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I grandi viaggiatori che hanno cambiato la storia del mondo
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I grandi viaggiatori che hanno cambiato la storia del mondo
E-book339 pagine5 ore

I grandi viaggiatori che hanno cambiato la storia del mondo

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Info su questo ebook

Da Erodoto a Marco Polo, da Cristoforo Colombo a Ferdinando Magellano, da Jacques Cousteau a Nellie Bly: la terra non è stata più la stessa dopo di loro

Ci sono viaggiatori che hanno cambiato il mondo attorno a loro semplicemente attraversandolo e raccontandolo.
Questo libro raccoglie le storie dei grandi personaggi che, con le loro imprese, hanno condizionato la storia. Uomini e donne che hanno aperto nuove rotte e scoperto nuovi territori, ma anche scardinato i meccanismi della vita e della società. Tutti loro, in modo rivoluzionario per l’epoca, hanno cambiato la mentalità delle generazioni a venire e hanno scoperto i segreti del mondo in cui viviamo. Attraverso le vicende personali di ciascun protagonista, la sua origine sociale e le motivazioni della partenza, sarà possibile imparare a conoscere meglio la storia che si cela dietro alle grandi imprese. Così che le paure e le impressioni dei loro viaggi si trasformino in un racconto in presa diretta delle esplorazioni più incredibili del globo terrestre. I segni delle loro straordinarie imprese sono ancora impressi in modo indelebile nelle loro carte e nelle nostre menti.

Gli esploratori e le esploratrici che hanno spostato più in là i confini del mondo conosciuto

Erodoto - Il padre della storia
Paolo di Tarso - L’inventore del cristianesimo
Marco Polo - A piedi all’altro capo della terra
Cristoforo Colombo - Il genio e l’inciampo
Ferdinando Magellano - Che non ha fatto il giro del mondo
James Cook - Là dove nessun uomo è mai giunto prima
Charles Darwin - E le tartarughe delle Galapagos
David Livingstone - Innamorato dell’Africa
Robert Peary e Frederick Cook - Inseguono il Polo Nord
Nellie Bly - L’indomita
Roald Amundsen - L’ultimo vichingo
Jacques-Yves Cousteau - Nel mondo del silenzio
Tony e Maureen Wheeler - A spasso per un lonely planet
Giorgio Pirazzini
È nato in Romagna nel 1977. Ha studiato Comunicazione e ne ha fatto il suo lavoro, spostandosi tra Italia, Lisbona e Londra. Dal 2007 vive a Parigi. I grandi viaggiatori che hanno cambiato la storia del mondo è il suo primo libro pubblicato con la Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2020
ISBN9788822747822
I grandi viaggiatori che hanno cambiato la storia del mondo

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    Anteprima del libro

    I grandi viaggiatori che hanno cambiato la storia del mondo - Giorgio Pirazzini

    Erodoto, il padre della storia

    (Circa 484-425 a.C.)

    «Erodoto di Alicarnasso espone qui le sue ricerche, perché delle opere grandi e meravigliose compiute sia dai greci che dai barbari non svanisca la memoria, né si oscuri la gloria, e per quale motivo vennero a farsi guerra fra loro».

    È un incipit famosissimo – e a ragione. Raramente le prime tre righe di un libro possono riassumere così superbamente sia l’opera sia la personalità del suo autore, l’Erodoto che Cicerone ha definito «il padre della Storia». Lo studioso si presenta, dichiara la sua origine e ci dice che ci parlerà delle guerre greco-persiane, dal 499 a.C. al 479 a.C., e aggiunge anche con che prospettiva lo farà. Perché le cose meravigliose non sono solo dei greci, ma anche dei barbari, cioè degli stranieri.

    Questa è la prima faccia di Erodoto, quella dello storico che si occupa di fissare la memoria della storia. I greci e i persiani si sono fatti la guerra per decenni ed Erodoto vuole raccontarcela. All’interno di questa cornice tematica si dipaneranno innumerevoli digressioni, frutto dei suoi viaggi attraverso il mondo conosciuto per capire l’origine di questo conflitto.

    Erodoto è nato intorno al 484 a.C. e lui stesso ci informa dove: ad Alicarnasso, l’odierna Bodrum, nella Turchia occidentale. È una città portuale situata al confine fra la Grecia e l’impero persiano. Come tutte le città di frontiera, per di più sul mare, è un continuo andirivieni di genti e merci. Il bambino Erodoto cammina fra le strade polverose scansando forestieri che parlano lingue sconosciute, vestiti in maniera diversissima e con abitudini stravaganti. Lo immaginiamo alzare gli occhi verso questi omoni, perché quasi solo gli uomini viaggiano nella Grecia classica; un bambino affascinato da un mondo così vasto che passa dalla sua città senza mai fermarsi.

    Alicarnasso era nata secoli prima come una colonia greca ma all’epoca della nascita di Erodoto è una città vassalla del re di Persia e amministrata da una donna, Artemisia, che si era fatta notare per la sua bilanciata combinazione di saggezza e spregiudicatezza. Il padre di Erodoto ha un nome persiano, Lyxes, mentre la madre, Dryò, è greca. Deve trattarsi di una famiglia benestante, sicuramente molto ellenizzata perché sia Erodoto che suo fratello Teodoro portano nomi greci e la sua lingua materna è il greco nella variante del dialetto ionico. Più volte nel suo libro, Le Storie, Erodoto commette alcune imprecisioni nel riportare nomi persiani, che ci fanno dubitare persino che conoscesse bene quella lingua. Sappiamo anche che è imparentato, cugino o nipote, con il poeta epico Parnassi, molto in voga all’epoca; infatti è incluso nel Canone di Alessandria, un elenco di scrittori greci che i grammatici del iii secolo a.C. considerano come modelli di purezza nei vari generi letterari – già allora con tutte le contaminazioni persiane, fenicie e, poco dopo, latine, si sente il bisogno di proteggere l’integrità della propria lingua.

    Abbiamo quindi un bambino che nasce in una famiglia mista, colta, in una città portuale, sull’asse di tre continenti, l’Asia, l’Africa e l’Europa: c’è una componente ambientale, c’è una componente familiare e sicuramente c’è una predisposizione benevola e curiosa verso il prossimo. La ricetta per creare le basi del viaggiatore Erodoto è completa.

    Per sapere cosa accade poi dobbiamo affidarci a un testo bizantino di ben 1500 anni dopo, la Suda, che ci informa come, tra i 25 e i 30 anni, Erodoto sia dovuto fuggire precipitosamente da Alicarnasso perché la famiglia è implicata in una – fallita – sollevazione contro il tiranno Ligdami, forse un nipote di Artemisia. La faccenda è seria: Parnassi viene messo a morte, mentre Erodoto si rifugia su un’isola rocciosa e montuosa a soli due giorni di navigazione, Samo, che fa parte della lega Delio-Attica – un ulteriore indizio della spiccata preferenza della famiglia per il mondo greco nel quale cerca riparo. La Suda prosegue: dopo l’esilio a Samo, Erodoto torna ad Alicarnasso alla testa della nuova rivolta contro Ligdami, che questa volta ha successo. Forse è vero, forse è parte del mito. Ci sono motivi per dubitare di questa versione romantica e avventurosa: lui non ne parla, prove archeologiche non ce ne sono e nemmeno abbiamo altre fonti che confermino l’avvenimento. E, per la verità, non ci sembra neanche il tipo. L’Erodoto che racconta le Storie non è bellicoso né focoso: piuttosto è curioso, intrigato, pieno di stupore. Non è neppure importante, perché Alicarnasso è il punto di partenza di Erodoto, la città, la famiglia e l’ambiente che l’hanno plasmato, ma che si lascia alle spalle per partire, perché il suo destino è altrove, sempre altrove.

    Dalla caduta di Ligdami, Alicarnasso si libera del dominio persiano e diventa parte della lega ateniese. Erodoto entra anche burocraticamente nel mondo greco, sebbene non abbia la cittadinanza greca e la sua stessa identità nazionale sia un soggetto controverso. In ogni caso, se torna o meno ad Alicarnasso, ci resta per brevissimo tempo e riparte per cominciare, o continuare, i suoi viaggi.

    Eccolo: trentenne o giù di lì, curioso del mondo e con denaro da spendere (probabilmente ha recuperato le proprietà di famiglia con la caduta di Ligdami) di fronte al mondo intero, che nella sua accezione va dal Gange alle Colonne d’Ercole, dalla Russia all’Africa centrale.

    Non conosciamo la cronologia di questi viaggi; al massimo in certi casi può essere dedotta dagli indizi del racconto. E allora non ci proviamo neanche: decidiamo di basarci sull’ordine in cui sono presentati nelle Storie e cerchiamo di entrare nel mondo di allora, a braccetto con Erodoto che lo sta attraversando, parlando con la gente, osservando, ascoltando le storie popolari e i miti, indagando. In certi passaggi sentiamo la sua voce in prima persona. «Un vero reporter», lo chiamerà Kapuściński che gli dedicherà un libro di viaggi.

    La prima tappa del viaggio è la sua terra, la Turchia occidentale, dove identifica le prime schermaglie tra la Grecia e l’impero persiano in un’epoca remota, quando la bellissima Elena fu rapita a Sparta e portata a Troia. Est contro Ovest, dunque, Asia contro Europa, concetto che in fondo è il soggetto del libro, l’eterno conflitto fra due mondi, una contrapposizione che affonda le radici lontano e che, suggerisce profetico, continuerà a tornare nella storia dell’uomo.

    Ma Erodoto è un narratore leggero, vivace, e accanto a un’analisi mitologica di un evento storico, vuole accostare anche racconti piccanti che alimentino l’interesse del pubblico. Quello più famoso riguarda la fine del re Candaule, immensamente orgoglioso della bellezza della moglie tanto da esigere che tutti i suoi sudditi fossero d’accordo nel considerarla la più bella donna del mondo. Forse trovò che il suo generale Gige fosse un po’ freddino di fronte a tale avvenenza, senonché, per convincerlo, gli ordinò di sbirciarla mentre si spogliava prima di andare a dormire. Lei se ne accorse e si inviperì: «Ora, caro Gige», la donna si rivolse al generale, «hai due scelte: o ti faccio uccidere per avermi disonorata, oppure uccidi tu mio marito e prendi il suo posto come re e nel mio letto». Gige fece la scelta che ci aspetteremmo.

    Il racconto delle imprese del re Ciro diventa spesso una scusa per descrivere gli usi e costumi dei persiani, alcuni falsi come il fatto che non costruissero templi o statue, cosa che stupisce visto che Erodoto è cresciuto sotto il loro dominio e deve conoscerli molto bene. Altri fatti sono deliziosi o spassosi, come la dissertazione in merito al sistema da essi adottato per prendere le decisioni: vanno infatti discusse prima da ubriachi e poi da sobri, e solo se in entrambi i casi si è d’accordo la decisione è approvata. Sono i germogli di un relativismo culturale che sorprende nella bocca di un greco del v secolo a.C., relativismo che viene estremizzato nel terzo capitolo quando dice chiaro e tondo che se ai Callati, una popolazione dell’India, è intollerabile l’idea di bruciare i propri morti come fanno i greci, ai greci è repellente l’idea di mangiare i propri morti, come fanno i Callati. «Tutti sono convinti che le proprie usanze siano quelle giuste», conclude Erodoto, con un sorriso beffardo verso i propri connazionali convinti della propria superiorità culturale.

    Qui emerge una terza faccia di Erodoto: viaggiatore, reporter ma anche etnografo. È immensamente interessato all’uomo, in ogni sua sfaccettatura, ed Erodoto sa che l’uomo è un prodotto del luogo e della società in cui cresce. Torneremo su questo punto, ma intanto camminiamo un po’ con lui verso la prossima tappa: Babilonia.

    È una città che conosce bene: si capisce dalla precisione delle descrizioni, che hanno aiutato molto gli storici, così come la sua indagine sulle tecniche di costruzione della cinta di mura che la proteggono – e qualche volta hanno anche fatto storcere il naso, come quando afferma che queste mura sono spesse ventisei metri e alte più di cento, come un grattacielo. Ma è impagabile entrare con lui all’interno del santuario di Babilonia e fermarsi sotto la statua di Baal, il dio del sole, circondati dagli altari e dalle statue d’oro massiccio – quella di Zeus pesa tonnellate! – e dove si eleva la torre di Babele, formata da otto torri una sopra l’altra. Nell’ultima c’è un letto tutto d’oro dove, gli dicono, dorme Baal ogni notte.

    Anche a Babilonia non resiste alla tentazione di divagare sugli antichi costumi: un tempo i babilonesi radunavano le ragazze in età da marito che venivano battute all’asta. Le più belle erano vendute e maritate per grosse cifre che venivano utili per la seconda parte dell’asta. Qui erano le più brutte e storpie a salire sul palco e, al contrario, il banditore offriva il denaro proveniente dal tesoretto accumulato dalle più belle per trovare loro marito. Purtroppo, lamenta, oggigiorno questa usanza non c’è più e i padri a corto di mezzi sono costretti a prostituire le figlie invece di sposarle.

    A malincuore si lascia Babilonia alle spalle, per andare però a scoprire un paese che lo affascina persino di più: l’Egitto, il cui viaggio sarà il più famoso e dettagliato. Erodoto ha percorso il paese in lungo e in largo e la narrazione è infarcita della prima persona, «mi sono recato», «ho chiesto», «mi sono convinto». Parla con i locali e si dimostra un gran chiacchierone, ci sono tantissime conversazioni e interviste; tuttavia, un chiacchierone con un’innata curiosità verso gli altri, non uno di quelli chiusi ad ascoltare la propria voce. È un uomo bonario, un po’ scettico e attento alla sensibilità altrui: ce lo immaginiamo come un Kapuściński, su e giù per le città e le campagne come un pipistrello, che parla con tutti, si mescola, è interessato, gentile, mai spocchioso.

    In Egitto due cose non possono sfuggire al viaggiatore: il Nilo e le piramidi. Il fiume è una vera ossessione e qui emerge un ennesimo nuovo aspetto delle sue inchieste: l’Erodoto geografo. Descrive il paese, la sua estensione, il suo clima, la sua conformazione e le differenze con le terre con cui confina, ma il fulcro del suo interesse è il prodigio del Nilo, che con le sue esondazioni periodiche lascia sui campi uno strato di fango scuro e fertile, il limo, che li concima. Perché le piene durano cento giorni e tornano ogni anno nello stesso periodo? Lo seguiamo nei templi: osserva, conversa, domanda, ascolta, pensa, compara, polemizza, trae conclusioni. La sua ricerca è infaticabile, ma infruttuosa. Raccoglie solo alcune teorie che lui stesso definisce bislacche, perché è un uomo razionale e sospettoso delle leggende, ma non resiste alla tentazione di dare una spiegazione altrettanto inverosimile lui stesso, chiamando in causa un complicato meccanismo meteorologico che alterna il sole e i venti piovosi, completamente privo di fondamento.

    L’altro mistero del fiume riguarda le sue sorgenti. Anche in questo caso Erodoto batte le città con la domanda sulle labbra: dove nasce il Nilo? L’unico che afferma di saperlo è un sedicente sacerdote di Sais, ma Erodoto lo liquida con «a me fece l’impressione che scherzasse», perché è troppo benevolo per chiamarlo bugiardo. Da buon reporter, quando deve scoprire qualcosa ci va. Arriva fino alla città di Elefantina, più o meno nella regione di Assuan, e lì, davanti alle paludi, deve arrendersi al sentito dire, di cui però non si fida. A discolpa della sua rinuncia a proseguire diciamo che è effettivamente una zona difficile e pericolosa e il mistero delle sorgenti del Nilo resterà inviolato per altri 2300 anni, fino alla spedizione del 1856 di John Speke e Richard Burton, quest’ultimo un esploratore che condivideva con Erodoto la motivazione della curiosità sopra il profitto.

    Visita le piramidi e non resiste alla tentazione di tracciare la storia dei faraoni che le hanno costruite, intervistando i sacerdoti di Menfi. La sua curiosità è onnivora: dalle tecniche di costruzione fino ai dettagli delle spese del vitto di così tante migliaia di operai – notizie straordinarie se pensiamo che Cheope dista da lui due millenni, cioè poco meno di quanto separi noi da Erodoto. Ma quando si tratta di datare la realizzazione fa una confusione terribile e sbaglia di più di mille anni confondendosi con un altro faraone.

    In Egitto viene per la prima volta a contatto con animali poco conosciuti o addirittura mai visti. I gatti non sono comuni in Grecia, mentre qui la fanno da padrone; sono dappertutto, persino imbalsamati nelle tombe. E poi ci sono i coccodrilli e i cavalli di fiume (l’etimologia di ippopotami) che, insieme, sguazzano nel Nilo. Gli ippopotami hanno, secondo lui, la pelle così spessa che, essiccata, se ne fanno aste per i giavellotti. Chissà dove l’ha sentita questa? I serpenti lo intrigano e parte alla ricerca di quelli alati che gli hanno detto venire dalla città di Buto; purtroppo, ne trova solo le ossa delle spine dorsali. Che siano fossili di dinosauro? Non mancano gli animali mitologici: la fenice che compare in Egitto ogni cinquecento anni, ma Erodoto l’ha vista solo dipinta. E in fondo, come dice, lo riporta per sentito dire ma lui non ci crede. Questo scetticismo è un tratto di fondo lungo tutta l’opera: «Io sono tenuto a riferire quello che si dice, ma non sono affatto tenuto a credervi», avverte il suo pubblico, accantonando la faticosa ricerca della verità. Erodoto è un edonista, ama il piacere del viaggio e della conversazione, non un analista.

    In Egitto il suo peculiare relativismo culturale viene intaccato, ma non, come ci aspetteremmo, per pendere faziosamente dalla parte dei greci, anzi. Addirittura parteggia per gli egizi, davanti ai quali è colmo di stima e di stupore: afferma che gli dèi greci siano importati da quelli egizi. Persino Eracle, secondo lui, è nato in Egitto. Se alle nostre orecchie questo è semplicemente falso, a quello di un contemporaneo greco è un abominio. Qui torna lo straordinario incipit del libro: «Le opere grandi e meravigliose compiute sia dai greci che dai barbari». Barbaro è chiunque non sia greco: persiani, egiziani, babilonesi, sciti, tutti. Nonostante non abbiano uno stato unito, i greci hanno una fortissima coscienza della propria superiorità culturale e sono fortemente nazionalisti, se ci passate il termine in assenza di una nazione. Quello che non è greco suscita sospetto nel migliore dei casi, dileggio nella normalità. Invece per Erodoto barbaro non ha un significato dispregiativo, anzi. Affermare che anche i barbari sono capaci di imprese grandi e meravigliose: è una novità assoluta, una modernità che più tardi sconterà fra i suoi connazionali.

    Si dilunga sugli usi e costumi degli egiziani: l’imbalsamazione dei morti, procedura della quale dà un resoconto in relazione alla tariffa richiesta, da quelle più a buon mercato fino a quelle più lussuose, consigli pratici su come tenere lontane le zanzare, abbondantissime per via degli acquitrini lasciati dallo straripamento del Nilo, e osservazioni sull’immortalità dell’anima, un concetto nato in Egitto che, polemizza, alcuni greci «di cui non faccio il nome» (Pitagora, che era morto poco prima della nascita di Erodoto) hanno spacciato come proprio.

    Dopo l’Egitto visita la Scizia, pressappoco la regione che comprende l’odierna Ucraina e la Russia centrale e meridionale. Sono balzi immensi: Erodoto ci catapulta da Babilonia alle piramidi, cioè duemila chilometri a ovest, e poi torna verso est di quattromila chilometri senza una parola sulle peripezie per arrivarci, come se i viaggi del v secolo a.C. non siano scomodi o pericolosi. E qui siamo costretti a porci la domanda più naturale. Erodoto, che ha visto tutto il mondo conosciuto, perché non ci parla mai di sé stesso? Ci piacerebbe sapere come si sposta questo intrepido viaggiatore antico. Da solo, con bagagli, a piedi, a cavallo, a dorso di mulo, in nave? Come paga le spese, dove alloggia? Prende appunti oppure ha una memoria prodigiosa? E i pericoli dei suoi viaggi, briganti e pirati? È un lavoro per lui, forse un commerciante, è una spia o viaggia per avventura e sete di sapere? Ma niente, nemmeno un indizio. Vedremo più tardi, ad Atene, il perché.

    Questo viaggio comincia sulle rive del Mar Nero. È una zona di grande fermento, il punto d’incontro di persiani, greci e la popolazione locale degli sciti, densa di scambi commerciali e culturali. Ne approfitta per guardarsi un po’ intorno prima di addentrarsi nelle pianure della Russia. Questo è il viaggio più scomodo e più avventuroso: il nostro colto greco, che ha discusso con i raffinati egizi, i pragmatici fenici e gli altezzosi persiani, si trova a convivere con popolazioni nomadi, con una ridotta agricoltura (che per i greci è intellettualmente superiore alla pastorizia) e poche risorse. Vivono nel freddo, in balia della natura, non possiedono città né palazzi e la loro unica arte, finissima, è l’intarsio di feroci animali d’oro in posizioni furibonde.

    Secoli prima le loro orde a cavallo erano straripate in tutta la Persia ma, ormai, si sono rammolliti da quando i mercanti di Mileto hanno impiantato colonie greche nel Mar Nero. L’ultima guerra seria che abbiano ingaggiato è stata contro Dario che aveva invaso i loro territori. Gli sciti, alla vista dei persiani, caricarono donne, figli e pochi averi sui carri e mossero verso nord, si bruciarono dietro pascoli e raccolti e avvelenarono i pozzi, evitando la battaglia: la stessa tattica militare che tornerà utile ai russi contro Napoleone. E dire che erano stati dei guerrieri temibilissimi e feroci! Fra i loro usi c’era quello di bere il sangue dello sconfitto dentro il suo cranio, dopo che era stato scuoiato incidendolo dietro le orecchie e rivoltato in un sol colpo come un calzino. La pelle della testa, debitamente conciata, veniva usata come tovagliolo ornamentale. Erodoto deve aver visto questo artigianato, dacché commenta che «così ho constatato che la pelle dell’uomo è spessa e lucida, quasi la più splendida di tutte», con la tranquillità di un Lévi-Strauss che prende appunti mentre i cannibali cucinano.

    La descrizione della Scizia penetra nell’entroterra degli sterminati orizzonti russi dove si accavallano le popolazioni: i sauromati che si innamorarono delle amazzoni e dalle quali si fecero comandare, i budini dagli occhi azzurri e capelli biondi, i tissageti che vivono di caccia, gli androfagi che, come dice il nome, sono cannibali e tremendamente selvaggi, i calvi, che nascono tutti senza capelli, abitano ai piedi di un albero ciascuno e non conoscono la guerra. Al di là di questa pianura non si hanno notizie certe ma i calvi dicono che sugli alti monti (gli Urali?) che si vedono in lontananza vivono uomini con i piedi di capra e altri che dormono sei mesi all’anno, «notizia alla quale mi rifiuto di credere», commenta Erodoto, il solito guastafeste pragmatico. È una terra aspra, dove l’inverno dura otto mesi, talmente rigido che non c’è fango, solo ghiaccio, e dove la neve è talmente fitta che la chiamano una coltre «di piume», e dove invece d’estate piove sempre e si affondano le caviglie nella melma.

    Non ci sono meraviglie, non come le intende Erodoto, cioè palazzi e statue d’oro, ma è la natura a riempire lo sguardo, le foreste, i grandi fiumi e persino «su una roccia un’enorme impronta del piede di Eracle, lunga due braccia». Erodoto l’ha vista in prima persona – probabilmente l’impronta fossilizzata di un dinosauro.

    Ci parla dell’India, un pezzo che è una delle più antiche descrizioni dell’India da parte di uno straniero, la terra dei «popoli che abitano in direzione dell’aurora», oltre la quale c’è il deserto, «che nessuno è in grado di descrivere». Ancora qualche secolo e i romani avranno invece un’approssimativa consapevolezza di un immenso regno al di là dell’India, l’impero cinese. Descrivendo gli usi e costumi degli indiani scompaiono i verbi in prima persona e la penna si fa più insicura. Gli indiani di Erodoto sono cannibali ma non uccidono nulla che sia vivo, vivono alla giornata, senza case, agricoltura, vestiti. Mangiano quello che raccolgono dalla nuda terra e si accoppiano pubblicamente «come animali da mandria». Da questo stralcio, che mostra un raro spregio, capiamo che Erodoto non ha mai visitato l’India, altrimenti un uomo come lui non si sarebbe limitato a considerazioni così superficiali senza affogare dolcemente nei miti e costumi indiani.

    Quando infatti parla per esperienza diretta, Erodoto lo riporta con fierezza, perché gli è costata fatica e dedizione. Anzi, se la ride «di quelli che hanno disegnato le carte del mondo» tratteggiando l’Europa grande come l’Asia, intendendo che questi cartografi dei suoi giorni non hanno mai messo un piede fuori di casa, sennò lo saprebbero che l’Asia è molto più grande dell’Europa.

    Lui ha visto questi paesi del mondo – il suo mondo – e ha impiegato anni per raggiungerli e percorrerli in lungo e in largo: dall’Oceano Indiano alla Colchide (la Georgia), dalla Libia alle porte dell’India.

    In mezzo a questi viaggi così ben dettagliati ce ne sono tanti altri che cura con minor profondità, ma altrettanto avvincenti. A Delfi ha ammirato i doni del re Creso all’oracolo per propiziarselo, piuttosto inutili perché Creso fraintese la divinazione e ne ricavò una sonora sconfitta contro il persiano Ciro che si intascò la sua leggendaria fortuna. Inseguendo il mito di Eracle approda a Tiro, in Fenicia (Libano), per visitare un santuario a lui dedicato, concludendo che i greci, su Eracle, dicono solo stupidaggini. In realtà è lui a prendere una cantonata perché a Tiro Eracle non era venerato: è Erodoto che confonde un dio fenicio con quello greco. Probabilmente visita anche l’Arabia, produttrice di cannella, incenso e di una resina chiamata ladano il cui profumo inebriante inonda tutta la pianura. Sicuramente esplora la Libia, densamente colonizzata da fenici e cartaginesi, i cui navigatori, in tempi antichi, avevano circumnavigato l’Africa intera con una spedizione leggendaria che aveva coinvolto centinaia di navi e decine di migliaia di persone. In Libia abitano le più diverse popolazioni, come i nasamoni che sono molto libertini ma gelosi della privacy: prima di giacere con una donna gli uomini piantano un bastone davanti alla porta e la sposa, al matrimonio, si concede a tutti gli invitati che hanno portato un dono. Erodoto, come sempre quando si tratta dei costumi delle popolazioni, si astiene dai giudizi morali, caso unico fra i greci. Man mano che ci si addentra nel deserto si incontrano gli ataranti i quali, per qualche motivo, non posseggono nomi individuali; quando fa troppo caldo imprecano contro il sole e gli scagliano contro ogni ingiuria.

    Curiosamente è proprio il suo continente, l’Europa, a porgli i più insormontabili problemi: sa che è delimitata a est dall’Asia e a sud dal Mediterraneo e dall’Africa, ma non ha idea di cosa ci sia a ovest o a nord, segno che le civiltà europee sono ancora distanti dal mondo greco – cosa che cambierà entro una manciata dei secoli con l’ascesa di Roma, che al tempo di Erodoto è una giovane repubblica da lui pressoché ignorata, per dire come è difficile decifrare nel presente i segni del futuro.

    Verso il 444 a.C. lo ritroviamo ad Atene, la gloriosa Atene di Pericle, una città in cui, fra poco più di cinquantamila cittadini liberi, si contano abbastanza artisti e pensatori da bastare a una nazione grande come l’Italia per un secolo.

    Questo è un momento d’oro per Erodoto. Entra nel circolo degli amici di Pericle, conversa con i grandi dell’epoca, lo scultore Fidia, i commediografi Euripide e Sofocle, il giovane storico Tucidide che lo vedrà inizialmente come un maestro scoppiando a piangere durante una sua lettura pubblica, l’architetto Ippodamo di Mileto, i filosofi Socrate e Protagora. Con Sofocle diventerà così amico che il drammaturgo gli dedicherà persino un epigramma. Non è più il provinciale di Alicarnasso cresciuto in una zona di confine: è un navigato viaggiatore, intriso di storie da raccontare e con davanti a sé un raffinato pubblico desideroso di ascoltarle.

    Forse è proprio ad Atene che comincia a scrivere Le storie, prima sotto forma di frammenti, come ricordi di viaggio sparsi, una trentina di monografie sulle storie delle popolazioni del mondo, la loro genealogia e i loro costumi, e poi aggregandoli in letture pubbliche. È la stessa forma della scrittura a richiederlo. La lettura deve essere ad alta voce, espediente necessario per rendere intellegibile la scriptio continua, cioè il fatto che i testi antichi sono scritti senza spazi e senza punteggiatura e occorre pronunciarli per segmentare le parole. Leggere è quindi un’esperienza condivisa o almeno condivisibile con chi sia nelle vicinanze, un’occasione sociale e un momento di intrattenimento e di interazione umana. Questi eventi sono il primo incarico di cui siamo certi: Erodoto viene pagato dalla città di Atene per leggere i suoi scritti.

    Il pubblico lo adora. Forse è per la voglia di stupire e di compiacere che alcune descrizioni si ingigantiscono, come le mura di Babilonia. Le letture si moltiplicano e così la sua fama. Erodoto è un narratore di immenso talento, cattura l’attenzione con la sua sensibilità e apre agli ateniesi le porte di paesi meravigliosi e selvaggi. Loro, così barricati all’interno della polis e della loro eccezionale cultura, scoprono che il mondo è più grande della loro Atene e che è più vario di quanto potessero immaginare i commediografi. Forse è questo il motivo della reticenza di Erodoto a parlare di sé nel libro, perché andrebbe fuori tema. Le storie sono un’enciclopedia del mondo: racconta ai greci l’esotismo dell’Egitto dei culti esoterici, un paese che parte dal Mediterraneo ma si incunea dentro l’Africa misteriosa, e poi li catapulta nelle steppe russe, fra intrepidi e feroci cavalieri vestiti di pelli di animali e la natura selvaggia, per poi affondare dolcemente nelle sabbie del Sahara.

    C’è un tratto fondante nelle Storie: molto spesso Erodoto usa concetti e termini greci adattandoli alle popolazioni lontane, identifica le divinità dei popoli che incontra con quelle greche come se tutti adorassero Zeus e l’Olimpo. Si parla di sincretismo, come se fosse un procedimento inconscio, ma è probabile che stia consapevolmente cercando di grecizzare i suoi racconti per renderli intellegibili ai suoi ascoltatori.

    Questo spiega anche l’altro grande talento – o difetto, dicono alcuni – di Erodoto: il cambio di registro e di temi, l’essere capace di volteggiare fra storie dei re, descrizioni geografiche, antropologiche e gli aneddoti più gustosi. Il suo fine è istruire e intrattenere, e quindi insieme alla fredda analisi degli avvenimenti, Erodoto cerca il coup de théâtre per drammatizzare il racconto. L’ellenista Herington lo ha chiamato «il centauro Erodoto», perché guardandolo negli occhi è un uomo razionale ma, sotto sotto, la sua immaginazione scalpita come una creatura selvaggia.

    Deve avere davvero successo perché parte anche in tournée: Delfi, la Beozia, Sparta, Corinto e Tebe, di cui però parla male perché sembra che abbiano rifiutato di pagarlo. Anzi, a Tebe le autorità hanno cercato di impedirgli di parlare ai giovani per evitare che venissero corrotti dalle sue idee. Il motivo è facile immaginarlo: Erodoto è un personaggio controverso, il suo relativismo culturale è scandaloso. Afferma che gli usi e costumi delle altre popolazioni non sono più selvaggi di quanto quelli dei greci appaiano a essi. Sostiene che le imprese dei barbari sono grandi e meravigliose quanto quelle dei greci e si meraviglia di fronte alle loro città e

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