Miss President
Di Tara Sue Me
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Vincerà la politica o l’amore?
Per Anna Fitzpatrick, intelligente, affascinante, determinata, essere presidente degli Stati Uniti significa poter fare la differenza. Dopo essere stata scaricata dal suo compagno all’inizio della campagna presidenziale, Anna ha giurato di rimanere single per tutto il suo mandato. È un compito facile, in fondo nessun uomo l’ha mai fatta sentire come il suo compagno di università tanti anni prima. Almeno finché non se ne è andato senza nemmeno un addio.
Navin Hazar è contento di essere uno dei principali giornalisti televisivi della nazione. Forse non era quello che sognava, ma i piani non sempre vanno come previsto. Come il piano di tenere nascosto che conosce Anna, o almeno la conosceva, tanto tempo fa. Per quindici anni hanno potuto ignorarsi a vicenda, ma l’elezione di Anna alla più alta carica dello Stato cambia tutto. E quando Navin, suo malgrado, ottiene un incarico come inviato alla Casa Bianca, entrambi si rendono conto che l’unica cosa più complicata della politica è l’amore.
Miss President
è un’autrice bestseller di «New York Times» e «USA Today». Nonostante abbia una formazione scientifica, ha sempre saputo di voler diventare una scrittrice. La Newton Compton ha pubblicato Mister Tentazione e Miss President.
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Anteprima del libro
Miss President - Tara Sue Me
Capitolo uno
Lui
La sera delle elezioni – sala stampa della GBNC
New York City, New York
In una serata elettorale qualsiasi, non me ne fregherebbe un accidente di chi ha vinto la presidenza. Come giornalista televisivo, considero le elezioni presidenziali un misto tra il Super Bowl e gli Oscar, condito con una generosa dose di reality show. Ne ho viste più del necessario, ho intervistato fin troppi candidati e assistito a un numero sufficiente di esaurimenti nervosi e separazioni da farmeli bastare per una dozzina di vite. Il punto è che in fin dei conti non cambia mai nulla, solo che i candidati non lo ammetterebbero mai, almeno non nei luoghi in cui qualcuno potrebbe sentirli. Eh no, perché vogliono farvi credere che si batteranno per voi. Ma non prendiamoci in giro, sappiamo tutti per cosa si battono veramente: più soldi con cui riempirsi le tasche.
Si potrebbe pensare che il mio pessimismo sia il frutto di anni passati alla ricerca di uno scoop e della determinazione necessaria per portarlo all’attenzione dell’opinione pubblica, per poi sentirsi dire E adesso?
. Ma io non sono così sprovveduto. La mia mentalità deriva dall’aver realizzato che pur avendo trascorso dodici anni a fare carriera come giornalista, iniziando dalla carta stampata fino a diventare uno dei conduttori più noti del paese, non è abbastanza. Non c’è appagamento. Quando ti concentri su una cosa sola, che sia un politico o il tuo lavoro, qualsiasi cosa, l’unica certezza è la delusione schiacciante che ne seguirà. Perché nella tua testa è tutto più roseo di quanto sarà poi nella realtà.
«Navin». Gabe Day, mio amico e co-conduttore alla Global Broadcast News Corporation, mi chiama dalla scrivania che condivideremo questa sera. «Ma che diavolo, quanto ci vuole per fare un caffè?».
Mi dirigo verso il luogo da cui andremo in onda per le prossime ore, notando che su uno dei molti monitor dello studio è comparsa una nuova leva e sta parlando con uno dei giornalisti inviati in Florida. I seggi lì si sono chiusi quasi un’ora e mezzo fa e stiamo ancora aspettando che arrivino i risultati.
Metto la tazza di caffè davanti a Gabe. «Uno stronzo ha finito il caffè e non ha messo su la nuova caraffa».
Lui ne beve un sorso e borbotta a denti stretti, ma non riesco a capire cosa dice. Prendo posto accanto a lui, pronto, almeno all’apparenza, per la serata che ci aspetta. Non posso fare a meno di guardare le foto dei candidati presidenziali che abbiamo sullo schermo, insieme al numero dei voti elettorali che ciascuno di loro si è assicurato.
«Credo che lei ce la farà», dice Gabe.
Non ho bisogno di chiedergli di chi sta parlando, né di cosa lei riuscirà a fare. Cerco di mantenere un tono di voce neutrale quando rispondo. «Più che probabile».
«Se diciotto mesi fa mi avessi detto che ci saremmo trovati qui stasera a discutere di una corsa presidenziale a tre, avrei riso a crepapelle».
Tutti l’avrebbero fatto. Diciotto mesi fa ricordo di aver detto che i candidati nominati erano talmente terribili che avrei scelto piuttosto il ragazzo che mi consegna le pizze, perché lui almeno sa dare il resto, un talento matematico che credo manchi a entrambi gli aspiranti presidenti dei due partiti principali.
Le scelte all’epoca erano terribili. Il candidato repubblicano era l’attuale Vicepresidente, un uomo così anziano che tutti scherzavano dicendo che fosse già in politica all’epoca di George Washington. Non che i Democratici fossero messi molto meglio: avevano scelto un cantautore, ex vincitore di Grammy, che aveva fatto tutte le promesse giuste ma non aveva idea di dove trovare i soldi per finanziarle. In breve, eravamo fottuti.
Ma poi, ecco apparire Anna Elizabeth Fitzpatrick. Un candidato per tutti, e che tutti sentivano di poter sostenere. È indipendente e non deve rendere conto a nessuno eccetto che ai suoi elettori… o almeno questo è ciò che la sua campagna elettorale vuole far credere.
Durante un discorso per lanciare la sua candidatura alla presidenza aveva spiegato i motivi per cui aveva deciso di scendere in campo. È arrivato il momento di abbandonare le etichette, di porre fine alla cultura del noi contro loro. È arrivato il momento di porre fine al vecchio sistema. È arrivato il momento di fare sul serio e dire che ne abbiamo abbastanza delle feste. È arrivato il momento di mettersi al lavoro
.
Da lì in poi, È arrivato il momento
era diventato il grido di battaglia della campagna elettorale di Fitzpatrick.
Mentre da un lato l’ammiro e voglio credere che possa farcela, dall’altro non vedo come possa cambiare veramente le cose se tante persone con più esperienza di lei hanno tentato e fallito.
Gli altri si domandano come i due partiti principali abbiano potuto sottovalutare la perfezione di Anna Fitzpatrick e la sua ascesa, che l’ha portata dall’anonimato alla candidatura nella corsa alla carica più alta del paese. Ma io no; io mi limito a domandarmi perché, con tutta la gente che c’è al mondo, doveva essere proprio lei a decidere di fare qualcosa per salvarlo.
Perché Anna Fitzpatrick è l’unica cosa al mondo di cui so per certo che è meglio in realtà che nell’immaginazione. Sfortunatamente, il mio comportamento di anni fa ha distrutto ogni possibilità che possa fare parte della mia vita.
Capitolo due
Lei
La sera delle elezioni – Franklin Institute
Philadelphia, Pennsylvania
Quando qualcuno mi intervista per la prima volta, mi fa sempre i complimenti per la mia calma. Sono sempre sincera quando li ringrazio, perché considero la calma un mio tratto positivo. Infatti, credo sia assolutamente necessario per chi lavora nell’amministrazione pubblica non abbassare mai la guardia, non lasciar trapelare il nervosismo o quella che sei veramente. A prescindere da quale maschera indosso, e ne indosso sempre una, sono calma. Anna la studentessa. Anna la deputata. Anna la pazza che crede di poter diventare Presidente. E forse, tra pochi minuti, Anna il Presidente appena eletto.
Io e lo staff della campagna stiamo seguendo gli esiti delle elezioni in un piccolo ufficio privato del Franklin Institute nello stato della Pennsylvania, dove sono nata. Sotto di noi, nella sala da ballo, ci sono cinquecento sostenitori e altri membri dello staff che attendono la mia comparsa.
Dovrebbero essere pervenuti dati a sufficienza per dichiarare il vincitore in California, il che mi porterebbe in vantaggio assegnandomi i necessari grandi elettori. Eppure la GBNC, per qualche motivo, sta ritardando. Sto per chiamarli per sapere qual è il problema, quando la TV diventa rossa, bianca e blu, e la scritta Edizione Straordinaria
compare sullo schermo. Il mio consulente e amico di famiglia, David Herdsman, si avvicina al mio fianco.
«Ci siamo», sussurra.
La stanza piomba nel silenzio quando il volto di Navin Hazar compare sullo schermo e mi si stringe lo stomaco, come accade ogni volta che lo vedo. Fa una pausa e sorride. È il sorriso di chi conosce già l’informazione per cui tutti stanno trattenendo il fiato e per un secondo se ne rallegra.
«La GBNC dichiara in via ufficiale che Anna Fitzpatrick ha conquistato la California», annuncia e subito sento levarsi un brusio di eccitazione. Rimango immobile, desiderosa di sapere il resto. «Pertanto, la nostra proiezione è che l’indipendente Anna Fitzpatrick diventerà il prossimo Presidente degli Stati Uniti, nonché la prima donna ad assumere questa carica».
La stanza esplode. Navin Hazar e il co-conduttore, Gabe Day, riempiono la parte alta dello schermo televisivo, mentre in basso scorrono le immagini dal piano di sotto. Non riesco a sentire più nulla, travolta dagli abbracci e dalle lacrime della gente che ha lottato per me strenuamente negli ultimi anni. Qualcuno mi mette in mano un bicchiere di champagne.
Infilo la mano nella giacca del tailleur che indosso e sfioro con le dita il discorso. Non mi serve, visto che l’ho ripetuto mentalmente almeno trecento volte e inoltre sarà sul teleprompter, ma è confortante toccarlo.
«Questo colore ti sta d’incanto», mi dice la mia migliore amica, Jaya, avvicinandosi per abbracciarmi.
«Grazie». Indosso un tailleur con la gonna fucsia stasera, perché non volevo scegliere né il blu, né il rosso. Un azzardo, ma se hai il potenziale per diventare la prima donna Presidente degli Stati Uniti, puoi solo azzardare.
«Pensi di scendere?», mi domanda.
Scuoto la testa. «Tra qualche minuto», rispondo mentre David si avvicina. Lui sa perché aspetto. Tom Merriweather, il candidato democratico, ha chiamato per riconoscere la sconfitta novanta minuti fa, ma il Vicepresidente Roberts sta temporeggiando. Vorrei aspettare anche la sua chiamata, ma non ho intenzione di concedergli ancora molto tempo.
Jaya vede David e alza gli occhi al cielo. «Se stai aspettando Roberts, dovrai attendere fino a domani mattina. Sono certa che alla sua età è già a letto».
Ma il sorriso di David mi dice il contrario. «Presidente eletto Fitzpatrick», mi chiama mentre la folla attorno a noi è in fermento. «Ho in linea per lei il Vicepresidente Robert».
Ore dopo, mi ritrovo seduta a un tavolo vuoto della sala da ballo con David e suo marito Oliver, da un lato, e la mia migliore amica Jaya dall’altro. Tutti e quattro sappiamo che dovremmo tornare in albergo e fare almeno finta di dormire. Come si dice, il vero lavoro è quello che ci aspetta, eppure sappiamo che stasera non riusciremo a chiudere occhio. Non dopo l’entusiasmante celebrazione di ciò che siamo riusciti a realizzare.
Non so quando riuscirò a dormire di nuovo. Mi sento quasi sopraffatta all’idea di avercela fatta ad arrivare fin qui, eppure so che ho ancora tanta strada da percorrere. La mia vittoria non è stata schiacciante. C’è un nutrito numero di americani che non mi voleva come Presidente e si farà sentire. In larga parte è il motivo per cui questo paese è così importante per me, e perché è così importante salvaguardare le nostre libertà e non dare per scontato questa meravigliosa, complessa e assurda democrazia che abbiamo.
Il potenziale non sfruttato dei cittadini americani è incredibile. Se prendessimo la nostra diversità e la unissimo alla creatività e all’intelligenza che abbiamo, saremmo inarrestabili. Sfortunatamente, sul nostro cammino esistono tante barriere che ci siamo creati da soli e ci hanno paralizzati: affiliazione ai partiti, razzismo, disparità socio-economiche, per citarne solo alcune. La mia speranza è di poter gettare le fondamenta su cui costruire un’infrastruttura capace di eliminare le barriere cui abbiamo concesso per troppo tempo di definire chi siamo. So che il cambiamento non potrà avvenire in un giorno, e nemmeno in quattro anni. Ma il mio scopo principale è quello di guidare il paese nella giusta direzione. Abbiamo un problema serio ed è arrivato il momento di avviare il cambiamento.
L’entusiasmo che provo per avere innescato questa trasformazione è parte del motivo per cui non mi sento minimamente stanca. L’altro è che sto facendo del mio meglio per zittire Jaya. Si diverte un mondo ad assillarmi perché mi trovi un cavaliere che mi accompagni al ballo per la cerimonia d’insediamento.
«Non vedo il perché», le rispondo. «Posso andare con David». Guardo l’uomo che mi siede a fianco per conferma. È la mia roccia, il mio braccio destro, ma al momento sta facendo di no con la testa. «Perché non vuoi?», gli domando.
«Il mio carnet di ballo è al completo», risponde prendendo Oliver per mano. «Mi dispiace».
«Stai scherzando?», gli domando.
«Nient’affatto», risponde David. «Non avrai alcun problema a trovare qualcuno. E prima che provi a dire il contrario, sì, ti serve un cavaliere. Non mi interessa se porti tuo cugino o uno di quei tipi con cui Jaya cerca sempre di sistemarti, ma devi lanciare un messaggio. Sì, sei una donna e te ne vanti. No, non ti serve un uomo, ma non c’è nulla di male nell’averne uno al fianco in certe occasioni. Inoltre, non puoi ballare da sola».
Sto meditando sulle sue parole, cercando di attutire le voci di Jaya e David che discutono di possibili accompagnatori, quando Oliver si volta verso una TV qui vicino. Gli lancio un’occhiata, aspettandomi una replica del discorso della vittoria, ma vedo subito che si tratta di altro.
Navin Hazar e Gabe Day sono in onda e discutono di qualcosa, probabilmente di me. Oliver inarca un sopracciglio come per chiedermi se voglio che alzi il volume. Faccio cenno di no e mi prendo qualche minuto per studiare Navin senza che nessuno lo noti. Lo trovo bene. Più che bene, a dire il vero, perché francamente è sempre stato sopra la media. Dicono che alcune persone migliorano col tempo, e di certo è vero nel suo caso. Ricordo la prima volta che ci siamo incontrati. Avevo poco più di vent’anni e lui riusciva ad affascinare tutti con i suoi profondi occhi scuri. Non è cambiato molto negli ultimi dodici anni o giù di lì.
Vorrei dire a Oliver di spegnere la TV, ma così capirebbe che mi dà fastidio, e lo stesso varrebbe per David e Jaya. Invece la lascio accesa, ma non riesco a smettere di guardarlo.
«È Gabe Day o Navin Hazar ad aver catturato la tua attenzione?», domanda Oliver seduto accanto a me, e io sono sorpresa che non stia partecipando alla conversazione tra David e Jaya, e che invece mi stia osservando.
«Navin Hazar», gli dico cercando di sembrare disinvolta. «Mi ricorda qualcuno».
Non sono in confidenza con Oliver come lo sono con David, principalmente perché non lo conosco da molto. È entrato a far parte della vita di David quattro anni fa, e sono sposati da due. Mi ha aiutato nella campagna elettorale quando il suo lavoro di consulente di gestione per istituti finanziari internazionali glielo permetteva. E dopo tutto, non credo di essere così trasparente.
Ma d’altro canto, la serata è stata impegnativa. È surreale. Sono il Presidente eletto.
Oliver annuisce. «Che cognome è Hazar?»
«Turco», gli rispondo senza pensare e lui non riesce a nascondere un sorriso. «O almeno, così ho sentito dire in giro».
Capitolo tre
Lui
Uffici della GBNC
New York City, New York
Due giorni dopo le elezioni, stento ancora a credere ai risultati. Non mi sento a disagio perché non è un uomo. Francamente, sono entusiasta all’idea che sarà finalmente una donna il nostro comandante in capo. Era ora. Il fatto è che la conosco. Certo, sono passati dodici anni dall’ultima volta che ci siamo parlati, ma questo non significa nulla.
Al lavoro non ho detto a nessuno che un tempo conoscevo Anna. Quando ho iniziato a lavorare alla GBNC, cinque anni fa, Anna era al Congresso e all’epoca non pensai fosse importante. Non sopporto la gente che si vanta delle proprie conoscenze e rifiuto di diventare così. Inoltre, ho sempre pensato che la mia vita personale fosse affar mio e di nessun altro, e soprattutto il mio passato.
Poi Anna ha annunciato l’intenzione di candidarsi a Presidente e mi sono trovato in un dilemma. Avrei dovuto dire a tutti che un tempo la conoscevo? Sarebbe stata la scelta ottimale, anziché correre il rischio che qualcun altro lo scoprisse e informasse i dirigenti della GBNC. Eppure, ho riflettuto tra me e me, sono l’ultima persona a cui Anna Fitzpatrick penserebbe e non c’è necessità che io sollevi la questione, ingigantendo la cosa. E così ho deciso di tenermi il più possibile alla larga da lei.
Ma Anna ha vinto. Non so per quanto ancora potrò casualmente trovarmi altrove quando serve intervistarla, o fingermi distratto quando viene pronunciato il suo nome.
Ed è questo il motivo per cui sono nel mio ufficio: me ne sto alla larga da tutti dicendo che devo condurre ricerche per un servizio urgente che la rete mi ha affidato. Non è del tutto inesatto: mi hanno assegnato un servizio e devo condurre delle ricerche, ma non è poi così urgente come ho fatto credere. Tuttavia, mi dà la possibilità di fingere di essere impegnato, anziché lasciarmi ossessionare dal fatto che oggi il Presidente eletto si trova a New York, come tutti quelli che mi circondano. È vagamente surreale vedere questi professionisti esperti fantasticare su di lei come se facesse parte della famiglia reale o roba del genere. Mi rendo conto che è la cosa più simile che abbiamo alla famiglia reale, ma questo rende più ardue le mie tattiche evasive.
Gabe entra nel mio ufficio proprio mentre dalla reception mi chiamano al telefono. Rimane sulla soglia, mentre io rispondo in viva voce.
«Sì?», dico facendo cenno a Gabe di entrare.
«C’è qui qualcuno che vorrebbe vederti, Navin», mi fa Gerald, la guardia di sicurezza.
Lancio un’occhiata al calendario per assicurarmi di non essermi dimenticato di un impegno. E infatti non è così. «Non ho nessun appuntamento», dico a Gerald. «Di chi si tratta?»
«È… uh… il Presidente eletto», balbetta Gerald.
Faccio del mio meglio per non sembrare sorpreso. «Naturalmente. Il Presidente eletto Fitzpatrick è sempre la benvenuta».
Gabe mi guarda sconvolto, come del resto mi sento anche io. Non riesco a dire nulla, ma non importa perché Gabe invece ha molto da dire. Sfortunatamente, è tutto sotto forma di domande a cui non so dare risposta.
«Ma che diavolo!», esclama quando chiudo la telefonata. «Vuole incontrare te? Perché?»
«Non lo so», rispondo, sollevato all’idea che sia la verità e di non dover mentire. Non riesco però a guardarlo negli occhi. «Immagino che lo scopriremo presto».
«Tu nemmeno la conosci. Sono sempre andato io a intervistarla», ribatte Gabe e io sussulto rammentando che ho mentito a uno dei miei migliori amici. Ed è vero, mi sono sempre premurato di non rendermi disponibile ogni volta che c’era da intervistarla.
Intuisco che è arrivata non dal trambusto, ma dal silenzio che cala al suo passaggio. Sebbene sia accompagnata da soli quattro agenti di scorta, due davanti e due dietro, il loro aspetto ha stregato tutti. Le conversazioni si interrompono. Nessuno si muove.
Mentre continuano ad avanzare verso di noi, io e Gabe usciamo in corridoio senza dire una parola, consentendo così alla scorta di perquisire il mio ufficio prima che lei entri. Faccio un respiro profondo e mi preparo a trovarmi faccia a faccia con i ricordi del passato, ricordi che ho cercato di schivare il più possibile. Ora capisco che era inevitabile e che mi sono comportato in modo infantile.
Anna sta venendo verso di me, mentre parla con una persona che le sta a fianco, e quando mi guarda devo rammentarmi di respirare. Ho visto numerose foto e video di lei, ma nulla può paragonarsi alla sua visione in carne e ossa. Era indimenticabile quando aveva vent’anni, è stupenda ora che è una donna sulla trentina, proprio di fronte a me.
È alta, quasi un metro e ottanta, se ricordo bene. I capelli corvini le arrivano alle spalle ricadendo in morbide onde. Aggiungiamoci un corpo con le curve nei punti giusti e non c’è una sola parte di lei che non sia femminile. Ma la caratteristica più notevole sono gli occhi, di un azzurro scuro penetrante, messo ancor più in risalto dalla carnagione pallida.
Non so chi curi il suo look, ma chiunque sia merita un aumento. In tutte le immagini che ho visto di lei è sempre vestita con eleganza meticolosa, il trucco perfetto e mai un capello fuori posto. Ben diversa dalla donna che ricordo, che preferiva felpe e jeans. Oggi indossa un tailleur a pantalone nero, elegante ma decisamente femminile, una camicetta di seta bianca e tacchi neri che le