Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Cavaliere di San Giovanni
Il Cavaliere di San Giovanni
Il Cavaliere di San Giovanni
E-book486 pagine7 ore

Il Cavaliere di San Giovanni

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Belluno, XII secolo, il piccolo Jacopo nasce in una provincia ai confini dell'Italia settentrionale. Fin da subito la sua esistenza si lega drammaticamente alle guerre e ai sotterfugi per il dominio di quelle terre. Affidato in tenera età a un monastero, seguirà poi il padre tagliaboschi. La sua vita nel frattempo continua a subire le trame dei potenti fino a quando l’amore per Giulia lo trascinerà, nel bene e nel male, in un turbinio di colpi di scena e situazioni inaspettate che lo renderanno protagonista della storia della sua città. Il Cavaliere di San Giovanni è un romanzo storico in cui le vicende di un medioevo fatto di complotti e crude battaglie viene narrato con quel pizzico di fantasia che rende gli eventi storici accattivanti e coinvolgenti, dove gli intrighi e i colpi di scena si intrecciano a fatti realmente accaduti.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2014
ISBN9788866601197
Il Cavaliere di San Giovanni

Leggi altro di Taras Stremiz

Correlato a Il Cavaliere di San Giovanni

Titoli di questa serie (58)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il Cavaliere di San Giovanni

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Cavaliere di San Giovanni - Taras Stremiz

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Cover

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Il Cavaliere e la Croce

    Un romanzo storico di

    Taras Stremiz

    Il Cavaliere di

    San Giovanni

    Opera terza classificata alla II edizione del Premio Raffaele Artese – Città di San Salvo 2014

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-119-7

    IL CAVALIERE DI SAN GIOVANNI

    Autore: Taras Stremiz

    II  E d i z i o n e 2016

    Copyright © 2014-2016 CIESSE Edizioni

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    www.ciessedizioni.it – www.shop-ciessedizioni.it

    www.blog-ciessedizioni.info

    I Edizione stampata nel mese di febbraio 2014

    II Edizione stampata nel mese di luglio 2016

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2014 CIESSE Edizioni

    Disegno di copertina: © 2014 Max Rambaldi

    Collana: Green

    Editing a cura di: Renato Costa

    PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    Ai miei figli

    Giulia e Christian

    Capitolo I

    Novembre, A.D. 1171

    Presso il passo di Praderadego, contea di Zumelle

    L’estate era terminata da un pezzo e il freddo cominciava a farsi sentire mentre si avviavano a fatica verso il passo di Praderadego. Marco, con la moglie Silvia e il piccolo Jacopo, stava tornando da Venezia, dove aveva venduto il legname che l’anno seguente avrebbe dato da vivere alla famigliola. Approfittando del sole alto nel cielo fecero una breve pausa e Marco aiutò la moglie a scendere dalla mula per sgranchire le gambe. Silvia allora scoprì con delicatezza il viso del piccolo per regalargli un po’ di tepore e dare un’occhiata alle sue belle guance paffute. Erano passate poche settimane da quando il buon Dio l’aveva fatto venire al mondo proprio il giorno di San Giacomo, e Jacopo, in onore del suo santo protettore, avevano deciso di chiamarlo. Novembre era iniziato da pochi giorni e le giornate già si stavano accorciando, nonostante l’intenzione iniziale, la moglie fece a piedi solo un piccolo tratto di strada, poi iniziò ad accusare la stanchezza. Marco la vide in difficoltà e incrociando le mani fece uno scalino per aiutarla a salire nuovamente in groppa alla vecchia mula che li accompagnava nei loro viaggi, soprattutto ora che la famiglia si era allargata.

    La strada che congiungeva Belluno a Venezia, finita la guerra tra i trevigiani e i bellunesi, si era fatta più sicura. Pochi anni prima era diventata signora di Zumelle una contessa che, grazie alla sua intelligenza e alla sua abilità diplomatica, garantiva pace e tranquillità al proprio feudo, posto al confine tra Belluno, Ceneda e la Marca Trevigiana. Grazie a lei erano ripresi i commerci e la via Claudia Altinate, uno dei principali assi commerciali tra Venezia e il Sacro Romano Impero, era affollata come un tempo.

    Arrivarono al passo quando ormai era passato mezzogiorno e Marco decise di fermarsi. Mangiarono velocemente un po’ di pane e formaggio per rimettersi in forze. Nonostante la moglie fosse ancora giovane e vigorosa, l’allattamento la stancava molto e ogni movimento richiedeva uno sforzo maggiore del normale.

    Dopo aver mangiato e bevuto un po’ d’acqua fresca, Silvia scoprì il seno per allattare il piccolo, che già reclamava la pappa con deboli lamenti.

    Marco la guardava estasiato, la maternità aveva reso la sua donna più dolce e i delicati lineamenti ancora più belli. Ai suoi occhi era meravigliosa, mai avrebbe pensato di sposare una donna così bella! Rimase a fissarla mentre accompagnava delicatamente la testa del piccolo al seno, leggermente più grande del solito. Jacopo si attaccò immediatamente alla madre e iniziò a poppare con voracità, Silvia sorrideva mentre con il dorso della mano accarezzava la testolina della sua creatura.

    Scostando con la mano un ciuffo dei suoi lunghi capelli castani, si accorse che il marito la stava guardando. Allora sorrise, inclinò leggermente la testa di lato e fece finta di rimproverarlo.

    «Non fissarmi in quel modo… lo sai che mi metti a disagio!».

    Marco, colto in flagrante, sorrise.

    «Scusa, ma non ho saputo resistere!».

    Lei alzò nuovamente lo sguardo. I suoi occhi azzurri, trasparenti alla luce del sole, impreziosivano il volto. Dandogli un buffetto sul braccio disse: «Dai, sciocco, neanche fossi una regina!».

    Lui sorrise di nuovo e non rispose, ma pensava che fosse più bella di una regina.

    Pochi minuti più tardi le loro chiacchiere si spostarono sulle trattative della sera prima a Venezia.

    «Mi sembra che Ludovico quest’anno abbia fatto più affidamento sul nostro legname, la richiesta è leggermente aumentata» commentò Silvia.

    Si riferiva a Ludovico Dandolo, il patron, che, curando gli acquisti del legname dell’Arsenale navale di Venezia, gestiva le forniture e rappresentava la fonte principale dei loro guadagni.

    «Ci ha chiesto quattrocento tronchi più dell’anno scorso!».

    Era vero ma Marco sapeva che l’aumento della richiesta non andava di pari passo con la diminuzione della quota assegnata ai mercanti di legname di Trento. Voleva solo dire che erano previste altre spedizioni, e altre crociate volevano dire altre navi, e altre navi volevano dire maggior richiesta di legname.

    Marco cercò di spiegare la situazione.

    «In effetti, un aumento di richiesta c’è stato, ma tra poco ci sarà il calo».

    «Non è quindi finita la penuria degli ordini patita in questi anni?» chiese Silvia, sorpresa.

    A Marco faceva quasi tenerezza l’ingenuità della moglie, perciò misurò le parole.

    «Negli anni passati la penuria degli ordini non è stata causata da una mancata produzione di navi veneziane, ma dal fatto che il Piave a valle di Belluno era sotto il controllo dei trevigiani, a sua volta in guerra con la nostra gente. Di conseguenza, non potevamo commerciare con Venezia, se non correndo notevoli rischi di perdere la merce».

    «Comunque abbiamo venduto ben duemila e cinquecento tronchi!» rispose Silvia.

    «Perdendone settecento che i trevigiani ci hanno rubato dopo Cesana!».

    «D’accordo, ma adesso tra Belluno e Treviso regna la pace».

    «Per questo Venezia ha aumentato gli ordini: ritiene ancora più affidabile la contea del Tirolo per la consegna delle merci, infatti, a loro ne ha ordinati cinque volte tanti!».

    «Ma se c’è la pace, potremo garantire le consegne. La nostra offerta è di gran lunga superiore ai loro ordini!».

    Marco sapeva che la tregua era dovuta solamente alla contessa di Zumelle, i cui terreni comprendevano sia Cesana, verso Belluno, che Ceneda, verso Treviso. Sapeva anche, però, che negli anni precedenti i trevigiani non avevano quasi mai rispettato le tregue.

    «Tu conosci i trevigiani… della nostra gente ci si può fidare, come delle nostre spedizioni e delle nostre consegne. Ma ti fideresti della parola di chi, per arroganza e ingordigia, ha ignorato i moniti di papi e imperatori? Ti fideresti di quelli che, sebbene scomunicati, hanno assaltato a tradimento territori confinanti, nonostante fosse stato firmato un trattato di pace?».

    Silvia cominciava a capire cosa intendeva il marito.

    «Di Ludovico si può dire tutto, tranne che sia stupido o male informato. E ci scommetterei la mula che la pensa come me! Altri sono convinti che i trevigiani non osino affrontare la contessa di Zumelle perché scatenerebbero contro di loro le province confinanti, ma aspettano solo che lei muoia per impadronirsi del suo feudo con la diplomazia o, se necessario, con la forza».

    Silvia di fronte a tanta crudele freddezza, e immaginando ciò che questi eventi avrebbero portato, prima avvicinò le mani alla bocca, poi si fece il segno della croce.

    Il marito, pentito di avere prospettato un futuro tutt’altro che roseo, le cinse le spalle rassicurandola.

    «Per fortuna, però, i tempi della dipartita della contessa sono ancora lontani, e grazie a Dio ora regna la pace su queste terre. Adesso dobbiamo solamente pensare a consegnare puntualmente le merci a Venezia, il legname migliore, più stagionato e senza nodi. Belluno deve guadagnarsi la fiducia di Ludovico, e impegnandoci a fondo sono certo che ci riusciremo».

    Le ultime parole di Marco avevano allontanato da Silvia i dubbi e le paure per il futuro, facendola pensare all’immediato e a come migliorare i loro guadagni.

    «Adesso è meglio che andiamo, altrimenti non arriveremo a Belluno prima del calar del sole».

    Con un sorriso baciò la fronte del bimbo che ormai dormiva attaccato al seno della madre.

    «Guarda che così lo vizi!».

    Con un colpetto sul sedere incitò la moglie a fare un po’ più veloce, ma poi le diede un bacio sul collo cingendole la vita.

    Silvia fu rapita da quel gesto di affetto del marito.

    «Se fai così, di certo non mi allontanerò da te...» e risero entrambi.

    «Forza! Andiamo!» disse Marco.

    Guardò la moglie raccogliere i resti del cibo. Nonostante la recente gravidanza e i suoi ventisei anni, era magra e snella. La gonna bianca di lino, indossata per l’occasione, le cingeva la vita sottile, lasciando intravedere un sedere sodo e rotondo da fare invidia a donne ben più giovani. Marco fu incantato e un po’ eccitato da quella visione.

    «Jacopo avrà presto bisogno di un fratellino!».

    Silvia, con lo sguardo civettuolo, si girò sorridendo.

    «Non farti venire in mente strane cose adesso, e parla piano che si è addormentato».

    Avvolto il bambino in una coperta di lana, Silvia salì in groppa alla mula. Appena la moglie si fu sistemata, Marco prese le briglie e, camminando davanti, incitò l’animale a seguirlo. Lei osservò il marito che la precedeva: era alto, robusto, i capelli neri come il carbone, una rada barba copriva gli zigomi pronunciati e la mascella robusta. Aveva due mani enormi e ruvide, forgiate dal lavoro pesante che non conosceva pause. Quel marcantonio, però, sapeva essere il marito più affettuoso e delicato che una moglie potesse desiderare. A volte pensava anche alla sua capacità di capire gli affari e il mondo che lo circondava. Una dote innata, visto che dall’età di cinque anni lavorava come falegname e i suoi genitori non lo avevano mai fatto studiare. A insegnargli le arti della lettura e della scrittura ci aveva pensato lei, che a sua volta le aveva imparate dalle suore quando era ancora bambina, prima che il padre la mandasse a vendere la frutta e le uova prodotte nella sua piccola fattoria. Ripensando al figlio e al marito, anche se non era una contessa, si riteneva una donna molto fortunata, circondata dalla forza e dall’affetto di un uomo assieme al quale avevano dato vita a uno splendido bambino.

    Era passata un’ora da quando si erano fermati per il pranzo. Dopo una prima discesa, la strada si faceva quasi pianeggiante. La carreggiata, larga tre o quattro passi, era affiancata da un fitto bosco di conifere, che Marco valutò con occhi di esperto taglialegna. Stavano scendendo abbastanza rapidamente per recuperare il tempo perduto, quando in lontananza sentirono dei cavalli che si avvicinavano provenienti dalla direzione opposta. Fossero stati soli e senza mula di certo si sarebbero nascosti nella boscaglia, ma con il bimbo e con l’animale era ormai troppo tardi per infrattarsi.

    Superata una stretta curva videro i cavalieri. Erano tre, due con uniformi identiche di colore azzurro, e il terzo, leggermente più avanti, aveva dei vestiti lussuosi del medesimo colore. In un primo momento Marco pensò che si trattasse di soldati bellunesi, anche se il colore era un po’ più chiaro del solito, ma con l’avvicinarsi del primo cavaliere vide che sugli scudi e sul petto non campeggiava una croce rossa con due grifoni, simbolo di Belluno, ma un leone rampante che non riusciva a collegare a nessuna contea o città di sua conoscenza.

    Silvia, preoccupata, guardò il marito, ma egli alzò le spalle per manifestarle il medesimo stupore. Pochi istanti dopo i cavalieri si avvicinarono ai viandanti e il capo alzò il braccio per indicare agli armigeri di non proseguire oltre. Tirate le briglie ai cavalli, si fermarono a pochi metri da loro. Il capo, chiaramente un nobile, con tono autoritario ma schifato interrogò Marco.

    «Chi siete? Cosa vi porta ad attraversare queste terre?».

    Marco, quasi offeso dal piglio, si sforzò di mantenere un tono calmo e umile. Era meglio non far irritare i nobili, da qualsiasi città provenissero.

    «Siamo di Belluno e siamo di ritorno da un viaggio a Venezia per affari».

    «E che genere di affari potrebbero fare degli stupidi montanari a Venezia?».

    Silvia capì che il tono del nobile non era per nulla cordiale, smontò dalla mula e, con il piccolo Jacopo in braccio, lentamente si portò dietro a Marco, quasi a cercare la sua protezione. Il marito intanto rispose.

    «Trattiamo legname, mio signore, l’unica merce di noi poveri cittadini che interessi all’Arsenale di Venezia».

    Il nobile squadrò con disgusto la coppia. Aveva la fronte sfuggente, piccoli occhi iniettati di sangue e un labbro leporino. Una rada barba incolta copriva le guance pallide e scarne, facendo risaltare il grosso naso paonazzo, chiaro segno di una recente bevuta. Il mento, arretrato rispetto alle labbra, era tagliato al centro da una profonda ruga che faceva pensare a un deretano in miniatura. Quasi come un affronto si rivolse al falegname.

    «Cittadini? Voi non siete cittadini, siete solo feccia! Voi montanari non sapete nemmeno come sono fatte le vere città, quindi non usare questi termini per descrivere la gente ignorante delle vostre contrade».

    Marco stentò a reprimere la collera, ma mantenendo un atteggiamento umile e composto rispose: «Sono spiacente di averla offesa, mio signore, da quando l’imperatore ha dichiarato Belluno contea libera, forse ci siamo montati la testa».

    Dopo quell’atto di umiltà il nobile sembrò calmarsi.

    «L’offesa che hai recato alla mia persona non è da poco, ma potrei perdonarvi e dimenticare tutto, a patto che mi consegniate tutto il denaro che portate con voi!».

    Silvia cercò di protestare, non avevano fatto nulla di male e nulla di offensivo nei confronti di quel prepotente, ma il marito le strinse il braccio invitandola a stare ferma e zitta. Marco andò alla bisaccia che era appesa alla groppa della mula, tirò fuori ciò che gli era rimasto dopo il lungo viaggio e lo porse al nobile.

    «Abbiamo solo due Denari e qualche Piccolo, mi scuso immensamente, ma la maggior parte del denaro l’abbiamo spesa durante il viaggio e...».

    Non fece in tempo a finire la frase che il nobile esclamò: «State infestando questa terra con i vostri luridi piedi e portate con voi solo pochi spiccioli? Siete degli stupidi, dei montanari ignoranti e straccioni!».

    Poi, rivolto ai due armigeri, ordinò: «Separateli e legateli!».

    Marco, ormai furioso, rispose: «Queste terre sono della contessa di Zumelle, non so chi siate, signore, ma c’è un trattato di pace e non è richiesto alcun dazio per percorrere questa via, né vi sono limitazioni alla sua percorrenza!».

    Il nobile, adirato per quell’inaspettato affronto, si girò di scatto.

    «Come osi tu, scarto della società, rivolgerti in maniera così impertinente al signore di Cavaso? Ti ho forse dato il permesso di parlare? Queste terre, a dispetto delle carte imperiali, spettano per tradizione alla gente trevigiana. Dovete solo ringraziare Dio che il nostro marchese è ormai troppo vecchio e stanco per reclamare con le armi ciò che è suo di diritto!».

    In effetti, il signore di Treviso aveva passato la settantina ed era comprensibile che non avesse più le forze fisiche e mentali per intraprendere una campagna che avrebbe aizzato le contee confinanti contro la Marca Trevigiana.

    Poi, con un lieve sorriso sulle labbra, continuò: «Ma presto arriverà qualcuno che farà rinascere l’orgoglio trevigiano... e non credere che la contessa viva ancora a lungo per toglierci queste terre. Una volta sparita, sono certo che suo marito sarà più ragionevole».

    Dopo quest'affermazione rise sonoramente, imitato dai suoi due scagnozzi.

    «Ora ti insegneremo come si tratta un conte e, soprattutto, cosa succede a chi non lo tratta come si deve!».

    Guardando gli armigeri, fece un gesto con la mano per indicare Marco e la moglie e tuonò infastidito: «Vi ho detto di legarli! Non avete capito?».

    I soldati smontarono subito da cavallo e si avvicinarono ai viandanti con fare deciso e con un sorriso maligno, arrivati vicino alla coppia, li separarono con modi violenti, a quel gesto Silvia iniziò a singhiozzare.

    «Vi prego, mio signore, non fateci del male. Mio marito ha risposto in maniera ostile solo perché è stanco dal lungo cammino».

    Ma uno dei soldati rispose: «Stai zitta, se non vuoi che ti tagli la gola!».

    Il bimbo, svegliato da tutto quel trambusto e sentendo anche l’agitazione della madre, iniziò a piangere sonoramente.

    «Fai star zitto quel moccioso, se ci tieni alla sua vita!» disse il conte irritato dal pianto infantile.

    Silvia prese pudicamente una delle due pezze di stoffa che teneva appoggiate ai seni per non macchiare la maglia. Ne attorcigliò un angolo e lo mise in bocca al bimbo. Per fortuna Jacopo, sentendo il sapore del latte e l’odore della madre, succhiò e smise quasi subito di piangere, tranquillizzato anche dal leggero dondolio delle braccia materne.

    Il conte smontò da cavallo e si avvicinò a Silvia squadrandola da capo a piedi con uno sguardo lussurioso.

    «Sarai pure una montanara, ma forse un modo per placare la mia collera lo troviamo…».

    Marco, intuendo i pensieri del conte, con un gesto repentino e potente scaraventò a terra l’armigero che gli stava di fronte e con fare deciso avanzò in direzione del conte prendendolo per la collottola e sollevandolo da terra lo fissò negli occhi, ora alla sua altezza.

    «Non provare a toccarla altrimenti, conte o no, ti uccido con le mie mani».

    Aveva appena finito la frase quando un colpo fortissimo lo colpì alla nuca facendolo barcollare, subito seguito da un altro in pieno volto. Il pugno, dato con il guanto di ferro, fece cadere a terra il falegname, mentre l’occhio iniziò a sanguinare copiosamente.

    Entrambi gli armigeri tempestarono di calci il taglialegna accasciato a terra, soffocandone ogni minima resistenza. Silvia, agghiacciata da quella scena, iniziò a strillare implorando pietà per il marito, e il bimbo, risvegliato dalle urla, cominciò a piangere, ignaro di quello che stava succedendo.

    «Non uccidetelo, non ora almeno! Deve pagare per quello che ha fatto, voglio che assista alla punizione» disse il conte.

    I due soldati smisero di pestarlo e ridendo girarono la testa di Marco verso la moglie. Uno vi appoggiò sopra un piede per tenerla girata, brandendo la spada a due dita dal collo.

    Il conte raggiunse Silvia. La prese da dietro e, mentre con un braccio le stringeva il collo, con l’altra mano le tastò violentemente il seno. La donna cercava di divincolarsi.

    «Lasciami, porco figlio del demonio, non mi toccare!».

    Il conte, irritato per l’insulto, le diede un ceffone in pieno viso che le fece quasi perdere i sensi. Allo stremo delle forze e intontita dal colpo, la donna disse: «Bastardo, Dio non avrà pietà di te!».

    Il bimbo, ancora tra le braccia della madre, urlava mentre lei cercava, anche in quella situazione, di dargli tutto il suo amore cullandolo dolcemente.

    Il conte, esasperato e furioso, la prese per i capelli facendole piegare il collo all’indietro e con il fiato che sapeva di vino sussurrò all’orecchio della donna: «Adesso la pagherai!».

    Prese il bimbo con uno strattone dalle braccia della madre e lo gettò sulla strada sterrata. Il piccolo cadde e rotolò per alcuni metri per poi fermarsi, inerte, a terra. Non emetteva più nemmeno un lamento. Guardando l’esile figura immobile e a braccia aperte, con le guance paffute piene di polvere e gli occhi chiusi forse per sempre, Silvia emise un grido di dolore straziante. La sua mente iniziava a perdere il contatto con la realtà: la sua vita era distrutta, il marito era a terra agonizzante e il figlio era morto.

    Marco non riusciva a muoversi, vide il bimbo rotolare a terra, una lacrima scese lungo il suo viso tumefatto, provò a reagire ma la lama della spada gli schiacciò la gola e mentre il soldato premeva con il piede sulla sua testa, gli sussurrò all’orecchio: «Goditi lo spettacolo, montanaro!».

    Silvia era assente, il dolore l’aveva resa insensibile e il conte, sollevato dal fatto che il bimbo non piangeva più, la prese e la gettò a terra. Un armigero le tenne le mani mentre il nobile, strappata la gonna, ammirò i sodi glutei della donna. Si abbassò i calzoni mostrando il pene già eretto dall’eccitazione, Silvia provò a divincolarsi ma un ceffone del soldato con il guanto di ferro la fece desistere e quasi svenire.

    Il conte infilò violentemente le dita nel sesso della donna facendola gemere di dolore per poi penetrarla con violenza. Continuò ad abusare di lei colpendola continuamente sulle natiche e sul volto, tirandole i capelli e dicendo cose oscene.

    Giunto all’amplesso eiaculò e guardando il marito disse: «La tua donna è veramente una bella cavalla!».

    Il nobile e i soldati risero sonoramente a quell’affermazione. Marco, inerme e disperato, pianse. Non era riuscito a proteggere ciò che amava di più.

    Soddisfatto dell’atto sessuale, il conte si rivolse ai soldati.

    «Chi di voi è il prossimo?».

    Marco sentì gelare il sangue nelle vene. Il mondo gli stava crollando addosso.

    I due armigeri violentarono Silvia ripetutamente mentre lei, forse per difesa o forse per il trauma subito, sembrava assente. Estranea a tutto ciò che stava succedendo. Una volta soddisfatti, i soldati e il conte si ricomposero. La donna era immobile a terra, si capiva che era viva solo per il leggero movimento del torace, che tradiva la respirazione. Marco pensava che l’inferno fosse passato quando il nobile, sfilato il pugnale dal fodero della sua cinta, si avvicinò a Silvia e, prendendola per i capelli, le alzò la testa scoprendole il collo.

    La moglie era bella anche in quelle condizioni. Aveva un’espressione stranamente rilassata, aveva capito cosa stava per succedere e lo considerava comunque una liberazione dall’orrore appena subito. I suoi occhi erano azzurri, come sempre, un solo ciuffo di capelli era sfuggito alla presa del suo aguzzino, il ciuffo ribelle che le attraversava l’occhio destro. Sulla fronte aveva un livido che si stava gonfiando e dalle labbra scendeva un rivolo di sangue, ma il suo volto era pieno d’amore per quel marito che, impotente, non poteva reagire.

    Il conte, rivolto a Marco, prese fra le mani la testa di Silvia.

    «È stata brava la tua vacca, ma non posso permettere che questa montanara porti in grembo il mio seme e magari mio figlio. Noi trevigiani non lasciamo bastardi in giro per il mondo, tanto meno dei piccoli bastardi avuti con una razza inferiore come la vostra!».

    La donna, prima di essere sgozzata, guardò teneramente il marito e con l’ultimo fiato sussurrò: «Ti amo!».

    Il nobile, appoggiato il coltello alla gola di Silvia, con un taglio netto le recise il collo.

    Marco, con tutta la forza che aveva, urlò il suo dolore. Per lui la vita moriva quel giorno, assieme al figlio e all’amata moglie.

    Il conte di Cavaso lasciò cadere il corpo esanime della donna, mentre una pozza di sangue cominciava ad allargarsi sulla strada sterrata.

    «Andiamo, qui abbiamo finito, lasciamo che il montanaro mediti sulle sue colpe».

    Ridendo come indemoniati i tre montarono a cavallo e si avviarono lungo la strada che portava al passo.

    Marco rimase immobile per alcuni minuti, chiedendosi perché non avessero ucciso anche lui, liberandolo da quell’incubo. Cercando di reagire si sollevò tutto dolorante e si avviò verso il corpo dell’amata moglie. La sollevò, stringendola tra le braccia. Il volto delicato era imbrattato di sangue e terra, la girò e la strinse al petto, mentre con la mano cercava di pulirne delicatamente il viso. Stette così per alcuni minuti, accarezzando i suoi lunghi capelli castani e baciandole di tanto in tanto la fronte. Gli sembrava impossibile di avere perso la donna che per anni aveva reso la sua vita straordinaria. Ripensò ai bei momenti passati assieme, alle prime notti d’amore nei boschi poco lontano da Belluno, ai suoi sguardi, ai suoi sorrisi, a ciò che avevano vissuto assieme. Questi pensieri erano una tortura, lo sapeva, ma non poteva fare a meno di ricordare i momenti felici, anche se ora, sotto di lui, si apriva una voragine che inghiottiva tutto ciò a cui teneva. Ripensò al primo bacio, al matrimonio e al loro bambino.

    Jacopo! Se ne era quasi dimenticato. Adagiò delicatamente il corpo della moglie a terra, facendo attenzione a non posarlo sulla macchia di sangue. Si alzò e andò verso il bimbo, pur sapendo che un’altra freccia gli avrebbe trafitto il cuore. Jacopo, sangue del suo sangue, il futuro suo e dei suoi avi, era lì, disteso a terra, con il visino rivolto verso l’alto. Lo guardò tutto impolverato e con le braccia aperte, quasi fosse crocefisso a terra. In quella terra biancastra e ghiaiosa che era la mulattiera della sua disperazione. Arrivò sopra il corpicino, lo sollevò da terra pulendogli il volto con il dorso della mano, quasi non volesse far male a quella creatura ormai esanime. Se lo portò al petto e lo coccolò come non aveva mai fatto prima. Stava baciando la fronte morbida, quando il bimbo, inspirando a pieni polmoni, iniziò a piangere a tutta forza. Marco non riusciva a crederci, suo figlio era vivo. Senza poter controllare le sue emozioni, il falegname iniziò a piangere e a ridere allo stesso tempo. Con le sue mani grandi e callose prese dolcemente il corpicino del bimbo e lo alzò al cielo.

    «Dio sia lodato, mio figlio è vivo! Jacopo è vivo!».

    Lo strinse ancora al petto con tutta la dolcezza di cui era capace e iniziò a cullarlo goffamente. Per tutta risposta il bimbo si calmò e smise di piangere. Tranquillizzato, Jacopo cercò il seno di sua madre e di colpo a Marco tornò tutta la tristezza che aveva scordato.

    «Vuoi la mamma, vero? Adesso non può, piccolino, se n’è andata in cielo, ma mi ha detto di dirti che ti voleva bene».

    Continuò a cullare il figlio fino a quando non si addormentò dolcemente, invidiandogli l’inconsapevolezza di ciò che era appena successo.

    Marco appoggiò il figlioletto su di un letto di foglie secche. Poi, delicatamente, portò tra le braccia, come fosse stata una sposa, il corpo della moglie fino a un boschetto di faggi e noccioli. La posò a terra e la coprì con sassi e foglie secche ai piedi degli alberi ormai spogli. Promise a Silvia, e a se stesso, che sarebbe tornato a prenderla per seppellirla in terra consacrata, affinché potesse avere pace nel regno dei cieli.

    Prese in braccio il figliolo e cominciò a scendere il passo verso casa, non prima di aver smosso un po’ la terra dove c’era ancora la macchia di sangue. Il suo odore poteva attirare volpi e lupi che avrebbero straziato il cadavere della donna sepolta poco lontano. Dopo alcune ripide discese, giunse a una curva stretta. La strada in quel punto percorreva la cresta di un promontorio per poi perdersi nuovamente nel fitto della boscaglia. Di colpo si aprì il panorama, da quel costone poté vedere tutta la val Belluna che, splendida, si distendeva ai suoi piedi.

    Si fermò ad ammirare lo spettacolo, era una giornata serena e limpida, poco più sotto, alla sua sinistra, svettava, maestosa e austera, la possente torre della rocca di Zumelle, circondata dalle mura e dalle piccole torrette che ne sorvegliavano l’entrata principale. L’imponente fortificazione era alta oltre cento piedi e la sommità si scorgeva anche dalle sponde del Piave che scorreva in mezzo alla valle. Il suo sguardo spaziò sulle dolci colline abbellite dalle tonalità dell’autunno: il rosso cupo dei faggi, l’arancione vivo dei frassini e delle querce, il giallo intenso delle betulle e il verde cupo delle conifere. Oltre i boschi, all’orizzonte, fluiva sinuoso il Piave, che scorreva lento nel letto di candidi ciottoli. Le sue acque, nel sole della sera, erano argento vivo.

    Oltre il fiume, lassù, scorgeva le sue Dolomiti. Le amate montagne che salivano prima tra fitti boschi di pini, poi tra prati verdi, fino alle nude rocce che il tempo aveva trasformato in castelli turriti e maestosi.

    Le cime delle montagne erano già coperte da un velo di neve che non si sarebbe dissolto fino all’arrivo della primavera. Alla vista della neve Marco si rese conto che il sole stava calando e il freddo tornava a essere pungente. Nulla di sorprendente, visto che era novembre, ma quella sera il freddo veniva dal suo cuore e l’aria gelida non lo avrebbe certo aiutato a scaldarsi.

    Dopo un’ora di cammino giunse alle porte del castello di Zumelle, la strada passava proprio ai piedi dell’imponente rocca. Disperato e in balia degli eventi, decise di chiedere asilo per quella notte, come uno straccione. Non aveva scelta. Non per se stesso, ma almeno per il piccolo Jacopo. S’inerpicò per quell’ultima salita prima della porta delle mura basse. Il castello era costruito su di un piccolo promontorio in mezzo a due valli. Una posizione strategica sia per la visuale, sia per la difesa da eventuali attacchi. Era, infatti, impossibile giungere fino alle sue mura con strumenti d’assedio già costruiti e costruirli sulle pendici era praticamente impossibile, dato che si era a portata di tiro dei difensori.

    Giunto alla porta si accorse che era già chiusa. Il sole era da poco tramontato e le porte di qualsiasi città, castello o rocca, erano chiuse al calar del sole. Bussò energicamente per due volte al pesante portone di legno, non si presentò nessuno, ma al terzo tentativo dalla torre di destra sbucò la testa di un soldato.

    «Vattene, straccione, le porte sono chiuse, non vedi?».

    Marco, disperato, rispose: «Vi prego, aprite! Non sono un mendicante e sono appena stato aggredito, sono ferito!».

    «Vattene via, ho detto. Questo non è un ospizio, se vuoi la carità, devi andare al prossimo monastero, questo è un castello e non accettiamo mendicanti, qualsiasi strana storia inventino!».

    «Vi prego, sta per arrivare la notte e il mio bambino morirà di freddo se non lo porto al caldo, ha fame e la madre è appena stata uccisa!».

    In quel momento Jacopo, svegliato dalle urla del padre, iniziò a piangere a dirotto. La guardia, sorpresa che un mendicante portasse con sé un lattante, mandò a chiamare padre Anselmo, cappellano della rocca, che con calma andò verso la porta e aprì la piccola finestrella ad altezza d’uomo. Viste le condizioni del falegname e notando la grossa macchia di sangue sul petto, chiese: «Di dove sei?».

    «Di Belluno, padre».

    «Come posso sapere che non sei un assassino e che quello non è il sangue della tua ultima vittima?».

    Marco raccontò brevemente ciò che era accaduto nel pomeriggio e rievocando quei tragici momenti si fermò alcune volte per scacciare l’angoscia che ancora gli attanagliava le viscere.

    Il prete rimase a fissarlo in silenzio fino a quando il falegname non finì il racconto. Una volta che il forestiero ebbe finito, rifletté alcuni istanti, quindi chiuse la finestrella e ordinò ai soldati: «Aprite le porte, concediamo asilo a questo falegname».

    Le porte si aprirono, Marco entrò nella prima cinta muraria e appena si trovò di fronte al religioso si inginocchiò per baciargli la stola.

    «Dio sia lodato, siete un buonuomo, che Dio vi protegga!».

    Con un gesto quasi paterno, il prete appoggiò la mano destra sulla testa dell’uomo, ma con aria preoccupata rispose: «Dio ci protegga tutti quanti se ciò che mi hai detto è vero, e ahimè ho la sensazione che lo sia».

    Guidati dal religioso, Marco e il bimbo percorsero la strada che portava dalle mura esterne a quelle della rocca alta, protetta da un ulteriore ponte levatoio. Una volta nel maniero principale, percorsero pochi metri ed entrarono in un locale che doveva essere la mensa dei soldati. Al suo interno vi erano sei tavoli con delle panche ai lati. Un’altra porta, nella parete opposta, portava in un altro locale, probabilmente le cucine. Il monaco lo fece sedere e gli portò un po’ di pane, del formaggio e della birra. Posò le pietanze sul tavolo e disse: «Mi dia l’infante, a lui penserà padre Luigi. Non si preoccupi, è in buone mani, gli daremo del latte di capra e gli cambieremo i panni che, a quanto sento, non sono puliti».

    Marco, sorpreso, si rese conto che il bimbo effettivamente puzzava parecchio. Non ci aveva nemmeno pensato in tutto quel trambusto, di certo era ora di cambiarlo, ma non sapeva nemmeno come si facesse. Diede il piccolo a padre Anselmo, che lo portò in un’altra stanza. Il falegname stava ancora mangiando quando tornò il prete.

    «La signora contessa desidera vederti, affinché tu le racconti ciò che è accaduto».

    Dopo aver valutato le condizioni dell’ospite, riprese: «È meglio che tu ti dia una sistemata, almeno per mantenere la compostezza e la dignità che ti si addicono!».

    Andando verso la porta aggiunse: «Muoviti, non vorrai farla aspettare?».

    Marco si alzò immediatamente, sorpreso del fatto che lo ricevesse così presto. Il monaco lo portò prima al pozzo a lavarsi, poi salì le scale esterne che portavano alle stanze della signora. Una volta di fronte alla porta di quello che doveva essere lo studio, prima di aprire, lo fermò.

    «Aspetta qui».

    Ed entrò lasciandolo in attesa. Dopo alcuni minuti il monaco tornò: «Entra, ti sta aspettando».

    Marco entrò in uno stanzone illuminato da torce appese alle pareti e da un caminetto scoppiettante. L’ambiente era semplice e accogliente. Appoggiate alle pareti vi erano due grosse cassepanche e al centro della stanza campeggiava un lungo tavolo in noce con il piano spesso quattro dita circondato da sedie di ottima fattura. Alle pareti erano appesi vari crani di cervo con poderosi palchi di corna, probabili trofei delle battute di caccia del padrone. La contessa era seduta su di una poltrona di fronte al fuoco. Marco non poteva vederla in faccia, in quanto la sedia era di spalle rispetto alla porta.

    «Buonasera, mia signora, desideravate vedermi?».

    «Vieni pure, mostrati e siediti su quella sedia».

    La sedia a cui si riferiva la nobildonna era di fronte a lei, vicino al caminetto. Timoroso, il falegname avanzò e si sedette. La signora, già avanti con gli anni, manteneva un comportamento regale e autoritario. Il suo volto e le mani ossute erano coperte di rughe, i capelli candidi erano raccolti dietro la nuca. Sedeva fissando il movimento delle fiamme mentre la mano destra, appoggiata al piolo, continuava a tremare, come se sentisse freddo.

    «Come ti chiami?».

    «Marco, Marco da Borgo Piave, sono un falegname e vengo da Belluno».

    La luce del fuoco rendeva la donna ancora più magra e spettrale, sembrava stesse pensando ad altro mentre conversava. Quasi indifferente alla risposta del falegname chiese: «Sai chi sono io?».

    «Sì, mia signora, siete Sofia di Colfosco. La giusta e onesta contessa che comanda queste terre. Anche se non lo sapete, io e tanti altri vi dobbiamo molto».

    «Non adulatemi, non ne trarrete beneficio, limitatevi a dire che sapete del mio governo su questa regione».

    Marco, per far capire alla nobildonna la gratitudine dei mercanti, dei falegnami e degli altri artigiani di Belluno, disse: «Non vi sto adulando, mia signora, o per lo meno non era nelle mie intenzioni. Volevo solo dirvi che è grazie a voi se in questi anni Belluno riesce a fiorire. Dopo un lungo periodo di guerre e di battaglie, infatti, avete permesso alle merci di transitare regolarmente in questa regione».

    La contessa, sorpresa dalla riconoscenza dell’uomo, si ammorbidì e un leggero sorriso increspò le sue labbra rugose.

    «Non mi resta che accettare il tuo ringraziamento, Marco da Borgo Piave, ma non ti ho fatto chiamare per discutere di commerci e di pace, bensì di una ben diversa questione, molto più triste e drammatica».

    Marco lo sapeva fin dal principio che la sua convocazione riguardava il tragico episodio appena successo e quando la memoria tornò a

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1