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Il Copista
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E-book631 pagine9 ore

Il Copista

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Info su questo ebook

Cosa sareste disposti a fare per realizzare le vostre ambizioni? Quali sono i limiti che vi siete ripromessi di non superare per restare umani?

Luca Veridiani scoprirà quanto i suoi siano labili e quanto falsa è stata l'immagine che ha sempre avuto di se stesso, dopo l'incontro con Margherita, una giovane rimasta cieca a seguito di un incidente stradale. Nonostante la sua disabilità, la donna non rinuncerà alla sua passione per la scrittura e, realizzato il suo primo romanzo in braille, lo porterà nella tipografia di Luca per stampare le copie da inviare alle case editrici. La tenacia e il talento di Margherita, scateneranno nel Copista un sentimento di invidia che non riuscirà più a controllare, anche perché alimentato dall'amico e cognato Mario Sala. Uomo cinico e con il vizio del gioco, sa come fare presa sulle debolezze di Luca e tentandolo con la promessa di fargli ottenere ciò che ha sempre desiderato – la fama e il riscatto sociale – lo convincerà a commettere una serie di soprusi, ancor più crudeli perché ai danni di una donna incapace di difendersi.

I protagonisti di questa storia cadranno in una spirale di violenza che li trascinerà via dalle loro tranquille vite in una Lodi medio-borghese, che fa da scenario alle vicende; in un degrado fisico e morale, che vi farà letteralmente venire i brividi. Un noir tutto all'italiana, che non manca di far riflettere su come molto spesso si sbagli a giudicare se stessi e le persone ci circondano.

Ha perso tutte le scommesse con la vita. Una moglie, un posto in banca, e forse ciò che più desiderava: scrivere un romanzo. L’ha desiderato e rincorso per tutta la vita. Quando si è ritrovato per le mani un romanzo compiuto, non ha evidentemente resistito e ha fatto quello che ha fatto...
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2018
ISBN9788827825839
Il Copista

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    Anteprima del libro

    Il Copista - Riccardo Alberto Quattrini

    www.inchiostronero.it

    Spesso, il delitto più banale è il più incomprensibile proprio perché non presenta aspetti insoliti o particolari, da cui si possano trarre delle deduzioni.

    Arthur Conan Doyle

    I

    Al Commissariato di Polizia , zona otto di via Quarenghi a Milano, si presenta al piantone una donna alta, formosa, bionda. Di un biondo rimarcato con gli shampoo coloranti. Un viso ampio e chiaro, due occhi azzurri, sbiaditi dai troppi pianti, e un italiano stentato. Dice al piantone, dietro una vetrata opaca, macchiata d'impronte e saliva, che vorrebbe fare una denuncia per la scomparsa di suo marito. Il piantone alza appena la testa e la indirizza, con il dito, in uno degli uffici che ci sono lungo il breve corridoio. Sono cinque le porte, ma lei non ha ben capito in quale deve entrare. Così resta in quel corridoio, pieno di cicche non raccolte da mesi e un puzzo di fumo e di chiuso, con la sua borsetta schiacciata contro il cappottino di un colore indefinito. In quel momento da un ufficio esce un uomo alto e un viso giovane. Le sorride appena e scuotendo la testa le chiede: «Chi cerca?»

    La donna lo guarda con quei suoi occhi timorosi e gli dice in un italiano stentato: «Mio marito scomparso.»

    L’uomo la guarda con un viso interrogativo.

    «Scomparso da quanto?»

    «Da...» e gli mostra due dita.

    «Due giorni?» le chiede l’uomo. Lei scuote la testa.

    «Venti?»

    Di nuovo scuote la testa. L’uomo dando segni di insofferenza le chiede deciso: «Insomma, da quanto tempo è scomparso?»

    «Due... mesi... » gli dice.

    «Due mesi?» grida stupito. «E lei viene ora a denunciarlo? Poteva aspettare ancora un po’» seguita, poi dice: «Venga» e si inoltra nel breve corridoio. «Di qua» dice spingendo una porta con il braccio e lasciandola passare. Una targhetta recita: Commissario Capo Fabrizio Messina.

    «Sieda» le indica una delle due sedie di metallo, tipo ospedale, di fronte alla scrivania sommersa da un’infinità di cartelle colorate e carte dappertutto. Una lampada da tavolo, con una luce chiara, mette in rilevo una parte di quel disordine. Messina ci gira attorno e si siede su una poltroncina di pelle rugosa e nera; dietro un muro ingiallito, bisognoso di pittura fresca, ci sta appesa la fotografia di Carlo Azeglio Ciampi e attorno, alla rinfusa, diversi gagliardetti e alcune fotografie che ritraggono un uomo in divisa accanto a una Pantera. La finestra che gli sta alle spalle ha la serranda storta e incastrata tra le guide, lascia passare solo una parte della luce che proviene da un cortile ampio, con alcune piante disadorne come l’ufficio.

    «Dunque, lei mi diceva di suo marito che è scomparso. Ma perché ha atteso tutto questo tempo per denunciarne la scomparsa?» le chiede l'agente con uno sguardo pieno di rimprovero.

    «Io via. Partita da dopo agosto.»

    «Dopo agosto? Settembre, vuole dire?»

    La donna annuisce con la testa.

    «Sì, settembre fine, Radom, mio paese.»

    «Lei è straniera? Di che paese?»

    «Radom, Polacca.»

    «Così è andata a casa sua in Polonia?»

    Lei annuisce.

    «E da allora non ha telefonato a suo marito e nemmeno lui l’ha chiamata, dunque?» il commissario capo Fabrizio Messina ce la mette tutta per cercare di farsi capire, gesticola in continuazione, anche ora per dire telefono, ha chiuso il pugno e fatto spuntare solamente il pollice e l’indice e se l’è portato all’orecchio.

    «Io no telefono, casa. Lui sa che quando vado casa io non ci sentiamo. Lui sempre trovato mio ritorno.»

    «Capisco. Va bene. Allora come si chiama suo marito.»

    «Bonaga. Fausto Bonaga» dice la donna torturando la borsetta che tiene in grembo. Il commissario capo cerca tra quelle carte un blocco per appunti che sa dover essere lì.

    «Bonaga Fausto» ripete ad alta voce scrivendolo sul blocco che ha trovato. «Nato a...?»

    La donna scuote la testa e tace, non smettendo di tormentare la borsetta. Il commissario capo alza gli occhi e osserva quello sguardo perduto, ha capito che non ne caverà molto delle generalità dell’uomo, che pare essere scomparso. «Ha un documento?» le chiede come da procedura per stendere il verbale. Poi farà fare dei riscontri nel casellario giudiziario per vedere se si sa qualcosa di questo Bonaga. Lei annuisce e subito apre la borsetta e gli porge una carta d’identità infilata dentro un contenitore di plastica. Messina la apre e legge ad alta voce: «Maria Mazur, nata a Radom, Polonia, il 18 marzo 1972. Residente a Milano in via Manduria numero 3. È esatto?»

    Lei fa segno di sì.

    «Di professione operaia. Dove lavora?»

    «Faccio lampadari» e fa un gesto con le mani guardando il soffitto.

    «Lampadari» dice il commissario capo. «È un lavoro regolare?»

    «Sì. Cinque anni» apre le dita che tiene tese e tremanti davanti al Messina.

    «Ha il permesso di soggiorno?»

    Lei riapre la borsetta e glielo porge. «È da dieci anni in Italia, leggo da questo permesso.»

    Lei annuisce nuovamente. Ha il timore che glielo voglia trattenere così come la carta d’identità; lui lo capisce e, non volendo farla agitare ulteriormente, glieli restituisce: «Tenga» le dice rincuorandola. «Nella carta d’identità non dice che lei è sposata.»

    Lei scuote la testa.

    «Convive?»

    Lei lo guarda come se non avesse capito quella parola.

    «State insieme ma non siete sposati?»

    Annuisce.

    «Non dovrebbe essere lei a denunciarne la scomparsa. Dovrebbero essere prima i suoi parenti diretti. Ha capito?»

    Lei scuote la testa. Non conoscendo le leggi, lei sa solo che il suo uomo non si fa vivo da due mesi. Questo è tutto quello che sa. «Ha parenti il suo uomo, che lei sappia?»

    La donna dice no con la testa.

    «Non ha nessuno qua. Solo io» dice.

    «Che cosa fa il suo compagno? Che lavoro?»

    «È uomo forte in discoteca.»

    Messina sorride per il modo che ha di parlare.

    «Fa il deejay? Quello che mette la musica?» le chiede facendo una mossetta con il busto e portando le mani a conchiglia sulle orecchie a imitare le cuffie. Lei scuote la testa.

    «Go przed wykidajło dyskoteka» dice lasciandolo con due occhi spalancati. «Wykidajło. Wykidajło» ripete, si alza e fa un gesto di buttare la borsetta verso la porta.

    «Sì, sì» il commissario capo le fa un cenno affinché si risieda. «Aspetti» le dice mostrandole la mano aperta. Alza la cornetta del telefono: «De Maria, vieni!»

    Dopo qualche secondo si sente bussare alla porta. «Vieni, vieni.»

    Entra un uomo giovane sui venticinque anni, non molto alto ma tarchiato, capelli neri lisci e impomatati dal gel.

    «Dica commissario capo.»

    «La signora...» e legge sul suo blocco «Mazur, dice che il suo compagno è scomparso da due mesi.»

    De Maria si lascia scappare un’espressione di sorpresa. «Sì, anch’io le ho domandato cosa aspettava ancora. Ascolta,» riprende Messina «lei non è la moglie. Ma essendo straniera non comprende le procedure.»

    De Maria allarga le braccia.

    «Siccome è polacca e non parla molto bene la nostra lingua, facciamo comunque un controllo. Guardami se sappiamo chi è questo» e legge nuovamente sul suo blocco «Bonaga Fausto.»

    Il giovane si volta e va verso la porta. «Aspetta!» gli ordina Messina. «Non ho finito. Prova a capire che cavolo di lavoro fa il suo uomo» e fa un gesto alla donna. Lei allora si rialza e fa il gesto di buttare la borsetta verso la porta e dice: «Wykidajło.»

    Il commissario capo guarda De Maria e alza il mento come a significare se lui ha capito.

    «Wyk...» ripete il giovane e la donna subito annuisce con la testa e lo ripete ancora. «Ma dove lavora?» chiede al commissario capo.

    «In una discoteca» mentre lo dice si batte sulla fronte. «Wyki... Quella cosa lì è il, il buttafuori. Fa il buttafuori?» le domanda gonfiando il petto e alzando le braccia come si fa quando si vogliono mostrare i bicipiti. Lei annuisce e lo dice sillabando: «Buttafuori. Wykidajło» soddisfatta che l’abbiano capita. Messina fa sì con la testa un paio di volte rivolto alla donna, poi batte una manata sul tavolo, guarda De Maria e con un’occhiata gli fa capire che deve andare a vedere se si può sapere qualcosa su questo signore.

    «Subito» dice allora De Maria e sparisce dietro la porta che si chiude alle sue spalle.

    «Fuma?» le chiede Messina porgendole un pacchetto di sigarette. Lei fa segno di no con la testa. «Le da fastidio?»

    Stesso movimento della testa, questa volta seguito da un sorriso espressivo, il suo sguardo è meno animalesco e impaurito, i suoi occhi sono diventati più azzurri e anche belli.

    «Lui fuma sempre casa» e alza le spalle. Messina la guarda e pensa che, invece, lui fuma dappertutto e troppo. Si ode un bussare alla porta.

    «Entra!» dice il commissario capo.

    «Ecco commissario capo» De Maria posa un foglio sulla scrivania ma non lo lascia subito, lo trattiene in un angolo, vuole che lui lo guardi negli occhi perché vi legga tutta la sorpresa. Il commissario capo prende il foglio, lo scorre con lo sguardo, lo alza verso De Maria poi lo posa su quello della Mazur. Spegne la sigaretta nel posacenere già bello colmo e legge nella sua mente.

    Bonaga Fausto nato a Foggia il 7 novembre 1962, altezza due metri e un centimetro. Residente a Milano dal 1981, vari domicili, l’ultimo conosciuto è quello di via Manduria al numero 3. Casellario Giudiziario: 1977 articolo 610 codice penale, violenza privata contro due suoi compagni. Un anno e sei mesi, pena sospesa. 1981 articolo 581 percosse e lesioni aggravate su un cliente di un locale. Sei mesi e un’ammenda di 600 mila lire. 1990 articolo 624 furto con scasso a una tabaccheria di Milano. Condannato per recidiva a tre anni e sei mesi di carcere. Pena scontata presso la Casa circondariale di Monza.

    Deposita il foglio sul tavolo e alza lo sguardo sulla Mazur e le chiede: «Lei conosce bene il signor Bonaga?»

    «Io conosciuto da sette anni. Io prima da mia amica dormire. Dopo lui portato in sua casa» dice usando le mani come se queste le permettessero di farsi capire meglio.

    «Allora, signora Mazur, il suo compagno fa il buttafuori...»

    Mazur scuote la testa vigorosamente. «No» dice. «Lui ora fa guida.»

    «Ma non faceva il buttafuori?» gonfia nuovamente il torace.

    «Sì» dice la donna. «Pierwszy. Prima, lui fa prima di incontrare uomo da le macchine. Ora fa guida maszyny» e fa il gesto di guidare con le due mani.

    «Guida le macchine?» chiede Messina.

    «Sì. Lui guida macchina.»

    «Ha un taxi?»

    La donna non risponde subito.

    «Taxi. Sa cos...»

    «Ah!» dice. «No taxi. Lui guida auto di suo amico.»

    «Fa l’autista per una persona?» le chiede De Maria. Lei annuisce. Il commissario capo guarda De Maria e gli dice: «Forse ci siamo» e tira una lunga boccata di fumo, che poi getta nel locale già bello saturo. «E chi è questa persona? Come si chiama?» chiede il commissario capo accorgendosi di parlare quasi come lei, ma soprattutto di usare un tono della voce più alto del consueto.

    «Non so suo nome. Lui wielka maszyna... grossa macchina, sì» e fa dei gesti con le braccia aperte. «Wielka maszyna. Wielka... Wielka.»

    «Va bene, ho capito. Sappiamo che fa l’autista per una persona e che guida una grossa macchina. Giusto?» le chiede. La donna fa segno di sì con la testa. «Siamo a posto» e guarda De Maria che sgrana gli occhi.

    «Autista. Grossa macchina. Sì» dice contenta di essere riuscita a farsi capire. Messina ora la guarda negli occhi e le dice compitando: «Stia attenta a quanto le chiedo ora» e guarda i suoi occhi chiari. «Il suo compagno le ha mai detto cosa ha fatto prima di fare l’autista o il... buttafuori?» le chiede usando sempre un tono più alto del solito.

    «Lui więzienie.»

    «Ci risiamo» fa il commissario capo guardando De Maria. Lei allora li guarda entrambi, poi si porta una mano aperta sulla faccia. De Maria sorride guardandola.

    «Prigione?» le chiede e lei annuisce tormentando la borsetta.

    «Ha visto dottore quel segno è internazionale» ride.

    «Lui detto che molto sfortuna in sua vita.»

    «Quindi le ha detto che era stato in prigione. Bene.»

    «Lui dice che sfortuna...»

    «Sì. Sì. Va bene» prende il foglio che De Maria gli aveva dato e lo posa sul tavolo rovesciato. «Il signor Bonaga ha un cellulare?»

    Lei scuote la testa.

    «Ha una fotografia del Bonaga?»

    Lei apre la borsetta, ci fruga all’interno poi gli consegna una fotografia. Si vede un uomo al mare in costume da bagno. È un uomo enorme, la testa completamente rasata, i muscoli spaventosamente grossi e tonici. Per dimostrare la sua forza, nella fotografia tiene sollevato un pattino rosso di quelli che si usano per il salvataggio lungo le spiagge dell’Adriatico.

    «È forte, si vede» dice Messina passando la foto a De Maria che fa una smorfia di meraviglia.

    «Possiamo tenerla?»

    La donna fa sì con la testa.

    «Bene,» il commissario capo si alza «noi adesso facciamo delle ricerche poi le diciamo qualcosa. Ha un telefono dove la possiamo trovare?» le domanda mentre anche lei si alza.

    «Sì è di mia amica. Lei si chiama Iride è compagna di mio lavoro» fruga nella borsetta, tira fuori un foglietto, dove è segnato un nome e un numero di telefono e lo porge al commissario capo. Questi lo trascrive sul blocco, poi glielo restituisce, posa la penna. «Arrivederci» le dice prendendo dal taschino un biglietto da visita e porgendoglielo, mentre la accompagna alla porta. «Lì c’è il mio numero di telefono, se riceve delle notizie da lui mi chiami. Ha capito?»

    Lei si volta e lo guarda a pari altezza, dritto negli occhi, come a domandargli se può sperare. «Vada, ci pensiamo noi. Tu accompagnala» e la spinge lievemente. Lei lo ringrazia porgendogli una mano ampia e spessa, poi esce prima di De Maria che le ha ceduto il passo.

    II

    1.

    Il campanello sopra la porta risuonò con quel suo tipico timbro di biglia caduta ma subito stoppata nella sua discesa.

    «Vengo!» disse una voce proveniente dal seminterrato. «Un attimo!» ripeté mentre prendeva tre grosse risme dallo scaffale e le sistemava sulle braccia. Prese a risalire la scala a chiocciola che divideva il locale inferiore da quello superiore; teneva per abitudine, l’avambraccio destro appoggiato al corrimano, per bilanciare la risalita.

    «Eccomi» disse e uscì dall’ultimo cerchio che lo riportò al piano del negozio. Una giovane donna sui trent’anni era appoggiata al lungo bancone, aveva posato sopra di esso una borsa di cuoio marrone. Attendeva.

    «Buongiorno,» disse l’uomo appoggiando le tre risme di carta sul bancone «che posso fare per lei?» chiese mentre dalla radio appoggiata dietro le sue spalle Robbie Williams cantava:

    First you say you want me

    Then you don’t want me really

    Baby do I scare you

    Am I talkin’ too freely

    L’uomo la spense scusandosi con la giovane donna. Lei, con una voce chiara, disse che poteva lasciarla pure accesa, la musica non le dava fastidio, anzi. La riaccese.

    I got no perspective

    On the things that you lack

    Baby I don’t care

    Just lie on your back

    Riprese a cantare Robbie Williams.

    «Vediamo se mi può aiutare» disse la giovane donna, mentre apriva la borsa e ne cavava una cartella rossa trattenuta da un elastico cui l’uomo diede una rapida occhiata. Tuttavia in quel momento, inspiegabilmente, si sentiva più attratto dallo sguardo di quella giovane donna, senza riuscire a spiegarsene il motivo. Non che fosse stato colpito per la sua particolare bellezza. Era magrissima, molto alta, i capelli neri, ben pettinati, un cappotto chiaro chiuso alla vita da una cintura che ne rimarcava ancora di più la snellezza. Teneva la testa leggermente obliqua, come se volesse percepire meglio tutti i suoni circostanti e gli occhi, che sembravano dell’ombra di un colore precedente, pareva avessero sofferto. «Ecco» disse mostrandogli dei fogli con dei puntini strani impressi sulla pagina. «Le dico subito che non è una scrittura primitiva; è solamente scritto in braille perché io sono cieca» lo disse come se per lei l’essere cieca fosse una cosa naturale.

    Ecco spiegato il motivo del perché la osservasse con un particolare interesse.

    Mi dispiace, stava per dire, ricorrendo a uno dei più semplici termini che una persona possa usare di fronte ad una circostanza infelice. Lei fu prontissima ad anticiparlo. «La prego,» disse portandosi un dito sulle labbra «non dica niente, non mi compatisca più di quanto già la gente faccia, ogniqualvolta che sente della mia invalidità. Parliamo piuttosto di quello per cui sono venuta da lei. Va bene?» gli chiese, accentuando l’inclinazione della testa.

    L’uomo, viste le premesse riprese dunque con un tono professionale: «Certamente. Mi dica allora cosa devo fare per soddisfarla.»

    «Non penso sia così complicato accontentarmi» disse la giovane donna, posando i polpastrelli esperti e agili su quei segni e li fece scorrere sicura.

    «Ombre nere sulla laguna» disse guardandolo con quegli occhi che sembravano capaci di vedere. «Questo è il titolo del romanzo che ho scritto» e vi posò sopra la mano aperta. «Vorrei che lei me lo ribattesse a macchina.»

    «Vuole dire che io dovrei...» disse l’uomo mentre guardava quei fogli con quei puntini indecifrabili, che sapevano tanto di misterioso per chi non li sapeva decrittare. «Dovrei ribatterlo al computer?»

    «Esatto. Perché lei un computer ce l’ha, non è vero?» chiese piegando appena la testa da un lato.

    «Certo che ho un computer. Anzi, più di uno se è per questo» e girò lo sguardo verso i due computer sistemati lungo il piano del bancone. Non gli era mai capitata una simile richiesta da quando aveva aperto quella copisteria, quattro anni prima, per cercare di raddrizzare per la seconda volta la sua vita. Gli avevano richiesto di ribattere tesi, tesine, o semplici ricerche su vari temi di studio, ma si era trattato sempre di persone vedenti. Gli avevano lasciato i loro manoscritti, i loro appunti e lui aveva provveduto a riscriverli in bella copia, senza errori, e null’altro.

    «Allora cosa mi dice? Perché la sento indeciso» disse mentre la biglia sopra la porta lanciò il suo suono stonato. Entrò una donna giovane, con i capelli corti e neri, sovrastati da qualche ciocca bianca che le ricadeva sulla fronte ampia. Indossava un camice bianco, non perfettamente pulito, sotto al quale, era evidente, non portasse nient’altro che un reggiseno e un paio di slip. Guardò la donna con occhi interessati e indagatori, per poi posarli sull’uomo, come a cercare risposte che non giunsero, mentre lui, posando una mano sulle risme impilate, le tamburellò nervosamente.

    «Ciao Luca» disse la giovane donna parlando a bassa voce, come a voler porre l’accento sul disturbo che aveva recato, entrando così incautamente.

    «Che c’è? Che vuoi?» chiese Luca con un tono freddo, dondolando la testa e scrutandola con occhi che esprimevano disappunto.

    «Scusate! Scusatemi se vi ho interrotto» disse muovendo la mano in un saluto frettoloso. «Ci vediamo più tardi» fece dietrofront e uscì, rilasciando una scia di lacca e coloranti. La donna alzò lievemente la testa e annusò l’aria.

    «Parrucchiera?» domandò.

    «Esatto» disse Luca. «È una sciampista, viene spesso a trovarmi.»

    «Perché lo dice con quell’espressione seccata?»

    «Perché è appiccicosa» si giustificò.

    «Non è appiccicosa. È forse innamorata di lei.» Luca batté una manata sulla risma di carte e rise: «Lei crede?» domandò.

    La donna annuì e sorrise appena.

    Luca si schiarì la voce: «Sarà» disse e subito proseguì, volendo chiudere quel pettegolezzo. «Allora, ricapitoliamo. Lei ha scritto un romanzo con quel bel titolo» e schioccò le dita nel tentativo di ricordarselo. «Nere ombre...»

    La giovane donna rise e scosse il capo: «Ombre nere sulla laguna» lo corresse.

    «Ecco,» disse Luca «quello lì. Che, badi bene è bellissimo. Sì perché anch’io amo scrivere» aggiunse come se la frase gli fosse scivolata dalle labbra.

    «Ah, bene. E ha già pubblicato qualcosa?»

    «Eh, magari. Oddio, un racconto in verità mi è stato pubblicato qualche anno fa su un giornale locale.»

    «Lo vede. È già più avanti di me» disse la giovane sorridendo e mostrando una fossetta sulla guancia sinistra. «Per me, invece, è il primo romanzo. E non so nemmeno se sarà pubblicato. Si figuri.»

    «Ma lei lo ha almeno terminato, e le assicuro che posso immaginare la fatica che le sarà costata.»

    La donna annuì con la testa e passò una mano sui fogli.

    «C’è un solo problema» riprese Luca mentre prendeva una sigaretta da un pacchetto che aveva cavato da una tasca della giacca. «Fuma?» chiese. La donna scosse la testa.

    «Le dà fastidio se fumo?» domandò.

    Lei alzò le spalle dicendo: «Penso che se accetterà di ribattere il manoscritto, non potrò certamente impedirle di fumare. E dunque...»

    Luca stirò le labbra.

    «Ma quale sarebbe il problema?»

    «Il problema è che non potremo lavorare durante l’apertura del negozio. Potremo farlo nell’intervallo, o dopo la chiusura serale» osservò la giovane donna mentre rimetteva via i fogli. «C’è qualche problema?» domandò. «Non le piace che si resti soli in negozio? Ha forse un marito o un fidanzato geloso?» chiese ironico.

    «O no. Assolutamente no, non è per questo» disse scuotendo la testa e assumendo un’espressione seria. «Non faccia delle ipotesi sconsiderate, la prego.»

    A Luca sembrò esagerata la sua reazione a quella che voleva essere solamente una battuta. Quando era seria come ora, aveva il viso magro ma le labbra erano ampie, carnose ben disegnate.

    «Mi scusi, ma stavo semplicemente scherzando, non mi permetterei» disse gettando il fumo verso il soffitto.

    «L’avevo capito» sorrise quel tanto che bastò per formarle nuovamente quella fossetta che Luca trovò molto seducente. «Ma non c’è nessun marito né tanto meno un fidanzato geloso» concluse e il sorriso le scomparve, come ricacciato via da un ricordo spiacevole. Luca pensò che fosse meglio evitare altre frasi inopportune.

    «Per me andrebbe bene lavorare durante gli intervalli. Non la sera. Abito a Codogno e per arrivare qua devo prendere il pullman. Non mi piace viaggiare la sera tardi. Mi capisce vero?»

    «Codogno?» domandò Luca. «E come mai è venuta sino a Lodi? A Codogno non ci sono copisterie?»

    «Lo sapevo che me lo avrebbe chiesto. Sì, ci sono copisterie. Ma non volevo restare in quella cerchia e far sapere i fatti miei. Le basta?» disse un po’ asciutta.

    «Certamente» rispose Luca spegnendo il mozzicone nel posacenere già bello colmo.

    «Un’ultima cosa. Sa dirmi, all’incirca, quanto mi verrà a costare tutta la stesura?»

    «Oh, non si preoccupi per quello ci metteremo d’accordo. Anzi, non sa quanto sono contento. Avrò così modo di scoprire come si scrive un romanzo.»

    Lei scosse la testa. «C’è ben poco da scoprire. Non ci sono segreti nella stesura di un romanzo. Se però, vorrà farmi delle domande, sarò ben lieta, nei miei limiti, di darle delle risposte.»

    «Perfetto. Quando vuole cominciare?» le chiese, ma non ci fu il tempo per una risposta. La porta nuovamente si aprì, la biglia singhiozzò il suo suono disagiato. Un giovane entrò nel locale, indossava una t-shirt con sopra stampato: I LOVE NY. Era alto e magrissimo, aveva i capelli spalmati di gel e tirati dritti come le punte delle matite.

    «Ciao Luca» disse giungendo accanto al bancone.

    «Ciao Franco» fece lui di rimando, osservando la mano del giovane che stringeva dei fogli dattiloscritti. Luca li prese e si recò alla fotocopiatrice domandando semplicemente: «Quante?»

    Il giovane alzò il pollice e l’indice della mano destra. La fotocopiatrice entrò in funzione e un odore di ozono si sparse nel locale giungendo alle narici ricettive della giovane donna.

    «Ecco» fece Luca consegnandogli i fogli fotocopiati. Si recò alla cassa, batté lo scontrino, prelevò i soldi, richiuse la cassa e salutò il giovane. La giovane donna nel frattempo era rimasta in attesa accanto al bancone.

    «Eccomi» le disse una volta che il giovane se ne fu andato.

    «Allora siamo d’accordo per domani alle dodici, signor Luca?»

    «D’accordo» affermò e le prese la mano dicendo: «Luca Marco Veridiani. Piacere.»

    «Margherita Ferri. Piacere» disse lei mentre dalla radio la voce di Max Gazzè cantava:

    L’uomo più furbo del mondo

    Fuma tre pacchi di sigari al giorno

    Gli bruciano gli occhi dal fumo e dal pianto.

    Luca rise.

    «Sento che ride» disse Margherita.

    «È per via della canzone.»

    «Già, questo tipo deve essere proprio scemo se fuma tanto» osservò Margherita. «Oh mi scusi, non volevo dire questo» seguitò portandosi una mano sulla bocca e sorridendo, ricordandosi che anche lui fumava.

    «Dire che chi fuma è uno scemo?» chiese Luca. Margherita annuì.

    «Ha ragione, ma che ci vuole fare, è un vizio maledetto. Sappiamo che ci fa male ma è più forte di noi.»

    Ci fu un attimo di silenzio, poi Margherita disse: «Allora a domani» mentre estraeva dalla borsetta un piccolo bastone bianco a cannocchiale che, con un colpo sapiente e deciso del polso, si allungò come una piccola canna da pesca.

    «Va benissimo. Venga pure alle dodici. A quell’ora non c’è più gente che ha bisogno di me» disse Luca indirizzandola verso la porta, dopo averle delicatamente preso un braccio; sotto la sua mano robusta, gli sembrò di stringere un rametto. Luca le aprì la porta, la biglia solerte ripeté il suo suono stoppato. Margherita si fermò di colpo, piegando leggermente la testa da un lato disse: «Allora a domani» e mosse i primi passi verso la piazza.

    Luca la guardò allontanarsi mentre attraversava l’acciottolato muovendo davanti a sé il bastone bianco come un rabdomante alla ricerca dell’acqua. Improvvisamente gli venne in mente una cosa e le corse appresso.

    «Signorina! Signorina Margherita» chiamò, mentre una nube densa e minacciosa oscurava il sole, mostrando la piazza priva di ombre, come se le avesse inghiottite. Lei si fermò si girò lentamente e lo guardò con quei suoi occhi senza riflesso.

    «Non mi ha dato nemmeno un recapito telefonico,» disse ansimando un poco «non si sa mai, dovesse sorgere qualche inconveniente.»

    «Ha ragione. Ha carta e penna?»

    «Non mi occorre. Ho una buona memoria.»

    «Le do il cellulare» e gli sillabò dei numeri. Rimase per un attimo ferma poi, dopo averlo salutato, gli riconfermò l’appuntamento per il giorno seguente e s’incamminò con quel suo passo, preciso e al contempo incerto. Luca si portò una mano sulla fronte a coprirsi gli occhi e guardò verso il cielo, la grossa nube nera si era mossa e il sole era ricomparso restituendo le sue ombre dense e scure ai portici.

    2.

    Già, i portici. Quanti ricordi custodivano quelle arcate che li avevano visti passeggiare frequentemente sull’acciottolato e ne conoscevano quasi ogni asperità, ogni fessura. Non c’era negozio che si affacciasse tra le volte, di fronte al quale non si erano fermati a rimirare vetrine policrome, per poi essere risucchiati dalla successiva. Alessandra ne amava in particolare uno: la gioielleria Patrizi, dove immancabilmente si fermava ad ammirare bracciali, collane e anelli con brillanti. Poi lo guardava, stirava le sue labbra e scuoteva la testa, mentre la massa di capelli neri ondeggiava sul suo volto abbronzato.

    Alessandra Moroni la conobbe, per colpa di un maledettissimo parassita, in un soleggiato pomeriggio di maggio del 1989. Luca era al suo primo impiego come contabile presso il consorzio Agrario di Lodi. Una sistemazione, voluta dal padre Aldo, dopo i gravissimi fatti successi quattro anni prima, all’università. Quel pomeriggio era appena uscito dal suo ufficio, ricavato da un ampio soppalco, per mostrare al magazziniere Ernesto Gatti alcune fatture di un ordine di concimi. Mentre, i fogli in una mano e l’altra ancorata al corrimano, discendeva le scale di ferro verso il grande magazzino, incontrò il suo sguardo. Ne restò fulminato, abbagliato come le falene intorno ad un lampione di notte. Quegli occhi neri e splendenti come il fulgore di un fulmine d’estate, assottigliati all’estremità, erano femminili e remoti e scrutarono Luca per un istante, per poi abbassarsi nuovamente sul piano del bancone. Luca discese gli ultimi gradini, nella convinzione esasperata di doverla conoscere, o almeno saperne il nome. Sentiva comunque che doveva fare qualcosa che potesse calmare quel momento di agitazione. Girò attorno al bancone e si ritrovò di fronte a lei. Disse la cosa più banale: «La stanno servendo?»

    Lei annuì. Antonio Meda gli si parò dietro e con quella voce leggermente in falsetto disse: «La sto servendo io.»

    Luca stirò le labbra in un sorriso stentato e l’imbarazzo gli si stampò sul volto. Se ne stava andando quando Meda lo sollevò dall’impaccio.

    «Che ne dici del Systhane per gli acari?»

    Luca capì che gli aveva servito su un piatto d’argento la possibilità di conoscere quella splendida ragazza. Fece finta di riflettere un poco. Poi tutto a un tratto disse: «Bisogna vedere di che tipo di acari si tratta. E soprattutto se non siamo, invece, alla presenza di insetti» e rivolgendosi alla ragazza con un certo distacco professionale fece cadere la domanda come dall’alto: «Lei sa dirmi se siamo alla presenza di acari o insetti?»

    La ragazza sorrise e alzò le spalle.

    «Non so» disse e allargò le braccia. Luca guardò Antonio Meda che giocherellava con una scatola che aveva posato sul banco.

    «Allora per me,» disse guardando nuovamente quel volto bellissimo «sceglierei lo Zephirine. Cosa ne dici Meda?»

    Antonio annuì con la testa e soggiunse: «Vado a prenderlo» e indicò con il pollice sopra una spalla il retrobottega.

    «È un esperto?» gli chiese la ragazza. Luca alzò le spalle.

    «Non proprio. Io m’interesso della contabilità. Ma stando a contatto ogni giorno con questi prodotti, si finisce per conoscerli.»

    «Già» fece la ragazza muovendo appena la testa.

    «Già» disse di rimando non sapendo che altro aggiungere alla conversazione che sentiva languire. Un’altra volta gli venne in aiuto Meda che, di ritorno dal magazzino, non prima d’aver schiacciato l’occhio a Luca, senza che la ragazza si accorgesse, disse: «Poiché si tratta di un antiparassitario, siamo obbligati ad annotare il nome della persona alla quale l’abbiamo venduto» estrasse una penna a sfera dal taschino del grembiule e attese che la ragazza gli desse le generalità. «Signorina, forse non mi sono spiegato bene. Mi deve dare le generalità: nome cognome, via, paese e numero telefonico» dovette rimarcare.

    «Sì,» disse «ho capito: Alessandra Moroni. Via degli Olmi 34, Lodi. Vuole anche il telefono?»

    Meda guardò Luca che alzò leggermente le spalle mentre gli lesse tutta la gioia nelle sue pupille.

    Durante le settimane a seguire Luca, inventandosi un infinità di scuse, non perse occasione di telefonarle per invitarla a uscire. Quando finalmente accettò, le affinità, dopo i primi appuntamenti, emersero con graduale convincimento di entrambi.

    Un giorno Alessandra disse a Luca che una persona, a lei molto cara, voleva ringraziarlo per un suo prezioso consiglio. Così, a sorpresa, Luca fece la conoscenza della madre di Alessandra, signora Linda Coletti in Moroni, la quale non smise di ringraziarlo, dopo avergli fatto ammirare, come il suo consiglio di usare lo Zephirine, avesse contribuito oltre che a eliminare i parassiti dalle sue rose, a donarle un nuovo virgulto capace di mostrarsi ancora più splendente.

    La signora Linda Coletti era una donna di cinquant’anni, ma ben portati. Di aspetto ancora piacente. Con un portamento deciso e determinato, come aveva notato nella figlia. Amava le maniere spicce, odiava perifrasi o le mezze frasi. Ma davanti ai suoi roseti, si scioglieva come un cono di gelato al sole d’estate, e si trasformava, fino a disquisire al pari di un esperto botanico. Acquisiva grazia e delicatezza mentre, con un morbido movimento della mano, porgeva a Luca la rosa recisa e appena descritta. In quell’attimo, breve come un lampo, la signora Linda era simile all’incarnato delle sue rose così vellutate, elargiva felicità e gioia al contempo.

    In un’altra occasione Luca ebbe modo di conoscere anche il padre di Alessandra, il signor Giancarlo Moroni un comunissimo impiegato della Termoplastic, piccola azienda con sede a Lodi Vecchio, che fabbricava tubi di gomma. Un uomo insignificante, per niente elegante con i suoi anni mal portati, che contrastava con l’avvenenza e la classe della moglie Linda. Cosicché sorse in Luca il desiderio di portare lontano da quella casa Alessandra. Era come se temesse che la cura tanto negativa del padre, potesse in qualche modo influenzare la vita futura della figlia.

    3.

    Era un giovedì di aprile quando verso le dieci, il cielo cominciò ad annuvolarsi. Delle grosse e minacciose nubi si stavano muovendo lente, nel loro girovagare, creavano un susseguirsi di luci e ombre, sorvolando la campagna ancora spoglia. Le previsioni davano la giornata fredda e piovosa. Margherita Ferri era uscita da casa per tempo, non prima di avere ricevuto tutte le raccomandazioni dalla madre.

    La signora Leda Balzarotti era una donna piccola e magra come un grissino, ma energica e risoluta quanto bastava a tirare avanti la famiglia, dopo la morte del marito, avvenuta qualche anno dopo l’incidente di Margherita. Leda era una sarta provetta, aveva trasformato la sua cucina e il piccolo tinello, in un elegante atelier. Tra i fornelli si tagliava e si cuciva, nel tinello si facevano le prove alle clienti. Fu lei a confezionare l’abito da sposa della figlia. In quei punti e ricami ci mise tutto l’amore e la felicità per quell’evento, così importante, anche se contrastato ferocemente da suo marito Umberto che vedeva in quel ragazzo un mal partito. Troppo vanesio e permaloso. Troppo sicuro di sé. Diceva quando, dopo averlo invitato a cena, se ne usciva con Margherita per un gelato o per il cinematografo. E poi tutto così in fretta. «Che ci ha mai da nascondere quello?» si chiedeva senza risposte Umberto.

    Leda cercava di rassicurarlo: «È un bravo ragazzo. Lascia che si sistemi, e poi te lo farà vedere di cosa è capace quel giovane.»

    Umberto scuoteva la testa, sempre perfettamente pettinata e profumata di brillantina, e se ne andava nel salottino a vedere la televisione.

    Margherita era salita sul pullman in via XX Settembre a Codogno alle dieci e venticinque, mentre una folata di vento le scompigliava i capelli. L’uomo alla guida scorgendo il sottile bastone bianco, si era prontamente alzato e le aveva preso il braccio. L’aveva ringraziato domandandogli se il posto alla sua destra era libero. Non lo era, ma il giovane che vi era seduto, prontamente si era alzato e glielo aveva ceduto. Una volta sedutasi si mise sulle ginocchia la sua borsa di pelle. Il pullman dopo dieci minuti si mosse. Margherita conosceva molto bene quel tragitto, lo aveva percorso per diversi anni, quando ancora ci vedeva, tutte le mattine, da quando ricevette l’incarico di maestra presso le scuole Diocesane Paritarie di Lodi. Un tragitto lungo, durante il quale Margherita si dedicava alla sua grande passione, seconda a quella dello scrivere: leggere. Gadda, Pavese, Calvino, Joyce, Connelly, Bukowski, Roth. Ma la scrittrice che più amava era Flannery O’Connor. Se dapprincipio ne aveva apprezzato unicamente lo scrivere, e si era sempre domandata come avesse potuto, aggravata da quella malattia, trovare la forza di elaborare tali componimenti narrativi. Dopo l’incidente, lo comprese sulla propria pelle, dove cercare quella forza per andare avanti.

    «Dove va signorina?» la destò l’autista dai suoi pensieri.

    «Come?» chiese.

    «Dove scende.»

    «Lodi.»

    «A Lodi facciamo tre fermate» disse l'autista guardando la strada e contemporaneamente lei.

    «Capisco. Scendo in via Dante» chiarì lei.

    «Vuole che la avverta quando siamo arrivati?»

    «Sì grazie» rispose, poi fece scorrere la manica sinistra del soprabito, passò l’indice della mano destra sul vetro dell’orologio, lo aprì e tastò le lancette. Segnava le undici e dieci. Ci voleva ancora una trentina di minuti prima che arrivasse. Aprì la borsa di cuoio e ne cavò la cartelletta rossa. Fece scorrere l’elastico e la aprì.

    «Le metto un poco di musica?» la destò nuovamente l’autista dai suoi intenti.

    «Faccia come vuole» poi accortasi di essere stata un poco scortese, aggiunse: «Se è musica italiana, va bene» disse così, per tagliar corto, non che fosse particolarmente interessata al genere.

    «Gianni Morandi le può andar bene?»

    «Va bene Gianni Morandi.»

    Trascorsero pochi secondi e la voce di Morandi risuonò nelle casse dello stereo.

    Ognuno pensa solo a se stesso

    Questa è la verità.

    Dicevano le parole riverberandosi nell’automezzo.

    «Le piace?» domandò l’autista. Margherita disse di sì. Ascoltando le parole della canzone, le venne facile smentirle. Non era vero che ognuno pensa solo a se stesso. Dopo l’incidente, aveva sempre trovato molta gente pronta ad aiutarla. A volte tutta quella gentilezza così smaccata, era certamente dettata dal fatto che, alcuni, provavano per lei una certa compassione, una pietà camuffata da solidarietà. Ci fu un forte e improvviso colpo di clacson e una brusca frenata che la fece trasalire. Non seppe come ma riuscì ad afferrare al volo, prima che scivolasse a terra, la cartelletta che aveva posato sopra la borsa. L’autista si lasciò andare a delle volgarità triviali. Poi rivolgendosi a lei, imprudentemente, le domandò se avesse visto come quella macchina gli aveva tagliato la strada. Margherita disse che non era stata attenta. Ma nella sua voce c’era molta ironia.

    «Cretino!» si disse l’autista. «Sono un cretino! Mi perdoni signorina. Ma proprio...»

    Margherita alzò un braccio e disse: «Non importa» non era la prima volta che qualcuno, guardandola, si era espresso come se lei ci vedesse.

    Margherita sentì che il pullman si era fermato. Tese le orecchie.

    «Siamo a Muzza» disse l’autista. Ancora due fermate e sarebbe arrivata. Si toccò nuovamente l’orologio. Segnava le undici e ventotto.

    «Alle undici e quarantacinque siamo a Lodi» disse il conducente. Margherita stirò le labbra. Dalla voce si era fatta l’idea che non fosse più tanto giovane. Se lo immaginava basso e tarchiato. Sicuramente un fumatore. Sì sì un fumatore, aveva avuto modo di sentirgli il fiato quando l’aveva aiutata a salire. E le mani, le mani le aveva sentite ruvide, di uno che lavora la terra. Sì, quando finiva di fare l’autista se lo vedeva in mezzo alle zolle del suo campo. Sorrise tra sé.

    Alcune persone salirono sul mezzo. Le prime erano due donne, che lasciarono una scia di colonia stantia l’una, l’altra un afrore sgradevole. Una mamma con la figlia, pensò Margherita. Seguirono due voci concitate: una maschile e una femminile. Lei profumava di lacca. Lui di sudore rancido. Giovani, pensò. Lei gli rimproverava di non averla aspettata l’altra sera. Lui sosteneva che l’aveva aspettata, ma poi si era stufato ed era venuto via. Si erano seduti dietro il suo sedile. Lui doveva essere massiccio o grasso per come l’aveva scossa nell’afferrare la maniglia per sedersi. Mentre lei la vedeva minuta.

    «Ci avevo uno shampoo da finire» disse lei. Lui fece un mugugno. «Sai come sono le clienti,» continuò «ti arrivano sempre all’ultimo momento. E poi mica posso dire alla signora che me ne vado perché c'ho  fuori il moroso che mi aspetta.»

    Altro mugugno di lui. A Margherita venne in mente la matita che usava per correggere gli errori dei suoi alunni, quando ancora faceva la maestra. Era blu e rossa. Bene, alla signorina dietro, qualche bel segno rosso glielo avrebbe fatto volentieri. Il pullman si rimise in moto. La radio trasmise il radiogiornale delle undici e trenta.

    Dal nostro inviato a Genova. Carcere a vita, per l’uomo che ha ucciso per diciassette volte, disse lo speaker con una voce impostata e proseguì: Donato Bilancia è stato quindi riconosciuto colpevole. La Corte d’Assise non ha lasciato spiragli. Tredici ergastoli e un’infinità di anni di isolamento diurno..

    «Bastardo» disse in un soffio il giovane che sedeva dietro a Margherita, scuotendole il sedile.

    «Metta ancora della musica» lo pregò Margherita. L’uomo fece scivolare una cassetta nell’autoradio.

    È la dura legge del gol

    Fai un gran bel gioco però

    Se non hai difesa gli altri segnano

    E poi vincono.

    «Masini!» disse la ragazza dietro Margherita.

    «Ma che dici! È Max Pezzali.»

    «Le cassette me le fa mio figlio,» disse l’autista, spezzando la conversazione dei due, girandosi verso Margherita «dice che non devo ascoltare solo le canzoni che mi piacciono.»

    Margherita stirò appena le labbra non sapendo se la stava ancora guardando.

    Giunsero puntuali a Lodi. Margherita scese aiutata dalla giovane sciampista che risalendo disse: «Poveraccia!»

    Margherita la udì, ma della commiserazione ci aveva fatto l’abitudine. Percorse via Garibaldi e quando giunse in prossimità della chiesa di San Lorenzo, il campanile rintoccò mezzogiorno. Margherita si fermò un attimo, quasi stordita, da quei rintocchi tanto più fragorosi per lei, non percependo che in quel momento un prete transitava lungo il sagrato quasi lo urtò. La borsa di cuoio le sfuggì di mano. Il sacerdote, accortosi che Margherita era cieca, si scusò prontamente, biascicando un poco le parole. Si chinò con difficoltà, le raccolse la borsa che le mise nella mano.

    «Mi perdoni signorina» disse trattenendole la mano.

    «Mi perdoni lei padre» disse Margherita. Il sacerdote ebbe un attimo di esitazione. Si domandò come avesse potuto capire che era un prete.

    «Ma come sa che sono...»

    «Che è un sacerdote? Dall’odore d’incenso che emana il suo corpo.»

    Il sacerdote d’istinto si odorò una manica. Scosse il capo, si frugò veloce dentro la tasca della veste e ne trasse un porta documenti di pelle sdrucita, vi rovistò velocemente e ne trasse un'immaginetta.

    «Tenete,» disse mentre le tratteneva una mano «è san Giovanni Battista, colui che portò la parola di Gesù nel mondo.»

    Margherita la strinse tra le dita, ringraziò il sacerdote e si rimise in cammino.

    Quando giunse in piazza della Vittoria, aiutata dal suo sottile bastone, si incamminò lungo le arcate con un incedere incerto dovuto alla pavimentazione.

    Come le capitava spesso, cercò di riconoscere suoni e odori che provenivano dalle botteghe che via via passava in rassegna come un ufficiale. Il suo olfatto percepì così: una drogheria, una farmacia, un’erboristeria, un fruttivendolo, un calzolaio alcuni negozi commerciali e alcuni bar. Giunta all’angolo con via Mazzini, piegò a destra e percorse il lato sud.

    «Buongiorno» disse una voce maschile. Margherita trasalì. «L’ho forse spaventata?» le domandò Luca Veridiani prendendole delicatamente un braccio.

    «Un poco.»

    «Posso farmi perdonare offrendole un aperitivo, un caffè?»

    Margherita scosse la testa e Luca percepì un odore leggero, frammisto di gelsomino e bergamotto. Allora le prese delicatamente un gomito e disse in un soffio: «Permette» e la spinse leggermente per qualche passo. «Che puntualità» aggiunse fermandosi. «Eccoci» disse mentre estraeva dalla tasca un mazzo di chiavi che Margherita riconobbe dal tintinnio. Luca ne infilò una nella serratura. Si scostò appena e, accompagnandola con una leggerissima spinta sul braccio, la fece entrare. Margherita fece un passo oltre la soglia e udì la biglia che solerte ripeteva il suo suono. Alzò e inclinò appena da un lato la testa per meglio annusare l’aria. C’era un persistente odore d’inchiostro e di carta bagnata, oltre a quello pungente di fumo che la volta precedente non aveva percepito così intensamente. Margherita impugnò il sottile bastone e appoggiata la punta sul palmo della mano, con un colpo secco, lo fece rientrare. Poi se lo mise nella borsetta. Luca disse che si sarebbero sistemati nel retrobottega. Aveva già sistemato un tavolo e due sedie. Specificò che per lei aveva trovato una poltroncina molto comoda. Margherita restò ferma poco dopo la porta. Disse a Luca che avrebbe gradito se le avesse descritto il locale. Gli spiegò che era sua abitudine, quando naturalmente era possibile avere la descrizione dell’ambiente. «Sono come i gatti,» disse sorridendo «anche loro amano conoscere ogni anfratto dove sostano.» Luca allora le prese delicatamente un braccio e la guidò nel locale.

    «Qui, subito alla sua destra c’è una taglierina,» disse «poi abbiamo una plasticatrice e un elio-copiatrice che serve per duplicare copie fino a quasi due metri. Proseguendo, sempre alla sua destra, c’è un apparecchio chiamato plotter.»

    «A che serve?» domandò lei mentre vi passava sopra la mano.

    «Serve per stampare dei grossi disegni, che occorrono a geometri, architetti o ingegneri» spiegò Luca. «Ecco, venga. Qui ci sono due fotocopiatrici. E qua nell’angolo c’è un distributore d’acqua refrigerata. Lo sente?»

    Margherita udì una bolla d’aria che si era liberata dall’interno della boccia, creando un gorgoglio sommesso. Luca le chiese se ne desiderava un bicchiere. Scosse la testa e nuovamente quell’odore di gelsomino e bergamotto si sparse nell’aria. Poco più avanti incontrarono una porta. Luca spiegò che portava al retrobottega. «È dove ci sistemeremo per lavorare» e spinse la porta. Descrisse poi il locale dicendo che sullo sfondo c’era una porta che conduceva al cortile. Sulla destra un piccolo scaffale che conteneva carta, inchiostri e altro, necessari all’attività. Il resto stava nel locale di sotto che poi, se lo avesse desiderato, glielo avrebbe fatto visitare. Sulla sinistra, c’era un tavolo, dove aveva collocato computer e stampante. Oltre la sua comoda poltroncina. Margherita lo ringraziò per la premura. Socchiuse la porta e proseguì a descriverle il locale.

    «Questa» disse «è una rilegatrice. Ci servirà per la sua opera, quando avremo finito di batterla al computer, potrà così scegliere il colore delle spirali. Quale colore le piacerebbe?»

    «Viola.»

    «Bene, allora useremo il viola, anche se...» disse Luca con un filo di riluttanza nella voce.

    «Scommetto che lei pensa porti male, non è così?» chiese Margherita.

    «Così dicono» si giustificò Luca sentendosi un poco superficiale.

    «Sa dove nasce questa diceria e perché?» chiese Margherita. Luca scosse la testa. Subito si ricordò che lei non ci vedeva.

    «Non lo so» disse.

    «Posso raccontarglielo o la annoio?» disse Margherita con la testa leggermente obliqua e le orecchie tese a recepire, non solo suoni, ma anche sensazioni.

    «No, mi interessa, dica pure» si affrettò a rimarcare Luca.

    «Bene. Deve sapere che nel medioevo, nel periodo della Quaresima, durante il quale i sacerdoti indossavano una stola, per l’appunto viola, erano vietati gli spettacoli teatrali e quindi, attori e saltimbanchi erano costretti a un’inattività forzata. Nonostante tale motivazione sia decaduta, ancora oggi, il viola è volutamente evitato. Ecco spiegata la ragione.»

    «Grazie signora maestra» disse lui con un filo d’ironia. Luca non sapeva che Margherita era stata davvero maestra, ma non volendo che certi ricordi le guastassero la giornata, tacque. Luca la condusse verso l’angolo sinistro del locale, dove era sistemata una scala a chiocciola che conduceva al seminterrato. Margherita volle sapere cosa c’era là sotto. Luca disse che c’era un magazzino e che lui ci abitava. Aggiunse che era separato e che, dopo il divorzio, era l’unico luogo dove si era potuto sistemare. Margherita scosse la testa scusandosi di essere stata così indiscreta.

    «Non voglio sapere i suoi affari» disse aspra, forse temendo che Luca si sentisse legittimato a domandarle della sua vita. Ma Luca soprassedette con disinvoltura, dicendole che ora, alla sua sinistra si trovava un lungo bancone, sopra il quale c’erano delle risme di carta, un portamatite, timbri, elastici, un computer

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