie militari, per essere al passo con i tempi, andando, proprio come i fratelli Farnese, presso uno Stato, un principato o un ducato più importante, che avesse un esercito strutturato secondo i più evoluti modelli bellici, meglio se collegato a una delle grandi potenze europee.

    Il Ducato di Parma, sia per rapporti di parentado sia come organizzazione, corrispondeva perfettamente a queste caratteristiche perché possedeva istruttori preparati e capitani ben addestrati. Era, inoltre, strettamente legato alla solida monarchia spagnola di Carlo V e al suo potente esercito, impegnato costantemente su più fronti bellici, che poteva rappresentare un’ottima e remunerativa collocazione per giovani desiderosi di intraprendere la carriera militare.

    LA «RIVOLUZIONE MILITARE» DEL CINQUECENTO

    La locuzione «rivoluzione militare», non condivisa peraltro da tutti gli storici, si riferisce a una radicale modificazione nella tecnologia e nelle strategie militari, avvenuta tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna, che portò notevoli cambiamenti delle forme di governo e favorì l’inizio del dominio coloniale europeo nel mondo.

    Tale termine fu introdotto per la prima volta dallo storico inglese Michael Roberts (1908-1997) nel 1955¹⁵, come risultato dei suoi studi sull’Impero svedese (1560–1660) e sulla base dei cambiamenti nella conduzione delle guerre, portati dalla diffusione delle armi da fuoco.

    In una relazione tenuta il 21 gennaio 1995 presso l’Università Queen’s of Belfast, che fu poi pubblicata come The Military Revolution, 1560-1660, lo storico collegò lo sviluppo delle tecnologie militari con i grandi cambiamenti storici, ritenendo che i cambiamenti nelle tattiche, nell’addestramento e nella dottrina militare, adottati dagli eserciti olandesi e svedesi nel periodo 1560–1660, con un grande utilizzo delle armi da fuoco, portarono ad avere truppe più addestrate ed eserciti sempre più permanenti.

    L’evoluzione delle tecnologie e delle istituzioni militari, che richiedevano un’efficace mobilitazione di risorse umane e una quantità crescente di capitali, furono i fattori che maggiormente contribuirono a plasmare le strutture sociali, economiche e politiche degli stati europei.

    Solo le grandi monarchie territoriali come Francia, Spagna e Inghilterra erano in grado di reggere uno sforzo economico così importante per mantenere apparati militari, eserciti e flotte all’altezza delle nuove esigenze, mentre le piccole repubbliche e l’aristocrazia si trovarono ad avere un ruolo bellico sempre più marginale.

    Altri studiosi, come Ayton e Price¹⁶, hanno proposto uno sviluppo ancora più anteriore della cosiddetta «rivoluzione militare», ai primi anni del XVI secolo, mentre Jeremy Black¹⁷ suggerisce un incremento più tardivo del 1560.

    Secondo Clifford J. Rogers, infine, ci furono differenti «rivoluzioni militari» nel corso dei secoli: prima una «rivoluzione della fanteria» nel XIV secolo, poi una «rivoluzione dell'artiglieria» nel XV secolo, poi una «rivoluzione delle fortificazioni» nel XVI secolo, poi una «rivoluzione delle armi da fuoco» fra il 1580 e il 1630, e infine una crescita della consistenza delle armate europee fra il 1650 ed il 1715.¹⁸

    Nel corso del Cinquecento, ma anche nel secolo precedente e in quello successivo, i conflitti bellici rappresentarono una delle principali occupazioni dei più potenti Stati europei e italiani, impegnati in una durissima competizione politica.

    Nel caso delle battaglie navali, il numero delle imbarcazioni dedicate a una regolare attività militare aumentò sensibilmente rispetto agli anni precedenti e anche nei conflitti terrestri il numero dei soldati aumentò esponenzialmente, per far fronte alle nuove necessità e per poter schierare reparti di fanteria sempre più consistenti.

    Le nuove armi da fuoco si diffusero in modo rilevante e portarono a significative innovazioni nel modo di costruire le fortificazioni e di schierare gli eserciti, con un drastico aumento dei costi di mantenimento dell’apparato militare, non solo in guerra ma anche in tempo di pace.

    La grande diffusione delle artiglierie, oltre a costringere i governi a mantenere un apparato logistico adeguato (depositi di munizioni, salnitro, pezzi di ricambio, animali da traino per i cannoni e quant’altro), provocò radicali mutamenti nelle architetture difensive.

    Le mura dei castelli, in precedenza alte e sottili perché destinate a una difesa passiva, si dimostrarono assolutamente inutili di fronte alle nuove armi da fuoco, all’uso di una polvere da sparo più efficiente e di palle di ferro anziché di pietra, che avevano un maggiore potenziale distruttivo. Questo costrinse i vari governanti a costruire mura più basse, ma soprattutto più spesse, molto più adatte ad assorbire l’energia cinetica dei colpi dei cannoni e a fornire una base adeguata alle artiglierie dei difensori.

    Aumentò però, di conseguenza, anche il numero di soldati da schierare, sia come difensori che come assedianti, mentre la durata media degli assedi diventò molto più lunga, a causa della difficoltà di entrare in città difese da bastioni, rivellini (protezioni in muratura poste di fronte a una porta per aumentarne la difesa), fossati con doppia parete e cannoni.

    L’esigenza di circondare completamente tali fortezze e l’alto numero di perdite che si registravano nel corso dei combattimenti e degli assedi (stimate dal 2 al 7% al mese¹⁹ nel caso dell’esercito spagnolo), comportò, inoltre, il mantenimento di un enorme apparato militare e uno sforzo finanziario prolungato nel tempo.

    L’impiego delle armi da fuoco e i miglioramenti delle tecniche di navigazione comportarono anche nella guerra navale una rivoluzione paragonabile a quella avvenuta sulla terraferma. Il primo utilizzo del cannone come arma contro le navi fu sviluppato nelle galee dalla repubblica di Venezia nel XVI secolo, che adottando un cannone del calibro di 175 millimetri, montato al centro della nave, e altri diciassette pezzi di minor calibro, erano in grado di affondare rapidamente una nave avversaria. Ma anche la galea, tipica imbarcazione mediterranea lunga e sottile, mossa da remi e vele, fu progressivamente surclassata dalla galeazza, grande imbarcazione a vela, dotata di un numero maggiore di cannoni e armi da fuoco.

    Il punto debole di entrambe le navi era il grande numero di uomini necessari per equipaggiarle (oltre 400 tra equipaggio, rematori e soldati), che limitava severamente la loro autonomia in mare. Fu così che, tra il 1450 e il 1650, il vascello a vela, pesantemente armato di cannoni, conquistò il predominio sui mari, perché un aumento delle dimensioni comportava una parità di equipaggio, era più funzionale e agile nelle manovre e poteva contrastare in modo migliore gli arrembaggi con l'uso di armi da fuoco.

    Un ulteriore vantaggio si ottenne poi quando si poterono imbarcare cannoni ad avancarica, montati nei ponti inferiori e sporgenti dai fianchi tramite portelli, che erano in grado di sfondare gli scafi delle navi nemiche.

    Dopo Lepanto (1571), le battaglie navali cambiarono sensibilmente e furono decise sempre più dalla precisione degli artiglieri che dal numero dei soldati imbarcati per ingaggiare combattimenti corpo a corpo.

    Il Seicento avrebbe poi consacrato il predominio dei grandi vascelli oceanici olandesi e inglesi, che permisero l’espansione europea in altre aree del globo.

    Tra il Cinquecento e il Seicento cambiò anche l’ordinamento, l’addestramento e la disciplina delle milizie, che durante gli scontri, per favorire il buon esito della battaglia, dovevano eseguire complicate manovre e precisi tatticismi. La necessità di una rapida trasmissione degli ordini comportò, inoltre, la costituzione di una ben precisa gerarchia di cariche, dal comandante supremo ai luogotenenti ai sottufficiali.

    Le esigenze di addestramento continuo richiesero che gli ufficiali svolgessero una funzione determinante nell’istruzione dei propri soldati. È stato calcolato, ad esempio, che i moschettieri, dalla marcia al tiro e alla ricarica, ricevevano circa 40 ordini.²⁰

    Il secondo livello di addestramento riguardava il movimento dei soldati quando erano in formazione, in modo da esercitare un fronte di fuoco pressoché continuo.

    Due erano i sistemi che venivano adottati: il primo, denominato la contromarcia, richiedeva che, una volta sparato, il fante si girasse sulla destra e attraversasse i ranghi per raggiungere il retro della formazione e ricaricare. Nello stesso momento, l’unità che era dietro avanzava e sparava. Nel caso, invece, che le file dei fucilieri fossero stati molto serrati, si ricorreva alla cosiddetta conversione o infilata, vale a dire che la prima fila, dopo aver sparato, si divideva in due e ciascuna parte marciava lungo i rispettivi lati (a destra e a sinistra) per collocarsi all’indietro e poter ricaricare.

    I mutamenti tecnici comportarono, pertanto, anche cambiamenti sostanziali nelle tattiche di combattimento. Sui campi di battaglia si rafforzò la preminenza della fanteria e delle armi da fuoco individuali portatili. L’archibugio dotato di un meccanismo di sparo a ruota sostituì gradualmente quello a miccia, perché permetteva un uso efficace anche in condizioni climatiche sfavorevoli (pioggia e vento) e perché aumentò la precisione e la cadenza di tiro, ma fu anch’esso affiancato e poi progressivamente sostituito dal moschetto, dotato di una canna più lunga e quindi di una maggiore gittata e velocità della palla, che poteva così trapassare le armature. La riduzione delle dimensioni e del peso delle armi da fuoco permise inoltre il loro utilizzo anche da parte dei cavalieri, che subirono evoluzioni e adattamenti durante la manovra d’assalto.

    Tra i fanti, all’inizio del Cinquecento, coloro che godevano di maggior prestigio erano i cosiddetti «rudi», disciplinati e spietati montanari svizzeri, che combattevano ordinati in massicci quadrati, formati anche da migliaia di uomini e che adottavano una tattica che ricordava molto quella della falange macedone. Praticamente immune dagli attacchi della cavalleria, grazie alla selva di picche lunghe 4-5 metri, e dotata di una forza d’urto quasi irresistibile, la compatta formazione elvetica non era però priva di punti deboli. Era infatti relativamente lenta e poco manovrabile, esposta agli attacchi sui due fianchi, nonostante la protezione di piccoli gruppi di archibugieri. Era però, soprattutto, vulnerabile al fuoco dei cannoni, che potevano aprire dei vuoti terribili nelle file di picchieri e scompaginare la formazione.

    A partire dal quarto decennio del XVI secolo si impone invece il modello dei tercios spagnoli. In queste formazioni, picchieri, archibugieri e soldati armati di spada e protetti da uno scudo si equilibravano e si proteggevano a vicenda, dando origine a un’unità più agile e bilanciata, che però richiedeva una grande coordinazione fra le parti.

    Nel complesso, comunque, la stretta associazione fra picca e archibugio (o moschetto) durerà fino alla seconda metà del Seicento, rappresentando una lunga stagione di transizione nella cultura bellica europea, l’era detta appunto pike and shot (picca e moschetto).

    Per quanto concerne i picchieri, invece, quelli della prima fila dovevano fissare a terra la loro arma (lunga circa cinque metri) e bloccarla con un piede, mentre le picche delle linee schierate dietro venivano puntate in modo da formare una sorta di muro contro la cavalleria. È stato calcolato che il loro movimento e la loro azione coordinata comportava circa 30 comandi.

    Oltre all’addestramento con le armi, fu posta pertanto particolare cura ai movimenti delle varie unità, che dovevano spostarsi con tempismo e con sincronismo, secondo gli ordini prestabiliti.

    Tutto questo avveniva chiaramente sulla carta. È infatti ancora oggetto di discussione se le varie compagnie di picchieri fossero effettivamente in grado, nei caotici e concitati momenti della battaglia, di eseguire manovre così precise e complesse, e se in tutto quel frastuono, aumentato dagli spari dei fucili, i soldati riuscissero a sentire gli ordini degli ufficiali. La figura del combattente a cavallo, protagonista indiscusso nel Medioevo, subì un notevole ridimensionamento e fu la categoria più colpita dalle innovazioni tecnologiche.

    Il nobile cavaliere, che aveva per secoli dominato le battaglie di tutta Europa, fu simbolicamente e materialmente disarcionato, perché l’utilizzo delle armi da fuoco mise drasticamente in crisi la sua forza principale, ovvero la carica frontale, e impose una sua drastica riconversione.

    Fig. 2. Jacob de Gheyn. Tre cavalieri con fucile corto. Incisione del 1607.

    Fig. 3. Jacob de Gheyn. Soldati con archibugio. Incisione 1607.

    Fig. 4. Jacob de Gheyn. Picchiere. Incisione. 1607.

    A trarne beneficio fu soprattutto la cavalleria leggera, molto più versatile e adeguata alle azioni di ricognizione, di disturbo e di copertura.

    Il largo impiego delle armi da fuoco portò dunque, inevitabilmente, a una formalizzazione e regolamentazione del loro uso, oltre che a una precisa collocazione del soldato, in un quadro di movimenti e di atteggiamenti programmati e istituzionalizzati. Disciplina e autocontrollo dovevano permettere ai soldati di affrontare uno scontro in cui, a differenza di quanto si possa pensare, avrebbe prevalso chi sparava per ultimo.

    A livello di curiosità, sembra che all’aumento della disciplina, della preparazione, dei prezzi delle armature e delle armi non sia corrisposto un aumento della paga dei militari, che si mantenne, con qualche eccezione, piuttosto costante tra il Cinquecento e il Seicento. La paga base di un fante veneziano era di 3 ducati e mezzo mensili nel primo Quattrocento e fino al secolo successivo, mentre un lanzichenecco poteva contare, per tutto il Cinquecento, su quattro fiorini mensili e un soldato spagnolo su tre scudi.²¹

    Tra le poche eccezioni a questa tendenza c’erano i soldati svizzeri al servizio del papa, che percepivano 1500 scudi d’oro intorno alla metà del Cinquecento e 1900-2000 scudi a fine secolo, e quelli dell’esercito francese, che percepivano una paga quasi doppia in termini nominali.²²

    Si deve però precisare che, oltre allo stipendio base, erano previste per tutti i militari una serie di entrate extra, sia legali (come il lavoro in postazioni fortificate o roccaforti, indennità d’arma, provvigioni varie e risorse in natura) che illegali, date di nascosto, per i buoni servizi prestati.

    Inoltre, l’entità della paga variava sensibilmente in relazione alla funzione svolta: un archibugiere guadagnava, per esempio, più di un picchiere e così via. Gli ufficiali formavano una categoria a parte, con stipendi molto più elevati, contrattati generalmente al momento dell’ingaggio.

    Per quanto riguarda il numero dei soldati, sebbene sui principali campi di battaglia medievali si potessero contare in alcuni casi eserciti che superavano anche i 20.000 effettivi, si trattava per lo più di una forza costituita da milizie feudali e urbane che si scioglievano non appena veniva meno l’occasione dello scontro.²³

    Intorno alla metà del Quattrocento le maggiori potenze della penisola (Milano e Venezia) mantenevano un apparato militare regolare che si aggirava attorno ai 10.000 soldati, mentre il re di Napoli, sebbene non disponesse di un vero e proprio esercito stabile, poteva contare su oltre 7.000 uomini.

    È stato affermato che nel secondo Quattrocento solo quattro paesi potevano vantare un esercito stabile di dimensioni significative: la Francia, la Borgogna, la repubblica di Venezia e lo Stato di Milano. Ancora, agli inizi del Cinquecento, sia l’esercito veneziano che quello milanese potevano competere sul piano quantitativo con le forze francesi e spagnole, che stavano operando nella penisola.

    Fu solamente dalla metà del XVI secolo che il divario fra gli Stati indipendenti italiani e le grandi monarchie si rese incolmabile. Verso la fine del Cinquecento l’esercito spagnolo nelle Fiandre contava oltre 80.000 uomini, mentre la Francia sfiorava i 70.000 effettivi. Le crescenti risorse finanziarie e demografiche dei grandi stati facevano oramai sentire il loro peso.

    In questa corsa verso eserciti sempre più potenti l’Inghilterra non tenne il ritmo della Francia e della Spagna: mentre queste ultime nel primo Seicento erano in grado di mobilitare eserciti di oltre 100.000 unità, il governo inglese riusciva a costituire un esercito che non superava i 20-22.000 uomini, una forza paragonabile a quella veneziana, seppur con una popolazione più numerosa.

    La guerra dei Trent’anni registrò un’ulteriore escalation: gli eserciti che si affrontarono in Europa centrale arrivarono sino a 150.000 uomini²⁴, mentre Venezia e il Ducato sabaudo potevano contare rispettivamente su circa 25.000 e 15.000 soldati.

    L’evoluzione militare di cui abbiamo parlato, come pure la diffusione di manuali e la creazione di scuole di formazione per ufficiali, avvenne più o meno di pari passo in Italia e in Europa, introducendo importanti mutamenti di carattere sia culturale che istituzionale.²⁵

    Un gran numero di nobili e aristocratici, come Mario e il fratello Fabio, acquisirono un’ampia esperienza nei teatri bellici europei, specie nelle Fiandre, considerate una vera e propria tappa formativa per un uomo d’arme.

    La mobilità tra le forze combattenti in Europa era assai elevata e comportava una rapida diffusione delle conoscenze e delle eventuali innovazioni.²⁶

    A partire all’incirca dalla metà del Cinquecento, gli assedi e le guerre di logoramento fecero sì che le tecniche militari si concentrassero prevalentemente sulle strategie di difesa, sull’arte dell’attacco con macchine, sui trinceramenti, sullo scavamento di fossati, sull’installazione di mine e sull’uso ingegnoso dell’artiglieria.

    Cambiò necessariamente anche la struttura degli eserciti. Nell’Italia del primo Quattrocento, l’unità organica di base era costituita dalla cosiddetta lancia, composta da un cavaliere con armatura pesante, uno con armatura leggera e un servitore o fante a piedi. Il numero dei componenti della lancia poteva oscillare da un minimo di tre fino a cinque o sei, mentre le compagnie di condottieri erano formate in gran parte da uomini d’arme e da un limitato numero di fanti.

    Per tutto il Quattrocento la composizione degli eserciti italiani non cambiò e la cavalleria rimase sempre l’arma principale, mentre i fanti svolgevano per lo più azioni di supporto ai cavalieri.

    Nel Cinquecento mutarono i rapporti, e sia i cavalieri che i fanti cominciarono ad adeguarsi alla linea evolutiva europea, con un incremento sempre maggiore di questi ultimi, che in alcuni casi arrivarono a rappresentare il 70% dell’esercito.

    Nella seconda metà del Cinquecento, le battaglie campali divennero sempre più rare, mentre le operazioni d’assedio diventarono il momento culminante dei principali conflitti bellici. Gli assedi duravano talvolta anche diversi mesi e testimoniavano l’efficacia della nuova architettura militare.

    I nobili cavalieri che combattevano per ottemperare ai loro doveri feudali verso il sovrano rappresentavano ormai solo una piccola minoranza in via d'estinzione. La maggior parte degli uomini d’armi del Cinquecento e del Seicento era rappresentata da mercenari aristocratici e da gente di qualsiasi ceto sociale, che facevano delle armi un mestiere, una specializzazione e non una semplice vocazione o tradizione ereditaria.

    Gli eserciti del Cinquecento erano dunque composti essenzialmente da professionisti, mercenari assoldati da imprenditori militari, che si impegnavano con i governi a reclutare una certa quantità di soldati provenienti spesso da regioni al di fuori dei confini del regno, dello Stato o della repubblica.

    Alcune regioni d’Europa più povere, come la Svizzera, si specializzarono nell’esportazione di questo particolare tipo di manodopera. Il mercenarismo svizzero rappresentò una vera e propria industria, gestita dall’autorità dei cantoni, e fu copiato fedelmente dai lanzichenecchi della vicina Germania meridionale. Altri serbatoi di mercenari furono la Guascogna, la Corsica, la Scozia, l’Irlanda, l’Albania e l’Italia.

    Anche la Spagna, che reclutava i suoi uomini in larga misura fra i contadini della Castiglia e del Portogallo, i famosi e bellicosi hidalgos, ricorreva spesso all’arruolamento di soldati di varie nazionalità, con i quali firmava un contratto e stabiliva un compenso mensile per le prestazioni fornite.

    Ora che ci siamo fatti un’idea, anche se piuttosto sommaria, di quella che era la situazione militare nel Cinquecento e nel Seicento, cosa che ci tornerà sicuramente utile nei capitoli successivi, per comprendere meglio le battaglie e gli assedi di cui parleremo, possiamo riprendere la storia interrotta dei due fratelli Farnese, Fabio e Mario.

    CAMBI DI GOVERNO NEL FEUDO DI LATERA E FARNESE

    Alla morte

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