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Un secolo di violenza: Momenti di Storia dell'Europa orientale dalla Prima guerra mondiale al Patto di Visegrad.
Un secolo di violenza: Momenti di Storia dell'Europa orientale dalla Prima guerra mondiale al Patto di Visegrad.
Un secolo di violenza: Momenti di Storia dell'Europa orientale dalla Prima guerra mondiale al Patto di Visegrad.
E-book307 pagine5 ore

Un secolo di violenza: Momenti di Storia dell'Europa orientale dalla Prima guerra mondiale al Patto di Visegrad.

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Info su questo ebook

Cesare La Mantia PhD
Docente di Associato di Storia dell’Europa orientale c/o il Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Trieste. Tra i temi di ricerca: le alleanze regionali (Gruppo di Visegrád); il sovranismo; l’Ungheria e la Polonia contemporanee; la politica estera sovietica e russa. Tra gli ultimi lavori “La stagione di Moda Polska nella Polonia socialista: aspetti interni e internazionali”, in Mondo contemporaneo, n.2-3/2020, Franco Angeli pp.343-360.  
“Le alleanze regionali nel post comunismo europeo: il Gruppo di Visegrad”, in I Quaderni del CiRSEu, 2021.  “Il ritorno in Europa e l’allontanamento da essa: le origini del sovranismo nel gruppo di visegrád” in Poliarchie vol. 6, n.1, 2023, EUT pp.22-43.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita31 mag 2024
ISBN9791298511149
Un secolo di violenza: Momenti di Storia dell'Europa orientale dalla Prima guerra mondiale al Patto di Visegrad.

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    Un secolo di violenza - Cesare La Mantia

    copertina

    Cesare La Mantia

    Un secolo di violenza

    L’Europa orientale. Dalla Prima guerra mondiale a Visegrad. Momenti di storia europea

    The sky is the limit

    ISBN: 9791298511149

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    Introduzione

    Prima parte

    LA PERCEZIONE DEI BALCANI PRIMA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE.

    LA VIOLENZA COME STRUMENTO POLITICO NEI PRIMI ANNI DEL NOVECENTO POLACCO

    LA QUESTIONE BALCANICA TRA LE ORIGINI DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE.

    L’EREDITÀ DELLA GRANDE GUERRA: LA CITTÀ LIBERA DI DANZICA.

    MAXIM LITVINOV. UN DIPLOMATICO A SERVIZIO DELLA RIVOLUZIONE.

    SECONDA PARTE

    LA BIELORUSSIA DI LUKAŠENKO: L’ULTIMA REPUBBLICA SOVIETICA?

    LA FUGA DALL’UNGHERIA NEL 1956: LE CAUSE E I PRIMI INTERVENTI INTERNAZIONALI A SOSTEGNO DEI PROFUGHI.

    IL RAZIONAMENTO DEL CIBO IN URSS E NELLA ROMANIA DI CEAUȘESCU.

    TRANSIZIONE E CORRUZIONE NELL’EUROPA POST COMUNISTA: IL CASO POLACCO.

    LE ORIGINI DEL GRUPPO DI VISEGRAD.

    EurAsia

    _________________________________________

    14

    Collana di studi storici diretta da

    Francesco Randazzo

    Introduzione

    Il presente volume raccoglie una serie di studi nei quali mi sono cimentato nell’arco di questi ultimi anni con tematiche ritenute particolarmente condizionanti la Storia dell’Europa orientale. Situazioni esistenti anche in tempi differenti in altre parti del mondo hanno assunto in Europa orientale, comprensiva dei Balcani, delle regioni centro -orientali e della Russia caratteristiche peculiari divenendo fattori decisivi della vita dell’intera area. Nel loro divenire si incrociarono con altre componenti della storia europea stabilendo le basi di cambiamenti e di nuove realtà. In ognuno dei lavori editi nel corso degli anni il filo conduttore è la violenza intesa come intervento armato minacciato o brutalmente realizzato; come politica o in maniera più specifica ideologica; come ignoranza o pregiudizio che condiziona le scelte politiche di fatto violentando culturalmente e fisicamente popolazioni di cui si sa poco. La prospettiva di doverne essere oggetto può portare a creare i presupposti, le alleanze affinché essa non si realizzi. Può anche essere il frutto di soluzioni internazionali create per eliminarla, ma in realtà portatrici di essa. L’unica certezza è che continua a essere la principale opzione per la soluzione di contenziosi internazionali.

    Gli stereotipi interpretativi della realtà balcanica si sono sostituiti alla reale conoscenza dell’area. La descrizione di un mondo selvaggio tout-court la cui marginalità geografica ha moltiplicato gli effetti della crisi dell’impero ottomano ha fatto da sfondo alla politica di spregiudicato interesse delle grandi potenze europee nell’Ottocento che in buona parte hanno determinato i fattori che avrebbero sconvolto i Balcani, e non solo essi, nelle terribili crisi del Novecento. In un contesto in continua ebollizione un ruolo di competenti osservatori lo hanno avuto gli addetti militari italiani, divenuti avanguardia della politica estera balcanica del nuovo regno che ha stentato a formarsi e, ancor meno, ad affermarsi.

    Nel lungo armistizio che separa i due conflitti mondiali la diplomazia ha giocato un ruolo importante in un contesto in cui la violenza ha continuato a essere la prima opzione per la soluzione delle controversie internazionali. Due esempi di diplomatici e della loro attività sono stati emblematici del periodo. Maxim Litvinov, Commissario del popolo agli Affari esteri sovietico e Manfredi Gravina il diplomatico italiano Alto Commissario della Società delle Nazioni nella Città libera di Danzica. Esponenti di due Stati con l’esigenza di affermarsi in campo internazionale nonostante i propri limiti. Litvinov proverà con successo e tanta fatica a far uscire l’Urss dall’isolamento in cui si era cacciata dopo la fine del primo conflitto mondiale. Una potenza che sull’ideologia e lo stretto controllo interno stava costruendo la propria forza e dotata nello stesso tempo di una grande concretezza nei rapporti internazionali. Gravina lavorerà al mantenimento della pace nel posto meno indicato ad esso creato dalla pace di Parigi, conclusiva della Prima guerra mondiale. Il diplomatico italiano sarà l’esponente di uno Stato in cui iniziava ad affermarsi il revisionismo e con ambizioni da grande potenza senza tuttavia possedere i mezzi per esserlo. Entrambi lavoreranno nel contesto degli illusori tentativi di affermazione dei principi della sicurezza collettiva e del fallimento con essi della Società delle Nazioni.

    La fine della Grande guerra decretò la nascita di nuovi Stati. Avrebbero dovuto essere fondati sul principio di nazionalità, ma in realtà nacquero su quello di nazionalità prevalente. L’ignoranza sulle mescolanze di popolazioni, stretta parente delle credenze stereotipate, l’oggettiva difficoltà in certi casi a distinguerle, le diaspore presenti nelle potenze vincitrici e i loro interessi causarono un riassetto post bellico dell’Europa orientale che avrebbe favorito i fattori di crisi del sistema politico nato alla Conferenza della pace e all’interno dei singoli Stati in cui la violenza continuò a essere una delle prime opzioni di soluzione dei problemi. Un esempio delle contraddizioni nate a Parigi fu la Polonia nel periodo antecedente la guerra e in quello immediatamente successivo: le posizioni contrastanti dei nazionalisti democratici di Roman Dmowski e del socialista nazionale Josef Piłsudski, la politica espansionista, il forte antisemitismo e, su tutto, la guerra russo-polacca. Posta in mezzo a due forti correnti di espansione che sul suo territorio si scontravano e priva di confini naturali, Varsavia divenne la testimonianza dei problemi irrisolti, e spesso nuovi, creati dopo la guerra, e dell’incapacità delle potenze vincitrici a gestirli.

    Dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale l’URSS risolse con il pieno consenso statunitense il problema del proprio accerchiamento e la necessità di creare una vasta zona cuscinetto tra il suo territorio e i nuovi potenziali nemici membri della NATO. Le repubbliche comuniste dell’Europa centro-orientale svolsero tale funzione. Verso di esse non bastava la comunanza ideologica, ma necessitava un controllo sulla loro sovranità per evitare eventuali scivolamenti verso l’Occidente. Un rigido controllo che avrebbe portato a interventi armati in Ungheria, Cecoslovacchia, alla continua minaccia di essi sulla Polonia o alla repressione brutale delle proteste operaie nella Repubblica democratica tedesca. Tra questi interventi quello contro gli ungheresi in rivolta fu il più duro perché la rivolta si era trasformata in rivoluzione e coinvolgeva buona parte della popolazione. La vittoria sovietica causò la fuga di circa 250.000 ungheresi e il sorgere di problemi molto simili a quelli attuali relativi a profughi e migranti. Il tentativo rivoluzionario non riuscito contribuì a dimostrare l’esistenza di crepe all’interno del cosiddetto blocco sovietico.

    La Bielorussia di Lukašenka rappresenta un caso a parte nel panorama post sovietico. Il presidente bielorusso è stato l’artefice della creazione e del mantenimento in vita dell’ultima repubblica di stile sovietico all’interno dell’Europa. Nella sua figura si concentrano tutti gli elementi del dittatore staliniano. Partito da basi politiche anti sovietiche e anti russe si ritroverà a difendere il vecchio regime e a ripristinare stili di vita e gestione del potere che erano stati caratteristici della fase sovietica.

    Con il crollo del sistema comunista nell’Europa orientale si è scoperchiato il Vaso di Pandora del post comunismo e del ricollocamento internazionale delle ex democrazie popolari. Cecoslovacchia, Polonia, Ungheria con sensibilità diverse decisero di ritornare in Europa, intesa come l’allora CE, per cercare le risorse necessarie a riconvertire le rispettive economie pianificate in capitaliste. Tutti e tre i paesi in Europa temevano una revanche russa e, dunque, al tentativo di ritorno si aggiunse quello di far parte in tempi brevi della NATO in funzione anti russa. Per realizzare i due obiettivi era necessaria una pressione unitaria e così, dall’idea di Havel, il visionario presidente della repubblica cecoslovacca, nacque il patto di Visegrad tra ex paesi comunisti la cui volontà è adesso in grado di condizionare l’Unione europea. Nel penultimo saggio si esamina il fenomeno della corruzione durante il periodo della transizione verso i modelli di vita occidentali. Il fenomeno molto presente durante la crisi finale del comunismo contribuì alla sua fine.

    Prima parte

    LA PERCEZIONE DEI BALCANI PRIMA DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE.

    I. La conoscenza dell’area balcanica fino agli inizi dell’Ottocento derivava in buona parte da due fonti principali la letteratura di viaggio e i resoconti degli addetti militari e dei commissari incaricati di tracciare i confini dei nuovi stati. La prima rinnovava un generico interesse già presente durante l’Illuminismo, la seconda rispondeva a precise esigenze politico-militari. La letteratura da viaggio ebbe nel Regno Unito il suo principale sviluppo e riflesso politico ed è per ciò che si tratterà soprattutto dei viaggiatori britannici. L’altro aspetto sarà visto dagli scritti dei militari italiani. Accurati nello studio dei luoghi e delle genti come i lavori dei colleghi delle altre potenze, sono interessanti poiché rappresentano il punto di vista di una potenza che faceva i conti, in quel periodo, con la grandezza delle proprie ambizioni e la debolezza dei mezzi a disposizione per realizzarli.

    Il viaggiatore-scrittore raccontava quanto riteneva essere vero [1] . Percorreva centinaia di chilometri per poi vedere ciò che era preparato a vedere dalla fede nella superiorità della religione e della civiltà di appartenenza su quelle cui andava incontro. Il viaggiatore britannico in particolare si sentiva parte del ruolo di grande potenza in continua ascesa del suo paese e interpretava in tal senso. L’interpretazione dei Balcani era anche il riflesso del ruolo in essi avuto dalle potenze europee. Da ciò una visione più tollerante verso l’impero ottomano della cui sopravvivenza Londra era sostenitrice e un atteggiamento sempre molto critico nei fronti della Russia e dei suoi alleati. C’era poi l’intensa delusione, relativa alla Grecia, provocata dall’incontro tra l’immagine derivata dagli studi del periodo classico e ellenistico e l’impatto con una realtà fatta spesso di miseria e rovine mal conservate e pronte ad essere rubate o acquistate. L’influenza politica e la delusione portarono in qualche caso importante al ribaltamento dell’attribuzione di responsabilità per le condizioni della Grecia contemporanea non più data ai turchi bensì agli stessi greci non in grado di essere degni eredi degli antichi padri, una sorta di scontro tra stereotipi prevalenti l’uno sull’altro a seconda dei momenti [2]. Un giudizio di poco meno severo di quello di profondo disprezzo verso una popolazione di schiavi semi-barbari senza il coraggio di ribellarsi, dei primi viaggiatori statunitensi nei primi anni dell’Ottocento. Alle popolazioni sotto sovranità di Istanbul il pubblico britannico cominciò a pensare nella seconda metà del XIX secolo diffusione leggendo dei viaggi di Georgina Mackenzie e Adelina Irby in Serbia, Bulgaria, Bosnia, Macedonia. Scrivevano della dura condizione di vita delle genti slave sotto la dominazione ottomana svelando ad un pubblico ignorante e influenzando in parte le scelte governative [3] come i Balcani fossero in linea di massima abitati dagli slavi e non solo dai turchi e dai non-musulmani identificati tutti come greci [4]. Il punto di vista era quello dell’incontro tra l’inglese civilizzato e popolazioni inferiori e semi-barbare alle quali portare se possibile o imponendole le basi della civiltà britannica [5]. La realizzazione di opere di carità tipiche del periodo vittoriano inglese trovava un terreno ideale in un’area in cui le guerre erano continue, mischiando giudizi molto severi con interventi concreti e speranze di riscatto sociale e personale legate al raggiungimento dell’indipendenza. L’attenzione verso gli slavi poveri e brutalizzati dai turchi aveva un ritorno positivo in patria dove, mediata dalla stampa, aveva presa sull’elettorato liberale e contrario alla politica di Disraeli. L’anti-russismo continuava comunque ad essere presente nella complessa percezione britannica dei Balcani. A San Pietroburgo furono attribuite tutte le responsabilità delle dure critiche rivolte ai turchi, attraverso un’attività di disinformazione e l’azione sul campo dei bulgari ai quali si applicavano tutti gli stereotipi negativi fisici, intellettivi e culturali [6]. Su un punto sembrava concordassero gli osservatori dei bulgari: andavano svegliati, il loro intelletto sopito doveva essere scosso. Lo sosteneva anche Samuel Cox un diplomatico statunitense che in uno studio non stereotipato definì i contadini bulgari come espressione di una democrazia rurale e i rumeni non appartenenti all’area balcanica [7] un territorio bisognoso di progresso. Il problema era come questo andasse interpretato. Una convinzione maturata nel tempo attribuiva alla corruzione del regime ottomano l’incapacità di sfruttare le risorse dei territori balcanici [8] per migliorare le condizioni di vita di popolazioni indicate, con riferimento alle bosniache, come selvagge, senza regole, cannibali. Un altro dominio, francese come la nazionalità del viaggiatore, avrebbe potuto mutare in meglio la situazione [9]. Nei momenti di grandezza si ammiravano la corte splendida e la potenza militare ottomana, ma il giudizio diventava più aspro con l’accentuarsi della crisi dell’impero al punto da utilizzarla per giustificare da parte delle grandi potenze, al di là del perseguimento dei loro reali interessi politico-militari, l’occupazione asburgica della Bosnia-Erzegovina una terra barbara, povera e inospitale resa ricca e civilizzata dall’opera di Vienna in pochi anni [10]. Più che la corruzione la causa del mancato progresso era anche attribuita all’essere il musulmano fatalista, rassegnato, bloccato da un destino stabilito, quasi senza speranza [11] che completava uno stile di vita ritenuto incline all’indolenza, alla pigrizia, al vivere nella puzza e nella sporcizia e alla eccessiva confidenza con l’estraneo. Ad un’alimentazione scorretta e ricca di alcolici, slivovitz in particolare, un diplomatico francese attribuiva il carattere da lui definito crudele del bosniaco [12]. L’interpretazione di uno stile di vita con sue proprie caratteristiche secondo il modello europeo-occidentale non fece cogliere aspetti importanti ad esempio della condivisione del cibo soffermandosi sulla scomoda mancanza di posate utilizzate dalla nobiltà ottomana nei primi decenni dell’Ottocento. Le critiche o meglio le stranezze inventate o su base leggendaria contribuivano a dimostrare come i Balcani fossero altro rispetto all’Europa. La presunta presenza di uomini con la coda di cui uno fu forse visto da Philip Thornton in Bosnia durante un viaggio negli anni Trenta [13]appartiene ad esse [14].

    Nell’ultimo ventennio del XIX secolo i paesi balcanici saranno raccontati e percepiti come in preda ad uno sforzo accentuato verso una europeizzazione in precedenza iniziata. Musiche balli e la moda da seguire saranno quelle viennesi o parigine. Le città vollero somigliare alle capitali delle grandi potenze europee. Molto del periodo ottomano rimaneva, il cibo, i luoghi di ritrovo, il rapporto tra i sessi. Venne meno la tolleranza e si accrebbero i fattori di divisione. Ricercando una nuova identità persero la propria identità e si creò un ulteriore distacco tra le città e le campagne in cui i costumi, le tradizioni, le memorie dalle quali la nuova borghesia e il nuovo potere politico fuggivano erano ancora presenti e sarebbero tornate in auge con il nazionalismo post-bellico [15].

    Alla condizione dei contadini e alla responsabilità del governo ottomano è dedicata la percezione e la narrazione del mondo balcanico fatta tra Trotsky presente a più riprese nell’area e corrispondente di guerra nel 1912 [16], il cui giudizio è fortemente influenzato da quello nei confronti del regime zarista con il quale sovente erano riscontrati elementi di forte similitudine. Egli riteneva il sultano portatore di una politica finalizzata solo alla salvaguardia, del suo regime. L’utilizzo di spie, le poche scuole per mantenere il popolo nell’ignoranza, gli scarsi investimenti nell’industria dovuti non a miopia politica o incapacità bensì per evitare lo sviluppo del proletariato. La presenza di una burocrazia corrotta e di una struttura latifondista della proprietà agraria mantenevano i contadini poveri, ignoranti, superstiziosi, in sostanziale condizione di schiavitù. La formazione o il consolidamento dell’opinione dei socialdemocratici russi sull’impero ottomano si baserà in buona parte sul parere del futuro creatore dell’Armata rossa, la cui analisi anche se molto cruda era molto vicina alla realtà. La Turchia era dipinta come assediata dalle potenze capitaliste europee che aspettavano come cani famelici di staccare a morsi il proprio boccone mentre il sultano Abdul-Hamid II (Abdü’l-Hamīd-i sânî) si ostinava a contrarre debiti e salassava i suoi sudditi fino allo stremo [17]. Trotsky spiega il movimento dei Giovani Turchi riconoscendo nei suoi articoli il ruolo dell’esercito ottomano alla vigilia delle guerre balcaniche come elemento rivoluzionario e ne collega la ragione all’essere le forze armate e l’amministrazione statale il principale sbocco professionale per gli intellettuali che formatesi all’estero o in patria non trovavano spazio in una economia asfittica diventando l’avanguardia militante della nazione borghese in formazione: una intellighenzia raziocinante, critica, scontenta [18], che pur trasformandosi in organo esecutivo della nazione avrebbe rilevato i propri limiti. L’affermazione del primato della nazionalità turca e la negazione dell’esistenza di un problema agrario, dovuta forse alla presenza di molti bey latifondisti nel movimento, avevano impedito di affrontare la complessità della crisi dei Balcani-fatta dall’intreccio degli interessi delle grandi potenze europee con gli intrighi sanguinosi delle dinastie regnanti- per la cui soluzione Trotsky pensava ad uno stato democratico e federale sul modello svizzero o statunitense in grado di creare oltre alla pace i presupposti per un poderoso sviluppo delle forze produttive.

    II. La visione dei Balcani di Mainoni corrispondente ad un’area di crisi pronta ad esplodere in tempi brevi si realizzò il 24 aprile 1877 con la dichiarazione di guerra della Russia di Alessandro II Romanov (1855-1881), lo zar dell’abolizione nel 1861 della servitù della gleba, all’impero ottomano del sultano Abdul-Hamid II (1876-1909). Da quel momento le operazioni militari condizionarono il giudizio del governo italiano sull’area in oggetto. La strategia russa mirava oltre al sostegno già ottenuto dalla Romania, al coinvolgimento della Bulgaria stimolandone e sostenendone la sollevazione contro le forze della Sublime Porta con l’intento di coinvolgere la Serbia e il Montenegro e di fare di San Pietroburgo il perno politico delle future relazioni tra i litigiosi stati dell’area. L’interesse era ulteriormente dimostrato dal modo in cui era stata effettuata la mobilitazione volta a prepararsi ad un’eventuale reazione della Germania e dell’Austria. Le truppe migliori quelle più addestrate di stanza nei presidi delle città più importanti erano rimaste sul posto. Al di là di amichevoli rapporti tra i vertici degli stati i quadri ufficiali condividevano un forte e reciproco astio [19]. I dispacci di Del Mayno al generale Bertolè Viale ricostruivano la situazione sul campo dall’osservatorio berlinese e davano la visione delle difficoltà non previste in cui le forze russe si trovavano e ai problemi sul teatro operativo corrispondevano una riduzione dei margini di manovra internazionali all’interno delle potenze del Concerto europeo per il governo zarista [20]. I danni provocati alle delimitazioni confinarie dalla scarsa conoscenza dell’area e dalle pressioni delle potenze vincitrici furono accentuati da rilevamenti cartografici effettuati in tempi molto brevi e con strumenti inadatti. Il problema si sarebbe riproposto nel 1879 per la delimitazione dei confini del Montenegro, con a sostegno delle interpretazioni favorevoli dell’impero ottomano Berlino e Vienna, San Pietroburgo di quelle di Cettigne e i rappresentanti francesi e italiani su posizioni imparziali. Le tribù della zona sostenevano l’atteggiamento dilatorio turco [21]. Le frontiere serbe decise durante il congresso di Berlino (1879) rispettavano solo in parte il principio di nazionalità. La Serbia della relazione del delegato italiano nella Commissione di delimitazione dei suoi confini è differente dalla generica e non positiva percezione che di essa si aveva. Un paese con istituzioni ritenute liberali in cui si valorizzava l’istruzione pubblica ed erano vivi il sentimento religioso, l’amor patrio e familiare. Oltre agli aspetti politici la conoscenza di quelli militari avrebbe concorso alla definizione di una politica estera di successo. Le ambizioni di grandezza serba erano sostenute da un esercito in continuo miglioramento con soldati coraggiosi e addestrati per quel teatro operativo [22]. Le relazioni degli ufficiali italiani continuarono ad essere la principale fonte di conoscenza non soltanto per gli aspetti legati agli scontri e diedero conto della questione della Dobrugia regione di costante contenzioso tra Romania e Bulgaria. In un approfondito resoconto furono indicate tre possibili linee di demarcazione prendendo in considerazione le ragioni economiche, politiche, militari e nazionali alla base delle richieste di Bucarest e Sofia. Nel medesimo corposo resoconto era analizzata la situazione delle forze ottomane, serbe e montenegrine e si traeva l’impressione che più di un conflitto concluso si trattasse di un precario armistizio [23].

    L’interpretazione dei Balcani come terra del riscatto delle nazionalità oppresse influenzò i garibaldini italiani che costituirono una brigata partigiana di 390 uomini sin dall’ottobre 1875 diventando il gruppo più numeroso di un insieme composito di una forza di guerriglia internazionale [24].Allo Stato Maggiore italiano era chiara la situazione post-congresso di Berlino. La pace e la stabilità era stata sacrificata dal rispetto e sostegno di interessi particolari gestiti dalle potenze più interessate, Austria-Ungheria, Regno Unito, Russia, alla spartizione delle spoglie dell’impero ottomano non in grado di difendersi in ragione di un decadimento del corpo ufficiali, dell’addestramento delle truppe e del rispetto della disciplina [25].Lo stato ottomano delegava la propria sopravvivenza alla capacità di dilazionare nel tempo i negoziati per la sistemazione delle sue frontiere nei residui possedimenti europei tramite la cessione di territori importanti. Tra questi la Dobrugia costituiva il principale motivo di scontro tra la Romania e la Bulgaria. Una regione potenzialmente ricca se sfruttata e abitata da popolazioni bulgare, turche, rumene, ritenute in parziale armonia, alle quali si aggiungevano genti di origine greca e tartari musulmani discendenti dalla migrazione dalla Crimea nel periodo 1854-56 e in condizioni di povertà e arretratezza. La difficoltà di tracciare le linee di frontiera erano aumentate da un territorio non lineare, accidentato, ricco di valli. La popolazione di origine turca potendo scegliere avrebbe preferito la sovranità rumena rispetto a quella bulgara la cui gente era stata sua sottoposta in condizioni molto dure. Il colonnello Orero in viaggio nella Dobrugia come membro della Commissione europea per la delimitazione dei confini costituita dopo il congresso di Berlino, descriveva i desolanti scenari post-bellici. La città di Mangalia sul Mar Nero aveva patito tutti gli orrori della guerra del 1877. La popolazione era fuggita dalla città saccheggiata e incendiata tre volte e solo con l’arrivo delle truppe russe la parte bulgara di essa era parzialmente rientrata. È interessante come Orero criticasse la mancanza di una politica italiana di penetrazione economica nell’area [26]. Le informazioni comunicate sulla capitale rumena coglievano il carattere francese che si voleva dare ad essa e anche l’artificiosità di tale tentativo che sembrava non tenesse conto dei costumi, delle tradizioni, in buona sostanza dello spirito nazionale il quale avrebbe dovuto prevalere al posto della sudditanza psicologica verso la Francia importata dalla diaspora rumena ivi residente e alla base della frattura esistente tra la popolazione e il suo principe regnante. Da Parigi avevano preso e reinterpretato il senso della mancanza di rispetto verso le autorità e la religione. L’uso stesso della politica più come strumento dalle manifestazioni plateali di interesse persole che di crescita nazionale. Bucarest era per il commissario italiano un brutto posto dove la corruzione nella pubblica amministrazione e nello stesso governo dipingevano il quadro di una transizione difficile di una stabilizzazione politico-amministrativa complessa in un contesto aggravato dal distacco della capitale dalle campagne. Il sogno irrealizzato della Grande Romania sarebbe servito alle élite al potere anche a tenere tranquilla la popolazione. Il governo italiano aveva piena coscienza della situazione della questione Dobrugia e della posizione del governo russo di aperto contrasto con le decisioni della Commissione sostenute da Roma non particolarmente favorevoli, secondo San Pietroburgo, agli alleati di Sofia. Il governo italiano avrebbe voluto un accordo preso tra Bucarest e il governo russo nel rispetto delle decisioni del congresso di Berlino. Roma non era in grado d’imporre un punto di vista autonomo all’interno di un disegno politico di mantenimento di un, anche se debole, equilibrio nell’area balcanica. L’attività degli ufficiali italiani consente di comprendere la scarsa disponibilità delle potenze del Concerto europeo di garantire le nuove frontiere ottomane. La definizione del confine tra la Bulgaria e la provincia autonoma, ma sotto sovranità della Sacra Porta, della Rumelia orientale avrebbe dovuto garantire a Costantinopoli una frontiera difendibile, ma al sultano furono negati gli elementi che avrebbero consentito alla regione appena creata di essere la prima linea di difesa dei resti dei possedimenti in Europa dell’impero ottomano. A questo fu negato il diritto di avere truppe stanziate nel territorio in questione e le fortificazioni poste sul confine non avrebbero avuto un retroterra amico e la garanzia di linee di rifornimento, il tutto in un’area in cui risiedeva una popolazione molto ostile. Gli spostamenti non servivano solo alla delimitazione delle frontiere, ma erano anche l’occasione per una conoscenza delle condizioni economiche e

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