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I capolavori
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E-book1.541 pagine23 ore

I capolavori

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Info su questo ebook

• La fattoria degli animali • 1984 • Senza un soldo a Parigi e a Londra • Giorni in Birmania • Omaggio alla Catalogna

A cura di Enrico Terrinoni
Traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti

La fattoria degli animali (1945) è una favola in cui gli animali soppiantano gli umani espropriando la fattoria in cui lavorano sotto continui maltrattamenti. Dopo aver cacciato gli uomini la gestiscono autonomamente, fino a quando lo spirito rivoluzionario non sarà tradito e verranno a imporsi altre forme di sfruttamento: un’allegoria delle rivoluzioni trasformatesi in autoritarismi, o anche un esempio di letteratura per l’infanzia in cui si legge in controluce la lotta eterna tra giustizia e ingiustizia. 1984 (pubblicato nel 1949) è l’ultima opera di Orwell e il suo classico per eccellenza. Romanzo distopico, vede la storia di una società futuristica e disumanizzata, rigidamente divisa in classi e dominata da un’ideologia perversa che sovverte i valori basilari della civilizzazione, come anche i cardini della comunicazione, primo tra tutti il linguaggio. È, paradossalmente, sia una visione apocalittica dell’evoluzione del socialismo agli occhi di un autore anarchico, sia una feroce critica di tutti i capitalismi, colpevoli di proporre propagandisticamente visioni distorte della realtà. Senza un soldo a Parigi e a Londra (1933), l’opera prima di George Orwell, è un prezioso scritto che contamina autobiografia, invenzione e reportage, una perla della letteratura della working-class. Ma il primo, vero romanzo è Giorni in Birmania (1934), in cui Orwell demistifica l’imperialismo inglese, denunciandone il razzismo e svelando la falsa coscienza degli europei. Omaggio alla Catalogna (1938) è un resoconto personale della Guerra Civile Spagnola, a cui Orwell partecipò; la sua è una testimonianza diretta e al contempo un’opera di grande interesse storico. È anche il racconto di un’utopia, di quel sogno interrotto che condusse l’autore alla stagione delle distopie che lo avrebbe reso immortale.
George Orwell
è lo pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato in India da una famiglia scozzese nel 1903 e morto a Londra nel 1950. Giornalista culturale, saggista, critico letterario, Orwell è oggi considerato uno dei maggiori autori di lingua inglese del Novecento. Partecipò alla guerra civile spagnola contro Franco; da posizioni socialiste, passò in seguito a una dura critica del regime staliniano.
Enrico Terrinoni
è professore ordinario di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia. È autore della monumentale traduzione dell’Ulisse di Joyce, pubblicata dalla Newton Compton con grande successo di critica. Ha tradotto, tra gli altri, Muriel Spark, Brendan Behan, G.M. Flynn, B.S. Johnson, John Burnside, Miguel Siyuco. Collabora con «Il Manifesto». È autore di Oltre abita il silenzio, saggio “eretico” di teoria della traduzione.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788822753380
I capolavori
Autore

George Orwell

George Orwell (1903–1950), the pen name of Eric Arthur Blair, was an English novelist, essayist, and critic. He was born in India and educated at Eton. After service with the Indian Imperial Police in Burma, he returned to Europe to earn his living by writing. An author and journalist, Orwell was one of the most prominent and influential figures in twentieth-century literature. His unique political allegory Animal Farm was published in 1945, and it was this novel, together with the dystopia of 1984 (1949), which brought him worldwide fame. 

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    Anteprima del libro

    I capolavori - George Orwell

    589

    Titoli originali: Down and Out in Paris and London (traduzione di Andrea Binelli);

    Burmese Days (traduzione di Andrea Binelli);

    Homage to Catalonia (traduzione di Francesco Laurenti e Fabio Morotti);

    Animal Farm (traduzione di Enrico Terrinoni);

    1984 (traduzione di Enrico Terrinoni)

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    Prima edizione ebook: gennaio 2021

    ISBN 978-88-227-5338-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    George Orwell

    I capolavori

    La fattoria degli animali; 1984; Senza un soldo a Parigi e a Londra; Giorni in Birmania; Omaggio alla Catalogna

    A cura di Enrico Terrinoni

    Traduzioni di Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti

    Edizioni integrali

    Indice

    George Orwell e il passato come futuro. Introduzione di Enrico Terrinoni

    Nota biobibliografica

    SENZA UN SOLDO A PARIGI E A LONDRA

    La salita in mezzo agli ultimi di un punk decoroso. Introduzione di Andrea Binelli

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    Capitolo ventiseiesimo

    Capitolo ventisettesimo

    Capitolo ventottesimo

    Capitolo ventinovesimo

    Capitolo trentesimo

    Capitolo trentunesimo

    Capitolo trentaduesimo

    Capitolo trentatreesimo

    Capitolo trentaquattresimo

    Capitolo trentacinquesimo

    Capitolo trentaseiesimo

    Capitolo trentasettesimo

    Capitolo trentottesimo

    GIORNI IN BIRMANIA

    Il fardello dell’uomo nero. Introduzione di Andrea Binelli

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    Capitolo quindicesimo

    Capitolo sedicesimo

    Capitolo diciassettesimo

    Capitolo diciottesimo

    Capitolo diciannovesimo

    Capitolo ventesimo

    Capitolo ventunesimo

    Capitolo ventiduesimo

    Capitolo ventitreesimo

    Capitolo ventiquattresimo

    Capitolo venticinquesimo

    OMAGGIO ALLA CATALOGNA

    Dalla rivoluzione alla rivelazione. Omaggio alla Catalogna come palestra politica e letteraria. Introduzione di Francesco Laurenti

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Capitolo undicesimo

    Capitolo dodicesimo

    Capitolo tredicesimo

    Capitolo quattordicesimo

    LA FATTORIA DEGLI ANIMALI

    Una favola per tutti. Introduzione di Enrico Terrinoni

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    1984

    La profezia della parola. Introduzione di Enrico Terrinoni

    Parte prima

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Parte seconda

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Capitolo settimo

    Capitolo ottavo

    Capitolo nono

    Capitolo decimo

    Parte terza

    Capitolo primo

    Capitolo secondo

    Capitolo terzo

    Capitolo quarto

    Capitolo quinto

    Capitolo sesto

    Appendice. I princìpi del Newspeak

    George Orwell e il passato come futuro

    Cos’è una profezia? Una voce nel deserto? Qualcosa che un veggente può aver scorto dei tempi a venire nel suo vissuto individuale? E a partire da dove l’avrà intuita? Dalle secche del presente, sulle spalle del passato, o nell’ombra di un futuro? E infine, se a pronunciarla, una profezia, è uno scrittore, uno scrittore politico come Orwell, avrà questa anche a che fare col nostro destino inteso quale avvenire immaginario che ci definisce e magari ci finisce? Sarà esplicitata, vale a dire, con pensieri e parole capaci a suo tempo, e per qualche strana magia, di divenire per sempre anche nostri?

    Nelle prime pagine del libro più oscuro e probabilmente più profetico di sempre, il Finnegans Wake di James Joyce, ci vien detto che è cosa bellissima (l’irlandese scrive bootifull che sta per beautiful, ma con dentro un bel bottino [booty] – ergo: corre l’obbligo di emendare quanto appena scritto: ci vien detto che è cosa malloppo bella…) ¹ quella di «rubare i nostri presenti storici ai passati postprofetici». ² Gioca coi tempi, Joyce, non solo con le parole, quasi che il continuum spaziotemporale in cui muoviamo i passi consentirà un giorno di leggere, in quel presente che si fa passato e dunque Storia, sempre una profezia a venire inverata proprio nell’ieri, nei giorni andati, in quei dì capaci, in un ricircolo eterno, di tornare sempre eternati, per così dire, e magari di continuare a stupirci all’infinito.

    Ma bando alle ciance, cosa c’entra tutto questo con Orwell? Non c’è scrittore più distante da Orwell di Joyce, si dirà – erroneamente. Entrambi, infatti, erano attratti dalla mutevolezza della parola e del suo potere, entrambi subivano il fascino del cambiare continuo dei sensi dei vocaboli in base al loro collocamento in una specifica parte di testo, entrambi erano insoddisfatti della mera capacità del verbo di raccontare il mondo così com’era, poiché convinti che il mondo così com’era altro non rappresentasse se non una copia venuta male di un canovaccio da migliorare. Ma a generalizzare si fa presto, non c’è dubbio, e quindi Orwell, popolare, letto da milioni di lettori, è scrittore politico; Joyce, elitario, letto da pochissimi, è apolitico. Finita là. E poi, l’uno impegnato, pronto a combattere e ad andare in guerra, l’altro sempre geograficamente lontano dai conflitti, quando questi imperversavano per l’Europa, e perfino per il suo Paese.

    È stato detto, ad esempio, individuando l’idealismo come il tratto idiosincratico della produzione di Orwell e della sua evoluzione personale, che a un certo punto della sua carriera – e nello specifico, nel terzo capitolo di A Clergyman’s Daughter (1935) – il fatto di essersi persino cimentato con l’imitazione stilistica di Ulysses di James Joyce sia da ritenersi del tutto contraddittorio. È stata considerata una scelta assurda e incoerente, un vero errore, essendo Orwell uno degli scrittori più impegnati del suo periodo ³ a differenza di Joyce. Non è difficile smontare simili assiomi. Al di là, infatti, di manicheismi critici, al di là della circostanza per cui il libro fantasmagorico di Joyce di cui sopra, Finnegans Wake, è stato a ragion veduta definito l’opera più antifascista scritta tra le due grandi guerre del Novecento , e al di là della profonda democraticità delle opere di Joyce ora fortunatamente riscoperta , sono convinto che Orwell e Joyce in un certo senso combattano la stessa battaglia, e anche con armi non troppo dissimili . Sapevano infatti entrambi che uno spettro si aggirava per l’Europa e per il mondo, lo spettro dell’ignoto; e con quel fantasma dovevano fare i conti.

    Trovarsi faccia a faccia con l’imprevedibile produce una fobia capace, come ammonisce Amleto, di spingerci a sopportare i mali che abbiamo, piuttosto che «involarci verso gli altri che non conosciamo» (atto

    III

    , scena 1). Amleto è una mano tesa verso l’Altro che spaventa, e involarci verso quel che non si conosce può di certo terrorizzare. L’opera di Orwell, come quella di Joyce, consente di avvicinare l’alterità che non conosciamo – ma al contempo, anche l’altra faccia, oscura, di noi stessi – senza scetticismo o paura. La sua guerra contro l’ignoto – contro la pagina bianca o contro la tabula rasa – un artista la combatte sul piano del linguaggio. Facciamo un esempio: uno zelante appassionato di Newspeak in 1984 di Orwell spiega al protagonista Winston che il compito dei compilatori del lessico della nuova lingua ideata per sostituire quella vecchia non è inventare parole, ma distruggerle, massacrando verbi, aggettivi e sostantivi, sinonimi e antonimi. Parti del discorso vengono cancellate dalla faccia del dizionario per non esistere mai più. È un passo importante del libro, poiché lungi dal rappresentare il futuro del linguaggio come apparentemente sembrerebbe, ci parla invece, come vedremo, di errori del presente e del passato. Ci dice, in soldoni, di una situazione scampata, non di una in attesa, ma di questo dirò dopo. Basti per ora aggiungere che, se la mia tesi è da avvalorare, essendo quella situazione linguistica distopica un palese errore di strategia dagli esiti nefasti, la soluzione dovrà viaggiare su binari opposti, quelli della creatività, della creazione (anche della creazione onirica, come avviene nel Finnegans di Joyce, in cui le parole inventate sono il vero protagonista).

    Ma il linguaggio di Joyce è per certi versi il contrario del Newspeak di Orwell: invece di standardizzare, di ridurre all’osso il lessico, lo genera affinché questo sappia moltiplicarsi, perché sappia creare nuove parole (words) per modellare nuovi mondi (worlds), attraverso semplici aggiunte, come quella della

    L

    di linguaggio. È affascinante, oltre che poco peregrina, l’idea per cui, nel procedimento perverso di creazione delle parole del Newspeak, nel loro smontaggio e rimontaggio, nel loro essere smembrate perché siano rimembrate, possa vedersi un’ironica allusione a quel libro definitivo di Joyce pubblicato qualche anno prima, dove quelle stesse tecniche erano state adoperate con fini del tutto opposti. Anche Orwell si spinge a tanto, dal punto di vista non della tecnica, ma immaginativo; e persino profetico, se è vero che si tratta di un inventore di un futuro fatto di tanti passati, tutti al contempo parte di una sua ossessione straniante.

    Il vero e il falso si confondono, a volte, nella sua opera, plasmandosi a vicenda a partire da un’analisi caustica e realistica di un presente in disfacimento. Certo, possiamo affermare che uno scrittore di romanzi sia sempre un inventore di storie, e se le sue storie sono profetiche, ovvero se si rivelano appartenere al nostro futuro come al suo passato allo stesso tempo, vorrà dire che la scrittura avrà finalmente squarciato il velo della finzione per irrompere nel reale e stravolgere un presente già lacero, mostrandone la natura posticcia, artefatta.

    Se Orwell avesse vissuto abbastanza da poter leggere il bel saggio di Slavoj Žižek, Violence, avrebbe concordato probabilmente con il concetto che la violenza vera, quella in grado di turbare perché ha l’apparenza della calma piatta, è la violenza invisibile del sistema, non quella visibile e soggettiva che sul momento ci colpisce nel corpo. Per questo in 1984 (pubblicato nel 1949) Winston sopporta le sofferenze inflittegli dal suo torturatore dagli occhi e il cuore di ghiaccio. Per questo i saggi animali mansueti in Animal Farm (1945) non si ribellano alla dittatura dei porci. Per questo in Homage to Catalonia (1938) il coraggio lascia in qualche caso il campo allo sconforto nel vedere uno spirito rivoluzionario tarpato e domato soprattutto dal fuoco amico. E ancora, per questo nei ricordi di Burmese Days (1934), o delle scorribande quasi picaresche di Down and Out in Paris and London (1933), a sopravvivere è sempre un indomito, audace e ardito alito di resistenza: resistenza anche alle tentazioni di subire il mondo per come ci viene raccontato quando non compiamo lo sforzo di andare incontro agli altri.

    Questo volume include i romanzi appena citati, e raccoglie, credo, un campione rappresentativo della complessa produzione narrativa di George Orwell, scrittore capace di muoversi dal solco autobiografico per abbracciare la distopia e l’incubo di un futuro possibile, un futuro che abbiamo oggi quasi sottomano. La selezione di testi e memoir qui operata risponde alla necessità di rivisitare, anche biograficamente, la parabola di uno degli scrittori più letti del Novecento, i cui libri di maggior successo trovano ancora spazio a fianco dei bestseller negli aeroporti internazionali, e le cui profezie sono sempre un passo avanti rispetto alla Storia: la prefigurano, infatti, come sogno tormentato e come una visione millenaristica al contrario, in cui i redentori appaiono sostituiti dal Leviatano e dal lupo archetipico che è nell’uomo, per continuare a condannarlo, condannarlo a qualche forma di ri-esistenza.

    Ma perché ho parlato di un percorso autobiografico in un’era post-teorica in cui siamo stati in parte abituati a pensare che la biografia non abbia molto da spartire con l’arte? Possiamo davvero evitare di considerare la produzione artistica un’escrescenza dell’autore poiché sempre da quello distaccata nella missione di consegnarsi al fruitore in una quasi libertà condizionata? Me lo chiedo perché Orwell, come tutti i grandi scrittori, non si affida alla fantasia soltanto quale fonte e sorgente di immagini, ma anche come risultato e traguardo. Ma gli scenari incredibili delle opere ultime sono radicati nell’esperienza, o meglio, nell’innocenza dell’esperienza, per citare un altro grande profeta della letteratura mondiale, William Blake. Orwell non inventa nulla, pur inventando tutto. L’opera narrativa di quest’uomo passato per esperienze estreme abbraccia il suo vissuto sfaccettato, in senso profondo. Un vissuto che le è centrale, proprio in quanto anela ai margini, alle periferie. Anche stando solo al conciso sunto offerto da Timothy Garton Ash nella «New York Review of Books» della biografia di Orwell, notiamo una certa ecletticità in grado di dirci tanto sulle sue opere: «studente talentuoso a Eton, entra nella polizia imperiale in Birmania, fa il lavapiatti a Parigi e il barbone a Londra; gestisce un negozietto in un villaggio, combatte nella Guerra civile spagnola, lascia la scena letteraria della sinistra londinese per andarsene in una fattoria in una remota isola scozzese, e poi muore di tubercolosi proprio nel momento del massimo trionfo letterario, all’età di quarantasei anni».

    La sua grandezza, di uomo e di scrittore, non risiede nel distanziarsi dal vissuto, ma nel coglierne il senso segreto con la saggezza di chi sa bene che la Storia è un dedalo da cui non si sfugge, un basilisco di fronte a cui gli occhi non si chiudono. Davanti alla Storia si è sempre testimoni, e non c’è modo efficace di negarla, perché è lei a negare a noi il diritto di farlo. Eppure, sempre in 1984 leggiamo che chi controlla il passato controlla il futuro! Un assioma irrefutabile, perlomeno nello scenario pre-post-apocalittico che descrive il romanzo. Il controllo del passato (e quindi la sua negazione, o meglio, il suo negazionismo) pone le basi per una nuova percezione del presente e del futuro. Ma la domanda di fondo è, e rimane: questa prospettiva è soltanto un monito, oppure l’esito concreto e plausibile di una profezia? Ho detto rimane perché, riguardo a questo scrittore eclettico ed eterodosso, la critica negli anni non soltanto si è schierata talvolta in fazioni, ma ha spesso dato interpretazioni contrastanti, ad esempio in merito al suo essere ottimista o pessimista, realista o disilluso, impegnato nel cambiamento o nel fotografare soltanto lo squallore inesorabile di un presente sbagliato e diretto dall’alto, senza il contributo della parte più vitale della società, gli ultimi. In altre parole, ci si è chiesti spesso se Orwell ci stia avvisando riguardo ai tranelli e le trappole della Storia, oppure se stia indicando il burrone che ci attende inesorabile sulla strada.

    È per un lettore una gran fortuna poter contare su una critica internazionale sterminata, e il caso del lettore italiano è particolarmente fortunato ; ma è ancor più importante, credo, avere la possibilità di fare riferimento a opere critiche uscite dalla penna dell’autore stesso. Orwell, infatti, è un autore che ha messo nero su bianco in tanti scritti le basi per un’interpretazione dei propri romanzi. Ed è questa la strada che principalmente seguirò nelle pagine seguenti, mantenendo però l’obiettivo anche di dar conto di una bibliografia sconfinata i cui risultati sono a volte divisivi.

    Di Orwell si è indubbiamente parlato in maniera strumentale in moltissimi modi, soprattutto dal punto di vista politico, per via della sua atavica renitenza a sostenere partiti ufficiali, e per quel suo idiosincratico essere rimasto sempre, fondamentalmente, un socialista-anarchico per natura, e dunque una figura sfuggente e non incapsulabile in schemi rigidi. Questa sua natura non l’ha certo reso esente dalle scelte importanti, in vita; anzi di scelte ne ha operate eccome, e coraggiose. Con la guerra di Spagna, con la decisione di andare a vivere tra gli ultimi, con la scrittura che mai ha prestato il fianco alla timidezza. Ma un artista vero rinuncia sempre a essere etichettato, e con questa verità noi critici dobbiamo fare i conti. Allora, un apparato analitico che consenta un approccio non univoco e non monolitico è fondamentale, e ne è riprova il fermento ermeneutico e di scavo che riguarda Orwell. Ma credo che si tratti di una tendenza inaugurata e indirettamente incoraggiata da lui stesso nella sfaccettata produzione saggistica, da cui emerge una grandezza ideale persino superiore, per certi versi, rispetto a quella delle opere narrative.

    Secondo David Lebedoff, ad esempio, sebbene Orwell sia per lo più conosciuto al grande pubblico per Animal Farm e 1984, sono i saggi e le recensioni che li precedettero a costituire la sua eredità più importante; e soprattutto, non v’è riga o pensiero in quei due romanzi che non rifletta la lucidità dei saggi da cui di fatto nascono . È un’opinione condivisa da Peter Marks, per cui i saggi non soltanto costituiscono una parte sostanziale della produzione di Orwell, ma raggiunsero con le loro osservazioni e argomentazioni un pubblico assai variegato, fino a consentirgli di plasmare l’immagine di uno scrittore «in grado di esaminare con intelligenza fresca e viva un vasto rango di tematiche», tra cui possiamo annoverare «le forze culturali e politiche in azione nelle società totalitarie», «le qualità che giustificano il furto letterario dalle opere di Dickens», «il futuro possibile della bomba atomica» e «il declino del linguaggio politico e il complesso fascino di Gandhi» ¹⁰. Il tutto proposto tramite un «infinito dispiegarsi di pensiero e scrittura informative e stimolante, con le sue imperfezioni e i lampi di illuminazione, i suoi eccessi e la sua eccellenza» ¹¹. Un’eccellenza derivante, secondo William E. Cain, proprio dalla resistenza di Orwell ad abbracciare una qualunque mentalità corporativa, e capace quindi di stimolare e spingere i lettori verso una «indipendenza di visione, un senso comune non comune, e un’integrità intellettuale»: tutte caratteristiche tipiche delle «satire sociali come Animal Farm e 1984 che gli hanno assicurato un posto nella storia letteraria» ¹².

    Orwell è un letterato, dunque, della cui scrittura è proprio nei saggi che troveremmo le chiavi. Come spiega lo scrittore Vittorio Giacopini: «Orwell vedeva nella scrittura un (piccolo) strumento di denuncia e una forma (essenziale) di testimonianza. Le parole non interpretano il mondo, le parole non riescono a cambiarlo, ma possono raccontarlo, possono combattere le reticenze e i segreti del potere, le bugie della storia ufficiale, le falsità dell’ideologia»; era proprio questo che Orwell aveva fatto della sua vita, «nei bassifondi di Parigi e di Londra, nelle miniere di Wigan, sul fronte aragonese e a Barcellona durante la guerra», ovvero «rendere pubbliche storie insignificanti della povera gente, registrare le vicende, i pensieri, le frasi dei vinti» ¹³.

    George Orwell si sentiva in ciò erede di una tradizione nobile ma porosa, sempre cangiante; eppure, chiaramente individuabile all’interno della tradizione inglese. Fu un erede di Dickens, per certi versi, perlomeno nelle ambizioni popolari, ed è infatti nel saggio su Dickens (1940) che leggiamo in controluce uno specchio incrinato da cui emerge l’ombra della sua stessa immagine, quella di uno scrittore che sarebbe poi stato letto in tante maniere diverse, talvolta contrastanti. Orwell stesso ricorda ad esempio che i marxisti considerano Dickens quasi un marxista, e i cattolici quasi un cattolico, sebbene entrambi lo definiscano un campione del proletariato (dei poveri, a detta dei cattolici) ¹⁴. Ma c’è poi anche chi vede nel suo sentimentalismo un non so che di borghese, e allora tutta la storia si complica; e si complica proprio perché Dickens proletario non fu, come non lo fu Orwell. Ma entrambi, sembra dirci il nostro scrittore, furono dei ribelli, capaci di attaccare le istituzioni con una ferocia mai vista prima. Dickens non fu scrittore proletario, per Orwell, perché come la maggior parte degli altri romanzieri del suo tempo, non scrisse del proletariato, soprattutto di quello urbano, se non come valvola di sfogo a uso spesso comico. Non aveva una visione politica d’insieme, sistemica, sebbene riuscì senza dubbio a far mutare il sentire dell’opinione pubblica su certe questioni specifiche. Il tutto, dunque, si ridurrebbe a una critica di tipo morale, senza suggerimenti politici veri, ma con la forza comunque di permettergli di schierarsi contro quelle istituzioni colpevoli di portare avanti battaglie sbagliate, e dunque di porsi ostinatamente contro leggi, Parlamento, sistema educativo.

    Se vogliamo, è questa natura prettamente umana, e idiosincraticamente britannica, ad accomunare Dickens a Orwell, oltre al fatto di difettare entrambi di entusiasmo imperialista o anche di sensibilità per il presunto potere evocativo della tradizione militaresca. Si tratta di un aspetto – quest’ambivalenza dickensiana nei confronti del proletariato – che ben coglie anche un altro scrittore assolutamente britannico eppure distante da tanti tratti distintivi dell’identità nazionale del proprio Paese, Anthony Burgess. In un libro sul romanzo di recente dissepolto dalla messe di suoi scritti non pubblicati, subito dopo aver annoverato 1984 tra i libri profetici, assieme alle sue stesse opere A Clockwork Orange e The Wanting Seed, Burgess affronta il proletarian novel parlando immediatamente di Dickens; spiega poi che «un romanzo quale Hard Times di Dickens, in grado di presentare le esistenze di lavoratori o membri delle fasce più basse della società, non è necessariamente un esempio di narrativa proletaria», per la quale si deve guardare semmai a Gorki ¹⁵. La prima questione da dirimere, tuttavia, legata anche al declino del romanzo proletario persino nella Russia sovietica, è che il genere è di norma legato all’idea di rivoluzione, e quando la rivoluzione viene negata, ovvero quando quel che ne resta appare soltanto propaganda, il romanzo proletario perde la sua funzione.

    L’altra questione di fondo sarebbe dunque se la letteratura proletaria sia o meno esente dal rischio di propaganda, poiché come spiega Orwell stesso in Writer in the Witness Box, «quel che si intende per letteratura proletaria è, in parole povere, un tipo di letteratura in cui viene data voce al punto di vista dei lavoratori, teoricamente assai diverso da quello dei ricchi» ¹⁶. Il pericolo è chiaramente che la letteratura proletaria venga a mescolarsi con quella di stampo socialista, con il relativo aumento del rischio di propaganda. La propaganda è un punto centrale della scrittura, saggistica e narrativa, di Orwell. Nel suo sguardo retrospettivo sulla Guerra civile spagnola, Looking Back on the Spanish Civil War (1943), quella che Žižek chiama violenza soggettiva si contrappone alla violenza simbolica del linguaggio e a quella sistemica, ancor più trasparente, fino a tradursi nel fatto di accettare la necessità della guerra, per giudicarla poi con un doppio standard: quello dell’idealizzazione romantica riguardo alla propria fazione, e quello della sottolineatura di immense atrocità riguardo alla fazione opposta. Orwell sembra avere ben chiara questa prospettiva nel suggerire che ognuno crede alle atrocità del nemico, ed è scettico nei confronti di quelle compiute dalla propria parte. Ciò non lo esime, ovviamente, dall’asserire che la differenza tra una causa giusta e una sbagliata esiste eccome, e il fatto di stare dalla parte giusta rincuora. Sembra però concentrarsi, in questo scritto – seguendo lo spirito già incarnato in Homage del 1938 – sugli aspetti umani, corporali, sui dettagli raccapriccianti e capaci di dare il ribrezzo: il ricordo della sporcizia delle latrine, del degrado di vite spese sì per combattere il Fascismo, ma in condizioni non dissimili da quelle di un qualunque esercito borghese. In altre parole, se dal punto di vista ideale prendere parte a una guerra giusta è sacrosanto, vanno evitate le idealizzazioni romantiche, perché la verità è chiara e semplice: per sopravvivere devi combattere, e per combattere devi sporcarti. E allora si capisce perché le rappresentazioni della Guerra di Spagna da parte dell’intellighenzia della sinistra britannica lo abbiano lasciato disgustato e disilluso, non solo per il loro cedere ai meccanismi della disinformazione, ma anche e soprattutto per la non comprensione dei fatti basilari della guerra, per l’esperienza degradante di dover combattere in condizioni comuni a tutte le altre battaglie, giuste o sbagliate, sporche o pulite che siano dal punto di vista ideologico. I fatti nudi e crudi della guerra sono il dolore delle pallottole, la puzza di corpi che sotto il fuoco nemico non trattengono più i bisogni, il freddo e la paura che sul momento fanno quasi dimenticare le cause politiche della guerra: perché un pidocchio è un pidocchio e una bomba è una bomba, sia che combatti per una causa giusta, sia che stai dalla parte sbagliata.

    Questo tornare sempre sul versante dell’umanità, del corpo, sarà fondamentale in 1984, nella resistenza che i corpi di Winston e Julia, soprattutto quando intrecciati, oppongono al totalitarismo; e per poter rompere quell’incantesimo ci sarà bisogno di un violento lavaggio del cervello che punti tutto non sulle idee, ma sulle paure primordiali. È per questo che Orwell si mostra così infastidito dai meccanismi della propaganda, fino al punto di descrivere ogni notizia riguardante la Guerra di Spagna pubblicata dai giornali inglesi come un insieme di bugie. Forse è proprio l’esperienza al fronte a fargli maturare la propria peculiare disillusione per i meccanismi dell’informazione, che in Animal Farm produce la riscrittura non soltanto dei Comandamenti (perché questo è comune a ogni ideologia totalitaria), ma anche la rappresentazione falsata dei fatti, sempre adattati alle necessità del regime. Inoltre, sempre nel saggio sulla guerra spagnola incontriamo il disincanto verso ogni nozione di oggettività, fino a dichiarare che con tutta probabilità saranno le bugie a passare alla storia, e non la verità. Non le verità.

    Aveva così posto le premesse, Orwell, per l’assioma, poi utilizzato in 1984, ma che già nel 1943 aveva esplorato in tutta la sua perturbante banalità, per cui due più due può certamente fare cinque. Come spiega ancora Lebedoff a più riprese nell’importante suo studio comparativo su Orwell ed Evelyn Waugh ¹⁷, la battaglia contro il Fascismo si configura più a grandi linee come una lotta per la verità, in quanto soltanto la verità può assicurare la sopravvivenza dell’umano. Con il sopravvento del fascismo, o dei fascismi, spiega lo studioso, l’idea per cui, anche negandola, la verità continua comunque a esistere vacillerebbe fino a produrre il suo contrario, ovvero la negazione delle condizioni stesse per cui una qualche verità possa ritenersi tale.

    Sbaglieremmo, infatti, a ritenere che la propaganda sia soltanto un mezzo, uno strumento di mistificazione di massa. La propaganda, quando sistemica, finisce per alterare il concetto di verità, e questo Orwell lo intuisce proprio nei giorni spagnoli, ma soprattutto al ritorno in patria, un’Inghilterra in cui, anche dalle parti dell’intellighenzia di sinistra, erano circolati resoconti distanti anni luce rispetto a quella che fu invece la situazione sul campo. In Spagna e negli anni successivi, Orwell mise in gioco la propria vita per un’idea di verità. D’altro canto, chi a distanza non l’aveva messa in gioco, e anche chi dalla comodità del proprio rifugio aveva preso le parti, direttamente o indirettamente, dei fascismi, aveva segnato una differenza non solo ideologica, ma di classe, calcolabile persino in termini di proprietà. Nel suo saggio del 1943 Orwell fa persino i nomi di questi ultimi, includendone nel triste insieme Petain, Montagu Norman, Ezra Pound, Cocteau, il Mufti di Gerusalemme, Antonescu, Spengler, e Marinetti; tutte persone a suo avviso unite da interessi comuni, ovvero dal fatto di avere qualcosa da perdere, e anelanti a un ordine gerarchico della società, ma soprattutto, terrorizzate dalla prospettiva di un mondo di esseri umani liberi e uguali.

    Parole, azioni, pensieri. Omissioni mai. E quanto alle parole, Orwell scorgeva un legame strettissimo tra queste e la politica. Nel bellissimo saggio Politics and the English Language del 1946 sembra prefigurare il problema dell’invenzione, e della distruzione, di una lingua, ma anche quello dell’abuso e del superamento dei linguaggi passati, fino al paradosso di far apprendere a degli animali la lingua degli umani, non per stanarne la fallacia, ma per utilizzarla con ancora più ferocia e spietatezza. Orwell, infatti, si mostra preoccupato dal declino del linguaggio, e ne dà la colpa non solo a presunti letterati sciatti, ma anche a cause politiche ed economiche. L’inglese si sta abbrutendo, argomenta, perché i nostri pensieri si stanno facendo brutti e futili. Muoiono le metafore, abbondano le immagini trite, manca la precisione nei resoconti e nelle descrizioni. In altre parole, l’immaginazione è stanca, assuefatta al dolore e alla devastazione, forse. C’è bisogno allora di opere letterarie metaforiche e allegoriche, di salti da un ambito semantico all’altro, ma anche da un panorama di aspettative culturali all’altro. Serve un salto verso l’inaspettato, che è anche un folle volo, ma è al contempo l’unica via d’uscita in un mondo che, come detto già, parte dalla consapevolezza dell’ignoto. Un salto da ignoto a ignoto, dunque. Animal Farm e 1984?

    Orwell anela dunque a parole piene, non insignificanti, e lamenta persino la perdita di significato pregnante dell’odiata parola fascismo, divenuta un contenitore atto a indicare qualcosa di non desiderabile. Se le parole perdono di senso è per il loro vacuo uso, un uso che deve tornare a essere politico ma senza divenire ideologico. E allora, nel fondamentale scritto Why I write del 1946, Orwell ricorda l’abitudine, da bambino, di inventare storie e far conversare personaggi immaginari, legando quelle ambizioni letterarie a una sensazione di isolamento e sottovalutazione. Gli impulsi della scrittura possono essere vari, non esclusi ovviamente quelli storico e politico: dire i fatti come sono, a uso della posterità, e con il desiderio di spingere il mondo verso una direzione. In questo, l’arte per Orwell deve essere politica. Ma a differenza della propaganda, non può essere messa al servizio della mistificazione, ma semmai, con la forza del traslato e strategie metaforiche, dare l’impressione di star parlando d’altro, per poi invece fornire chiari segnali su quel che si sta cercando di fare, nell’additare situazioni reali o indicare le relative direzioni correttive. Dice nel saggio di aver scritto, a partire dalla Guerra di Spagna, ogni riga, ogni parola, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico, chiarendo che l’arte è scrittura politica. Ma lo è non perché scrivere politicamente significa compiere un’astrazione. Scrivere politicamente significa essere, essere umani, avere vite relazionali in cui nulla può o deve esserci distante.

    Il suo punto di vista, quindi, non è quello del realismo naturalista; non è interessato soltanto a fotografare il reale, ma a renderlo vivo e interpretabile al fine di denunciare ciò che nella realtà proprio non va. Da realista inglese à la Dickens, dunque, Orwell sa di dover fare, nello scrivere, la scelta giusta, una scelta di campo, quella di un internazionalista che però non dimentica le proprie origini. E le proprie origini Orwell mai le dimenticò. Nel lungo saggio England your England (1941), scritto durante i bombardamenti, emerge fortemente il senso di appartenenza a una nazione, e non c’è demonizzazione aprioristica del patriottismo. Tutt’altro: la lealtà alla nazione viene vista come un concetto dotato di un potere incredibile sulle masse, nei confronti del quale impallidiscono persino il fascino che sanno ispirare il Cristianesimo o l’Internazionalismo socialista. È per questo che con il patriottismo bisogna farci i conti, e farli con una disposizione duplice nei confronti della propria nazione. D’amore e d’odio, per così dire – per evitare di cadere nel sovranismo, diremmo oggi. E Orwell si concentra su entrambi. Sulle peculiarità dell’essere inglesi, e dunque scettici per natura verso qualunque cosa sia straniera, e anche legati a piccoli campanilismi: la birra inglese è sempre la migliore, l’erba inglese è sempre più verde, le monete inglesi sono sempre le più pesanti: la tua civiltà continuerà ad appartenerti malgrado la tua freddezza verso i suoi aspetti meno piacevoli, sembra dirci Orwell.

    E così anche l’individualismo, che segna per Orwell la vera differenza tra gli inglesi e gli europei continentali. In Inghilterra, dice, si crede ancora nella libertà dell’individuo, una libertà che non ha a che fare con l’economia o con il diritto di sfruttare l’altro: è qualcosa di più individualistico, pertiene alla persona, al suo tempo, alle sue scelte di vita scevre da condizionamenti esterni o venuti dall’alto. Nemmeno la Chiesa anglicana ha mai avuto la forza di mettere a tacere l’impulso nonconformista del popolo inglese – sebbene si abbia l’impressione che qui Orwell faccia riferimento al suo di popolo, a quelli, ovvero, tra cui scelse consapevolmente di vivere e che volle ritrarre, le cui ambizioni, disillusioni e fallimenti decise di mettere al centro della propria opera, a partire dalle miniere di Wigan fino ai prol di 1984 che forse sono davvero l’ultima speranza.

    È un’analisi sociale, quella di Orwell, che in quanto non sistematica, e spesso impressionistica, non è priva di falle, non solo teoriche, ma anche dettate forse da un eccesso di ottimismo. Ottimismo della passione, più che della volontà. Altro che pessimismo. Quando infatti spiega che in Inghilterra il patriottismo infervorato di chi si mette a sventolare le bandierine dello Union Jack è roba di sparute minoranze, propone forse una sua testimonianza, ma anche una profezia sbagliata. Sarebbero passati pochi anni dalla sua morte e un patriottismo cieco avrebbe dato il peggio di sé in Ulster, ad esempio, o nell’accettazione certo non supina della dottrina Thatcher che avrebbe finito per far scomparire, e nel giro di pochi anni, tutto quell’humus sociale – ad esempio nelle zone minerarie – di cui Orwell si era innamorato fino forse a idealizzarlo a suo modo. E se poi avesse vissuto ai tempi della Brexit, forse si sarebbe ricreduto riguardo a certe posizioni di difesa o giustificazione della britannicità vista nei suoi aspetti più genuini e apparentemente innocui.

    Ma a ben vedere, nonostante qualche concessione alle generalizzazioni, Orwell è ben consapevole che sarebbe sciocco pensare a un corpo sociale inglese di quarantacinque milioni di persone (di allora) come a una unità di anime, perché non si deve cedere neanche per un attimo all’illusione che chi guadagna 100.000 sterline l’anno abbia davvero qualcosa in comune con chi ne guadagna una alla settimana. Ovviamente, la questione della disuguaglianza era cruciale in Inghilterra, dove non esisteva a suo parere una nazione, ma due, tre, quattro. Eppure, aggiungeva con tono disilluso e deluso forse, il patriottismo in qualche maniera si dimostra sempre più forte dell’odio di classe, e sempre più forte di qualunque forma di internazionalismo. In questo possiamo dire che il profeta non aveva tutti i torti, anche alla luce del futuro a cui non poté assistere. E infatti, lui parla del patriottismo dei proletari, profondo sebbene inconscio. Non è un patriottismo che fa infervorare di fronte alla bandiera inglese, ma un rimescolio di insularità e scetticismo verso qualunque cosa sia straniera, apparentemente assai più accentuato tra le classi popolari che tra i borghesi.

    Il socialismo di Orwell, come spiega Philip Bounds, «affonda le radici nel sentirsi esclusi, tipico dei membri della sua stessa classe sociale, ma si colora di un attaccamento profondo e romantico alla cultura dei proletari» che gli consente sempre di «abbracciare opinioni minoritarie, e criticare seriamente la sinistra ufficiale», non promuovendo nei fatti «la causa del socialismo», ma dedicandosi assai più a «descrivere quegli impulsi totalitari che rischiavano di corrompere la sinistra dal di dentro» ¹⁸. È un atteggiamento che presta il fianco ad accuse di pessimismo e disfattismo, ma che in realtà può essere letto alla luce di un concetto, quello di decency (decenza, correttezza, rispettabilità) in grado di spiegare molto dell’attaccamento di Orwell alle classi popolari con cui finisce per identificarsi.

    È un tema, quello della decency, che davvero tiene unite tante opere di Orwell. Secondo Anthony Stewart, in quest’idea consiste la possibilità migliore di realizzazione del socialismo per Orwell. Si tratta infatti del valore potenzialmente comune a tutti, senza distinzioni di classe, e che rende appetibili le promesse del socialismo anche ai non-socialisti, freddi di fronte alle sue versioni più intellettuali proposte dall’intellighenzia ¹⁹. La decency ha a che fare con il concetto di verità che pertiene all’essere umani, e riporta i valori del socialismo sul piano della natura, e non più solo della cultura. Sarebbe questo principalmente a tenere distante Orwell dagli apparati partitici, soprattutto nel periodo di consolidamento dello stalinismo negli scenari della sinistra internazionale. Uno dei più acuti critici orwelliani, John Rodden, ad esempio, risolve la questione spiegando che «le severe critiche [di Orwell] allo stalinismo non derivavano da alcun anticomunismo di riflesso, ma dalla sua preoccupazione per il bisogno di dire la verità, per la libertà e per la giustizia. Dopo la Spagna», spiega Rodden, «Orwell iniziò a vedere la verità messa a rischio soprattutto dalla propensione allo stalinismo nella sinistra britannica». E infatti, «nei suoi scritti giornalistici dalla Spagna si diede da fare in tutti i modi per rendere pubblica la sua esperienza diretta di come il

    POUM

    fu soppresso a Barcellona, sentendosi ostracizzato poiché metteva in discussione una linea del partito» ²⁰.

    A differenza, infatti, di tanti altri intellettuali inglesi dello stesso periodo, la radicalizzazione politica di Orwell non era avvenuta durante o dopo gli anni universitari, ma dopo il servizio prestato nelle forze di polizia in Birmania, e si era colorato di esperienze estreme a contatto con gli emarginati, e poi abbracciando le armi in Spagna. Le sue posizioni politiche in sostanza erano di impronta più naturale che culturale, e nel 1944 disse al suo amico John Middleton Murry, collocato sul fronte pacifista, di ritenere un segno di onestà intellettuale il diritto di criticare la Russia di Stalin. Considerava l’incapacità dell’intellighenzia britannica di sinistra di attaccare la Russia, un sintomo di mancanza di coraggio ²¹.

    La battaglia di Orwell condotta sui binari di un pensiero politico e sociale eretico, come spiega Stephen Ingle, serve a reperire proprio all’interno della working class, e senza retorica o propaganda, quei valori in grado di creare una coscienza di classe basata sui fondamentali dell’uguaglianza e della solidarietà, convinto che i partiti ufficiali di sinistra avessero abdicato a quegli stessi valori, svuotandoli del loro contenuto per poi utilizzarli soltanto come mere parole, meri spauracchi e simboli vacui: «la caratteristica più evidente e duratura della decency del proletariato era l’uguaglianza… Il senso di uguaglianza, secondo lui, era radicato fin nel profondo nella vita delle famiglie proletarie, in cui le relazioni familiari erano meno tiranniche» ²². Questo rapporto tra valori di un socialismo naturale e l’istituzione della famiglia sembra essere per Orwell la vera forza da scorgere e a cui attingere, e forse quel messaggio disperato di Winston in 1984 in cui l’unica speranza è detta risiedere tra i prol è un riferimento neanche troppo nascosto a questa sua incrollabile fiducia nelle potenzialità rivoluzionarie della classe lavoratrice. E allora, alla domanda che molti si sono posti, del perché Orwell sia stato così contrastato, se non odiato, dalla sinistra ufficiale e alle accuse di disfattismo avanzate non solo in Inghilterra ²³, si può rispondere che sia la scelta di andare in Spagna sia, prima ancora, nelle miniere del Wigan è stata dettata dalla volontà di difendere quella common decency tipica dei nuclei familiari proletari ²⁴.

    E se poi in Animal Farm la condanna sembrerà essere non più al socialismo di Stato, ma anche all’idea di rivoluzione, questo è soltanto perché si continua a leggere la politica di Orwell con lenti diciamo istituzionali, mentre già dal periodo spagnolo egli aveva maturato un profondo scetticismo e una radicata distanza rispetto alle letture intellettuali delle modalità di raggiungimento del socialismo. Gli esperti di socialismo e gli ideologhi l’avevano lasciato definitivamente disilluso; ma parlare di una generale disillusione per il cambiamento e il raggiungimento degli ideali socialisti (uguaglianza e solidarietà in primis) non convince.

    A Orwell mancava qualunque entusiasmo per il socialismo parlamentare, e nonostante sia stato redattore letterario al «Tribune», del Labour party e delle sue figure prominenti non scrisse quasi mai ²⁵, a riprova del fatto che quel tipo di atmosfera non avesse per lui alcun appeal. Al contrario, «in una famiglia proletaria… respiri un’aria di calore, di decenza, profondamente umana, difficile da trovare altrove. Vorrei dire che un lavoratore manuale… ha più possibilità di essere felice di una persona colta» ²⁶. Un sentire, questo, che può apparire pregiudizialmente anti-intellettuale e che è stato messo in discussione non soltanto dagli appartenenti agli apparati, ma anche da fini analisti dello schieramento progressista – vedi il profondo scetticismo al riguardo di Raymond Williams e le riserve di Homi Bhabba ²⁷. Ed è anche vero che la descrizione delle vite degli umili – soprattutto nel caso di Wigan Pier e delle esistenze dei minatori – può apparire controversa, e ancora in un certo senso legata ai primissimi anni della formazione borghese di Orwell. Fu infatti accusato persino di ipocrisia per l’indulgere eccessivamente sulla sporcizia dei minatori e su quella delle loro abitazioni; ma in realtà, come spiega Patricia Rae, Orwell mette in campo una forma di contro-antropologia, in cui i dettagli apparentemente offensivi «sono calcolati per drammatizzare le pecche tipiche degli etnografi britannici degli anni Trenta, terrorizzati dal farsi contaminare dai propri soggetti», e dunque intenti a nascondere i propri pregiudizi ²⁸.

    A ben vedere, se c’è un tratto comune in tutta la narrativa di Orwell, da Burmese Days ad Animal Farm, passando per Wigan Pier, per gli scritti catalani, per la saggistica di guerra, e per finire con 1984 – il libro, tra i suoi, decisamente più studiato – questo è il tentativo di stanare con onestà e tenacia i pregiudizi, le verità rivelate e accettate il senso di tranquillità regalatoci dal non accorgerci, o dal non volerci accorgere, non solo degli altri, ma della violenza sistemica che ci circonda e regola i rapporti sociali, economici, e politici. In definitiva, il percorso letterario e politico di George Orwell non è profetico, perché si rifiuta di offrire verità valide in assoluto, ma lo è eccome se intendiamo la profezia in quanto monito, in quanto voce scevra da condizionamenti, attenta a spiegarci come un futuro possibile possa avere le sue radici in un presente da riscoprire, e come questo finisca per nascere da un passato che non va dimenticato con troppa facilità.

    ENRICO TERRINONI

    1º maggio 2020

    1 Altri significati più colloquiali del termine booty andrebbero anch’essi presi in considerazione in una sua straduzione alternativa.

    2 James Joyce, Finnegans Wake, Oxford

    UP

    , Oxford 2012, p. 11, righe 30-1 (la traduzione è di chi scrive).

    3 Fernando Galván, The Road to Utopia, or On Orwell’s Idealism, in Alberto Lázaro, The Road from George Orwell: His Achievement and Legacy, Peter Lang, Bern 2001, pp. 15-32.

    4 Simon Carnell, «Finnegans Wake», the Most Formidable Anti-Fascist Book Produces between the Two Wars, in Finnegans Wake: Teems of Times European Joyce Studies, 4 (1994), pp. 139-63.

    5 Si veda Declan Kiberd, Ulysses and Us. The Art of Everyday Living, Faber & Faber, London 2009.

    6 Si veda Keith Williams, The Unpaid Agitator: Joyce’s Influence on George Orwell and James Agee in James Joyce Quarterly, vol. 36, n. 4, 1999, pp. 729-63.

    7 Timothy Garton Ash, Orwell in 1998, «The New York Review of Books», 22 October 1998.

    8 Di seguito un elenco non esaustivo dei tanti contributi fondamentali usciti dalla penna di nostri intellettuali negli ultimi decenni: Romolo Runcini, Illusione e paura del mondo borghese da Dickens a Orwell, Laterza, Bari 1968; Giovanni Zanmarchi, Invito alla lettura di George Orwell, Mursia, Milano 1975; Stefano Manferlotti, George Orwell, La nuova Italia, Firenze 1979; Stefano Manferlotti, Anti-utopia: Huxley, Orwell, Burgess, Sellerio, Palermo 1984; Francesco Marroni, Carlo Pagetti, Oriana Palusci (a cura di), George Orwell 1984: un romanzo del nostro tempo, Clua, Pescara 1986; Fernando Ferrara, La lotta contro il leviatano: l’analisi dei sistemi culturali e dei conflitti fra individuo e potere nell’opera narrativa di George Orwell, Pironti, Napoli 1981; Guido Bulla, Il muro di vetro: Nineteen Eighty-Four e l’ultimo Orwell, Bulzoni, Roma 1989; Carlo Pagetti, Il diario e il microfono: il pianeta di George Orwell, Tirrenia stampatori, Torino 1994; Angelo Arciero, George Orwell: contro il totalitarismo e per un socialismo democratico, Franco Angeli, Milano 2005; Beatrice Battaglia, Orwell oggi Orwell, Liguori, Napoli 2013; Vittorio Giacopini, George Orwell, o l’indecenza del potere, in George Orwell, Come un pesciolino rosso in una vasca di lucci, Eleuthera, Milano 2018, pp. 9-79.

    9 David Lebedoff, The Same Man. George Orwell and Evelyn Waugh in Love and War, Random House, New York 2008.

    10 Peter Marks, George Orwell the Essayst. Literature, Politics and the Periodical Culture, Bloomsbury, London 2011, p. 2.

    11 Ivi, p. 202.

    12 William E. Cain, Orwell’s essays as a literary experience, in John Rodden, The Cambridge Companion to George Orwell, Cambridge

    UP

    , Cambridge 2007, pp. 76-86, p. 76.

    13 Giacopini, Op. cit., 2018, pp. 40-1.

    14 Il riferimento per i saggi citati è George Orwell, The Collected Essays, Journalism and Letters, 4 voll., eds Sonia Orwell and Ian Angus, Secker & Warburg, London 1968-70.

    15 Anthony Burgess, On the Novel, The International Anthony Burgess Foundation, Manchester 2019, pp. 73-4.

    16 George Orwell, The Complete Works, 20 vols. ed. Peter Davison, asst. Ian Angus and Sheila Davison, London: Secker & Warburg, 1998, vol

    XII

    , p. 282.

    17 Lebedoff, 2008, passim.

    18 Philip Bounds, Orwell and Marxism. The Political and Cultural Thinking of George Orwell, I.B. Tauris, London/New York 2009, p. 9.

    19 Anthony Stewart, George Orwell, Doubleness and the Value of Decency, Routledge, New York 2003, p. 153.

    20 John Rodden, Every Intellectual’s Big Brother. George Orwell’s Literary Siblings, Uni of Texas Press, Austin 2006, p. 30.

    21 Orwell, Op. cit., 1968-70, vol. 3. p. 203.

    22 Stephen Ingle, The Social and Political Thought of George Orwell. A Reassessment, Routledge, London and New York 2006, p. 56.

    23 Vedi la famosa recensione di Togliatti, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia: Hanno perduto la speranza, in «Rinascita», anno

    VI

    , nn. 11-12, novembre-dicembre 1950. Ne discuterò più in là nell’Introduzione a 1984.

    24 Ingle, Op. cit., 2006, p. 142.

    25 Ivi, p. 143.

    26 George Orwell, The Road to Wigan Pier, Penguin, Harmondsworth 1963, p. 104.

    27 I due contributi a cui si fa riferimento sono presenti in Harold Bloom, George Orwell’s 1984 (New Edition), Bloom’s Literary Criticism, New York 2006; Raymond Williams, Nineteen Eighty-Four in 1984, pp. 9-30; Homi K. Bhabba, Doublespeak and the Minority One, pp. 179-88.

    28 Patricia Rae, Orwell’s Heart of Darkness: The Road to Wigan Pier as Modernist Anthropology, in Bloom, Harold, George Orwell. Updated edition, Chelsea House Publishers, New York 2007, pp. 63-96.

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1903. Eric Arthur Blair nasce a Motihari, nel Bengala, il 25 giugno, dove il padre è impiegato nell’amministrazione coloniale.

    1904. Torna con la madre e la sorella in Inghilterra, e si stabiliscono a Henley-on-Thames, nell’Oxfordshire. Sarà il primo di una lunga serie di traslochi.

    1911-16. Viene ammesso alla St Cyprian’s Preparatory School in Sussex.

    1912. Il padre torna in Inghilterra e la famiglia si trasferisce momentaneamente a Shiplake, nell’Oxfordshire.

    1914. Pubblica la prima poesia, Awake! Young Men of England.

    1917-21. Frequenta il famoso college privato di Eton.

    1922-27. È agente della Indian Imperial Police in Birmania.

    1927. Durante un periodo di congedo in Inghilterra rassegna le sue dimissioni dalla polizia imperiale indiana, che divengono effettive nel gennaio del 1928. Nell’ottobre, traendo ispirazione da Il popolo dell’abisso di Jack London, compie le prime esperienze nell’East End londinese condividendo la vita dei barboni.

    1928-29. Vive nei sobborghi proletari di Parigi dando ripetizioni di inglese e facendo per un periodo il plongeur. Inizia a scrivere Down and Out in Paris and London e Burmese Days.

    1929. Prime avvisaglie di tubercolosi. Passa un periodo in ospedale dopo episodi di tosse con sangue.

    1930-31. Vive lunghi periodi di vagabondaggio e gira l’Inghilterra facendo lavori umili e saltuari tra cui la raccolta di luppolo.

    1932-33. È insegnante in una scuola privata nel Middlesex.

    1933. Down and Out in Paris and London viene pubblicato da Victor Gollancz.

    Insegna francese al Frays College, nel Middlesex.

    1934. Burmese Days viene pubblicato da Harper & Brothers, a New York.

    1935. A Clergyman’s Daughter viene pubblicato da Gollancz.

    1936. Keep the Aspidistra Flying viene pubblicato da Gollancz.

    Sposa Eileen O’Shaughnessy.

    Partecipa alla Guerra Civile spagnola per difendere la repubblica dal colpo di Stato fascista.

    1937. Si avvicina al

    POUM

    (Partido Obrero de Unificación Marxista) con cui combatte sul fronte d’Aragona.

    The Road to Wigan Pier viene pubblicato da Gollancz.

    Viene colpito alla gola da un cecchino franchista a Huesca e portato in vari ospedali prima di essere ricoverato in un sanatorio fuori Barcellona. Intanto, dopo il tentativo degli stalinisti di sopprimere il

    POUM

    , nel giugno scappa dalla Spagna con Eileen e in treno raggiungono la Francia, per poi riparare a Wallington.

    1938. Homage to Catalonia viene pubblicato da Secker & Warburg dopo il rifiuto di Gollancz.

    Si iscrive all’Independent Labour Party.

    1939. Coming Up for Air viene pubblicato da Gollancz.

    Lascia l’

    ILP

    per le posizioni di contrarietà all’ingresso in guerra.

    1941. The Lion and the Unicorn viene pubblicato da Secker & Warburg.

    1941-43. Lavora alle produzioni radiofoniche della Indian section della

    BBC

    ’s Eastern Service.

    1943. Lascia la

    BBC

    e diventa literary editor per il «Tribune».

    1945. Diventa corrispondente di guerra dalla Germania e dalla Francia per l’«Observer» e il «Manchester Evening News».

    Muore la moglie Eileen Blair. Nel 1944 la coppia aveva adottato un figlio, Richard.

    Animal Farm viene pubblicato da Secker & Warburg.

    1946. Critical Essays viene pubblicato da Secker & Warburg.

    1947. Viene ricoverato per tubercolosi in un ospedale nei pressi di Glasgow.

    1948. Vive nella fattoria Barnhill, a Jura, nelle Ebridi.

    1949. È ricoverato in un sanatorio del Gloucestershire per l’aggravarsi della tubercolosi.

    Nineteen Eighty-Four viene pubblicato da Secker & Warburg.

    Viene trasferito allo University College Hospital di Londra.

    Sposa Sonia Brownell.

    1950. Muore di tubercolosi polmonare il 21 gennaio. Viene sepolto col nome di Eric Arthur Blair nel cimitero di All Saints a Sutton Courtenay, nel Berkshire.

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    Senza un soldo a Parigi e a Londra

    Traduzione di Andrea Binelli

    Titolo originale: Down and Out in Paris and London.

    La salita in mezzo agli ultimi di un punk decoroso

    Ci sono libri che nella coscienza collettiva finiscono per sopravanzare il proprio autore o la propria autrice al punto da relegarli nell’ombra, da dove, a volte, scivolano addirittura nell’oblio. Succede soprattutto con quei generi letterari di cui è frequente una lettura banalizzante o, meglio, di cui non pochi si limitano a ricordare gli elementi del contenuto più salienti ed emblematici: fiabe, letteratura per bambini, utopie e classici. Accade pertanto che uno o più personaggi o un evento di spicco nella trama attirino su di sé il senso ultimo della storia, divenendone un concentrato simbolico e, alla lunga, trasformandosi in vere e proprie icone. Don Chisciotte e Sancho Panza, ad esempio, hanno eclissato Cervantes fin da subito e le loro sagome disegnate secoli dopo da Picasso sono consegnate all’eternità e suggellate in un profilo universale che può fare a meno del milieu seicentesco e castigliano in cui sono stati concepiti. In modo simile, alcune delle mirabolanti avventure raccontate in Pinocchio e nel Giornalino di Gian Burrasca continuano a essere patrimonio comune a latitudini diverse, malgrado in pochi prestino attenzione a chi le abbia scritte.

    Sul versante opposto troviamo invece autori per così dire ingombranti. Pochi mettono in dubbio l’importanza di questi scrittori anche quando le loro opere sono lette poco o comunque non in misura tale da giustificarne di per sé l’accesso all’Olimpo del canone letterario e tantomeno a quel deposito intangibile e ispiratore che è la memoria culturale di una società. Eppure in quel magazzino di modelli, desideri, paure e valori, i loro libri occupano un posto stabile, all’ombra protettiva e sacralizzata di chi li ha dati alla stampa. Succede con tale evidenza che gli esempi abbondano e sarebbe sgradevole farne solo qualcuno.

    Il modo in cui immaginiamo le autrici e gli autori varia dunque in virtù dei gruppi sociali dove quelle proiezioni si formano e danno luogo a concezioni di autorialità soggette al più capriccioso dei relativismi culturali. George Orwell ne è la conferma, ancorché paradossale, poiché è in grado di sollecitare platee così distanti da incarnare entrambe le fattispecie di figura autoriale: lo sceneggiatore negletto e celato dietro le quinte del suo spettacolo di maggior successo e il titano che incombe gigantesco sui messaggi con cui ancora oggi raggiunge un uditorio di nicchia.

    Da una parte, infatti, l’esplosione iconografica legata a un suo personaggio, il Big Brother, presidia saldamente l’immaginario pop della cultura contemporanea in forme ormai svincolate dal suo contesto di origine. Anzi, tanto in senso letterario quanto politico, quel contesto è liberamente scimmiottato, e chiunque voglia riprendere e adattare le immagini simbolo di 1984 può piegarle a finalità disparate quando non diametralmente opposte. Seppure con visibilità minore, lo stesso vale per alcuni refrain celebri tratti da Animal Farm oltre che da 1984: si pensi alla battuta per cui la legge è uguale per tutti, ma un po’ più uguale per qualcuno; oppure allo slogan che equipara guerra e pace, libertà e schiavitù, ignoranza e forza. In pochi oggi si lasciano distrarre dal filo rosso che riporterebbe quelle frasi indietro fino al loro creatore. Se lo facessero, finirebbero per scoprire un Orwell bambino sorprendentemente timido, che amava leggere storie di fantascienza, di orrore e di fantasmi ¹, ingredienti e motivi capaci di amplificare la comprensione di quei capolavori. Ma chi si avvicina a un prodotto culturale dimentico del suo autore non è generalmente interessato a certe suggestioni.

    D’altro canto, c’è una produzione di George Orwell cosiddetta secondaria che invece continua a essere letta con avidità proprio in ragione di quel filo rosso. Si tratta per lo più di non-fiction, ed è soggetta a un meccanismo inverso a quello appena descritto, in quanto risulta inscindibile dalla figura autoriale. È infatti prediletta da una piccola comunità resistente e coriacea, con simpatie sotterranee ma che circolano a livello globale. Questa tipologia di lettori si rivolge in particolar modo a quei testi non perché orwelliani nel senso ormai attestato del termine, ossia relativi a una utopia negativa, bensì perché in essi si definisce piuttosto l’Orwell meno mitizzato, quello in carne e ossa, il protagonista di una vita straordinaria e anticonformista prima ancora del pensatore idiosincratico.

    Oltre a contemplare parecchia saggistica che non disdegna di esprimersi attraverso bozzetti di impostazione autobiografica – è il caso, fra gli altri, di Shooting an Elephant, The Spike, My Country Right or Left e Inside The Whale –, questo filone riguarda soprattutto modalità narrative

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