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L'ultimo infiltrato
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E-book314 pagine4 ore

L'ultimo infiltrato

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Info su questo ebook

Vincitore del prestigioso European Press Prize

Una storia vera

Morten Storm: estremista islamico o informatore della CIA?

Morten Storm, un giovane danese turbolento e senza ideali, si converte all’Islam durante una detenzione per crimini comuni fino a diventare un jihadista convinto.

Dopo qualche anno, scosso da dubbi che mettono in discussione la sua scelta, decide di diventare una spia al servizio delle agenzie danesi e della CIA, e accetta di essere infiltrato, celandosi dietro la sua vecchia identità di fervente guerriero dell’Islam, tra le fila di al-Qaeda. Ogni giorno rischia di essere smascherato, partecipando ad azioni sempre più pericolose, fino all’ultima missione: aiutare l’Agenzia a localizzare il più importante capo di al-Qaeda dopo Osama Bin-Laden, Anwar al-Awlaki. Dopo un primo tentativo fallito, in cui viene usata la promessa sposa del terrorista (una occidentale musulmana che Storm aveva contattato personalmente per conto di al-Awlaki), la CIA riesce finalmente a localizzarlo ed eliminarlo con un attacco di droni. Morten Storm ha condotto per anni una doppia vita nelle zone di guerra più “calde” del pianeta. Eppure la CIA non è stata generosa con lui: non ha mai ammesso pubblicamente il suo ruolo nella caccia ad Anwar al-Awlaki e ad altri pericolosi terroristi internazionali. Storm ha deciso di raccontare la sua storia ne L’ultimo infiltrato, scritto da tre prestigiose firme del «Jyllands-Posten», il quotidiano danese finito nel mirino degli integralisti perché pubblicò le controverse vignette satiriche su Maometto. Il libro è stato premiato nel 2012 con l’European Press Prize per il miglior reportage giornalistico.

Vincitore del prestigioso European Press Prize

Perché persino Obama conosceva il nome di Morten Storm? È possibile che i servizi segreti americani si siano affidati proprio a un danese convertito all’Islam per scovare e uccidere il numero due di al-Qaeda?

Un reportage sensazionale, una verità sconvolgente su una delle operazioni più rocambolesche dei nostri tempi.

«La storia di Storm dimostra fino a che punto si sono spinti i funzionari dell’intelligence statunitense pur di catturare Awlaki, l’allora leader di al-Qaeda in Yemen.»

New York Times

«La storia assurda di Storm, raccontata nel suo libro, ha la suspance e l’intreccio di una puntata di Homeland. Ma il corpulento e barbuto danese insiste nel dire che la sua vicenda è tutt’altro che fiction.»

The Guardian

Orla Borg, Carsten Ellegaard Christensen e Michael Holbek Jensen sono giornalisti danesi del quotidiano «Jyllands-Posten» e hanno raccolto di persona la testimonianza di Storm.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ago 2013
ISBN9788854158894
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    Anteprima del libro

    L'ultimo infiltrato - Orla Borg

    es

    170

    Titolo originale: Storm

    © JP/ Politikens Forlagshun

    København 2012

    Traduzione dal danese di Maria Cristina Castellucci

    Prima edizione ebook: settembre 2013

    © 2013 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-5889-4

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Orla Borg - Carsten Ellegaard - Michael Holbek Jensen

    L'ultimo infiltrato

    omino

    Newton Compton editori

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    Prefazione

    Si dice che la realtà a volte superi la fantasia. La storia di Morten Storm ne è la dimostrazione.

    Il 7 ottobre 2011, alle 12,14, la centralinista della redazione di Aarhus del quotidiano «Jyllands-Posten» ricevette la telefonata di un uomo che asseriva di aver dato la caccia a terroristi di al-Qaeda e di lavorare per la cia e per il Servizio di intelligence della Polizia danese (pet). Anche se pensava che fosse una storia campata in aria, la centralinista passò la telefonata alla redazione. Toccò a noi – Orla Borg e Carsten Ellegaard Christensen – verificare le informazioni che l’uomo, il trentacinquenne Morten Storm, aveva deciso di fornire.

    Morten Storm raccontò di essere pregiudicato, di essere stato contrabbandiere di sigarette, membro di una banda di biker e musulmano, e che adesso viveva una doppia vita: fingeva di essere un estremista islamico ma in realtà lavorava per il pet e la cia. Realtà o fantasia?

    Quando le prime ricerche ebbero dimostrato che Storm era in grado di documentare molte delle cose che diceva, decidemmo di prenderlo sul serio. Per più di un anno siamo rimasti in contatto con Morten Storm e alla fine dell’estate del 2012 lo abbiamo intervistato, incontrandolo in un lasso di tempo di diversi mesi. Dopo le interviste abbiamo effettuato numerosi controlli incrociati sulle informazioni che ci aveva fornito, per verificare se fosse possibile averne conferma anche da altre fonti. Abbiamo concluso che la incredibile storia di Morten Storm era sostanzialmente vera.

    Così abbiamo pubblicato una serie di articoli sul quotidiano «Morgenavisen Jyllands-Posten», ponendo l’accento sulle questioni di principio sollevate da quel che Morten Storm ci aveva raccontato. Ci chiedevamo: fin dove si sono spinti i servizi segreti danesi collaborando con la cia nella caccia ai terroristi che dovevano essere uccisi? Il pet ha superato il limite delle proprie competenze partecipando alle ricerche del leader di al-Qaeda Anwar al-Awlaki, ucciso dagli usa durante un attacco di droni il 30 settembre 2011? Chi ha autorizzato il pet a partecipare ad azioni che avevano lo scopo di uccidere al-Awlaki? Perché il pet ha tentato di pagare Storm perché tacesse sul suo lavoro per il pet e la cia?

    Un giornale ha l’obbligo di accertare che l’utilizzo del potere da parte di persone ed enti nella società democratica danese rimanga entro i limiti della legge. Gli articoli giornalistici hanno dato vita a un dibattito su questo argomento, un dibattito che sicuramente influirà sulla redazione di una specifica legge che sarà sottoposta al Parlamento nella seconda metà di quest’anno.

    A un certo punto, però, ci è stato chiaro che Morten Storm ha fatto tali e tante cose nel corso della sua vita turbolenta che non era possibile darne conto in una serie di articoli. Ci voleva un libro.

    Morten Storm ha avuto un’infanzia difficile. È stato espulso da cinque scuole. Ha commesso la prima rapina a 13 anni, ha vissuto di contrabbando di sigarette per molti anni ed è stato prospect, aspirante, del gruppo di biker Bandidos, prima di convertirsi improvvisamente all’Islam all’età di 21 anni. Per dieci anni ha vissuto con intensità la sua nuova fede, tanto da trasformarsi in un convinto estremista islamico e da essere sul punto di partire per partecipare alla jihad, la guerra santa. Invece ha abbandonato l’Islam da un giorno all’altro e ha cambiato vita, diventando un agente dei servizi segreti occidentali con lo scopo dichiarato di combattere i terroristi islamici.

    La singolare storia di Morten Storm merita un libro anche per un altro motivo: conduce il lettore a contatto con due mondi che, di norma, sono preclusi al pubblico. Da una parte la cerchia ristretta dei capi di al-Qaeda nella penisola araba, che Storm ha frequentato, conoscendo personalmente diversi dei più importanti e temuti terroristi del mondo. Dall’altra l’ambiente dei servizi, visto che Storm è stato un infiltrato, non solo per conto del pet danese, ma anche di un paio di altri servizi segreti occidentali di rilevanza internazionale.

    Questo libro è stato scritto, come già accennato, sulla base di una serie di interviste a Morten Storm e presenta la sua vita da biker, musulmano e agente segreto come lui stesso la ricorda.

    La casa editrice JP/Politikens Forlag e Morten Storm hanno sottoscritto un accordo in base al quale quest’ultimo ottiene dei proventi dalla vendita del libro. In teoria, questo avrebbe potuto dare a Morten Storm una motivazione economica per esagerare o rendere più interessante la propria storia. È un rischio a cui questo genere di libri è fatalmente soggetto e che noi abbiamo considerato, tentando di documentare ogni singolo punto. Abbiamo verificato quante più informazioni possibile, cercando conferme da fonti scritte od orali. È il caso, ad esempio, del clamoroso capitolo relativo alla collaborazione di Storm con il pet e la cia durante le ricerche del leader terrorista Anwar al-Awlaki. Nei casi in cui non è stato possibile trovare altra documentazione, è evidente nel testo che quanto riportato si basa esclusivamente su ciò che ha raccontato Morten Storm. È importante sottolineare, tuttavia, che non abbiamo mai colto Morten Storm a mentire né a esagerare o abbellire la sua storia. Durante la fase di revisione del libro, Storm ha avuto la possibilità di rileggere le proprie citazioni e di controllare le informazioni fornite per correggere eventuali errori, ma non ha avuto influenza sul prodotto finale. Nelle fasi finali è intervenuto il giornalista e scrittore Michael Holbek Jensen, allo scopo, fra l’altro, di valutare il lavoro di ricerca e documentazione con occhio critico. Gli autori desiderano ringraziare il giornalista e scrittore Morten Pihl per il suo contributo, i consigli e la rilettura critica del manoscritto.

    Orla Borg, Carsten Ellegaard Christensen

    e Michael Holbek Jensen

    Aarhus/Copenaghen, dicembre 2012

    Vestito per la guerra

    Fyn, dicembre 2006

    Morten Storm era di ottimo umore. Seduto nella vecchia e calda Ford Mondeo, chiacchierava con l’amico Abu Omar. Oltre i finestrini dell’auto scorreva il paesaggio invernale, buio e fradicio. Non aveva smesso un momento di nevicare, i tergicristalli lavoravano alla massima potenza per liberare il parabrezza. Era il dicembre 2006. I due danesi convertiti all’Islam stavano tornando a Aarhus da Copenaghen, dove avevano fatto acquisti nel magazzino di abbigliamento ed equipaggiamenti militari McKorman, sulla Nørrebrogade. Avevano programmato quel viaggio per un sacco di tempo. Di tanto in tanto Morten Storm gettava uno sguardo soddisfatto alle proprie spalle. Aveva comprato tutto quello che i suoi amici, i militanti islamici in Somalia, gli avevano chiesto. Il sedile posteriore e il bagagliaio erano pieni di stivali militari di diverse misure, giacche e pantaloni a chiazze gialle, marroni e verdi che si sarebbero mimetizzati perfettamente con le montagne e i deserti del Paese africano, coltelli svizzeri, borracce e fazzoletti per coprire il viso. Aveva speso oltre 10.000 corone.

    Morten Storm era eccitato. Insieme ai suoi acquisti, anche lui avrebbe presto raggiunto i sacri guerrieri in Somalia.

    «Ancora due giorni e potrò partire. Sarà grandioso!», disse ad Abu Omar con un sorriso. Anche se nella Mondeo non c’era molto spazio per un uomo della sua stazza – 182 centimetri per 120 chili di muscoli e pancia ben strizzati nella giacca militare nuova – batté le mani, come faceva sempre quando era contento.

    La destinazione di Morten Storm era una delle zone più turbolente e pericolose del mondo. La guerra civile in Somalia esigeva ogni giorno il suo tributo di morti e feriti. Le Corti Islamiche avevano preso il controllo di gran parte del Paese, compresa la capitale Mogadiscio, e vi stavano introducendo la legge islamica, la sharia. L’avanzata e la brutalità delle Corti avevano indotto l’Etiopia a inviare dei soldati in Somalia per proteggerne il debole governo e per questo le Corti incitavano tutti i fratelli musulmani, anche in Occidente, alla jihad contro le truppe etiopiche.

    Morten Storm voleva partecipare a quella lotta. Aspettava una simile opportunità da anni. Da quando era diventato musulmano, nel 1997, il desiderio di combattere per l’Islam era cresciuto in lui, gonfiandosi come un pallone. Non contava più le volte in cui aveva esortato i giovani alla lotta nelle moschee di San’a in Yemen, di Luton e Birmingham in Inghilterra, di Odense, Aarhus e Copenaghen: «Dovete essere pronti a combattere e morire per l’Islam. Dovete unirvi alla jihad. Dovete recarvi nei luoghi in cui vi è maggiore possibilità di creare uno Stato islamico, dove i musulmani possono vivere secondo la sharia e seguire i comandamenti di Allah e del Corano».

    Morten Storm aveva avuto successo nei suoi tentativi di accendere l’entusiasmo dei giovani e spingerli alla guerra santa. Molti amici – Ali, Warsame, Abdulghani e Mustafa – erano partiti per la Somalia e lui era fiero di averli convinti. Allo stesso tempo disprezzava i musulmani che si limitavano a parlare della jihad senza avere il coraggio di partire. Una volta, alla preghiera del venerdì, li aveva definiti ipocriti. Non voleva certo essere uno di loro. Voleva combattere insieme ai suoi fratelli delle Corti Islamiche. Aveva detto addio alla moglie, ai figli, agli amici. Era pronto all’azione.

    La Ford Mondeo attraversò il ponte Lillebælt e proseguì sull’autostrada. Erano arrivati all’altezza di Fredericia quando il cellulare di Morten Storm squillò.

    «Murad», rispose allegro, con il lieve accento cantilenante della città di Korsør che tradiva le sue origini. Quando era insieme ad altri musulmani usava il nome Murad, che aveva assunto dopo essersi convertito.

    Era il suo amico Abdulghani, chiamava dalla Somalia. Pieno di entusiasmo, Storm cominciò a elencargli la quantità di cose che aveva acquistato nel magazzino militare, ma Abdulghani lo interruppe. Il suo tono era grave.

    «Non devi venire adesso. È troppo pericoloso. L’esercito etiope si è impadronito dell’aeroporto di Mogadiscio e i soldati arrestano tutti i sacri guerrieri che raggiungono il Paese per combattere con le Corti Islamiche. Sta’ lontano!».

    La speranza di Morten Storm si spense di colpo. Il pallone dentro di lui esplose. Il piacere dell’attesa che lo aveva colmato fino a quel momento si dissolse, lasciando il posto a un senso di delusione e sconfitta.

    Abu Omar si mostrò comprensivo e raccolse il suo sfogo per tutto il resto del viaggio fino ad Aarhus. Aveva un approccio più spirituale all’Islam, ma accettava che l’amico fosse più radicale e veemente nella sua pratica religiosa. Accompagnò Storm a casa nel condominio grigio di Gudrunsvej nel parco di Gellerup a Braband, alle porte di Aarhus. Si era fatto tardi, ma le luci erano ancora accese nella maggior parte degli appartamenti del palazzo di otto piani. Grandi antenne paraboliche erano puntate verso un ripetitore a sud della città che captava i programmi delle stazioni televisive turche, libanesi e arabe.

    Morten Storm si caricò in spalla gli stivali e gli equipaggiamenti ormai inutili e salì al terzo piano. Entrò nel suo appartamento e gettò tutto quanto in camera da letto. La frustrazione lo rendeva inquieto. Accese il bollitore con l’acqua per il caffè. Accese anche il computer portatile e lo poggiò sul tavolo vicino alla finestra della piccola cucina. Dopo il benvenuto di Windows, controllò la casella di posta. Niente di importante. Si alzò e andò a preparare una tazza di caffè solubile. Tornò al computer e aprì la pagina di ricerca di Google. L’impulso lo colse di sorpresa.

    Morten Storm era musulmano da quasi dieci anni. Era un convinto praticante ed era pronto a morire per la sua religione. Ciononostante poggiò le dita sulla tastiera e nella casella di ricerca scrisse: contraddizioni nel corano.

    I risultati colmarono lo schermo. Ce n’erano oltre un milione. Storm cliccò sul primo link, poi sul secondo, sul terzo. Lesse tutta la notte, fino a farsi bruciare gli occhi e l’anima.

    La sua vita stava per prendere una nuova, drammatica direzione. Un’altra volta.

    Farsi strada a pugni

    Korsør, 1989

    Sock! Sock! Sock!

    Il guanto da boxe colpiva con una serie di diretti il pesante sacco nero appeso al soffitto con una catena, facendolo dondolare con un suono scricchiolante.

    «Avanti, Morten! Incrocia!».

    Sock! Sock! Sock-sock!

    «Bene così, avanti! Altri venti secondi!».

    Il tredicenne Morten Storm era impegnato allo spasimo. Ansimava per la fatica, il petto gli doleva. I capelli rossi erano fradici di sudore e appiccicati alle tempie, il viso in fiamme.

    Sock! Sock! Sock-sock!

    «Okay, stop», disse l’allenatore Mark Hulstrøm.

    Il ragazzino lasciò cadere pesantemente le braccia lungo i fianchi.

    Morten Storm aveva un’energia incontenibile. Aveva giocato a lungo a calcio, gli piaceva molto, ma quello sport non era sufficiente per dare sfogo alla sua indole impetuosa. Si era sentito a casa fin dalla prima volta in cui si era allenato nella palestra del Club Amatori Pugilato di Korsør, nella vecchia stalla ristrutturata di Ørnumvej. Si era presentato nella palestra perché conosceva due ragazzi che la frequentavano e già dalla prima lezione aveva cominciato a stravedere per l’allenatore, l’icona della boxe di Korsør, Mark Hulstrøm.

    «Era un brav’uomo, si interessava davvero a me e agli altri ragazzi», ricorda Morten Storm. «A volte ci comprava salsicce e cioccolata. Lo ammiravamo».

    All’epoca il peso massimo Mark Hulstrøm aveva 23 anni ed era stato più volte campione danese. Nel 1988 aveva partecipato alle Olimpiadi di Seoul. Allenava gli aspiranti pugili della palestra insieme a Brian Nielsen e a Jesper D. Jensen, ed era bravo a rapportarsi con i ragazzi più vivaci e a volte difficili come Morten Storm.

    «A Morten il pugilato faceva bene. Era un ragazzino tutto pepe. Aveva il fisico del pugile e sapeva come colpire», rammenta Mark Hulstrøm.

    Il talento per la lotta ha caratterizzato la vita di Morten Storm. Ha messo al tappeto, fuori dal ring, più persone di quante riesca a ricordare. Per molti anni, la violenza è stato l’unico suo modo di esprimersi. Quando non aveva più parole, tirava fuori i pugni. D’altronde, fin dalla più tenera età gli era stato insegnato che era così che si faceva.

    «Per i primi anni della mia vita ho vissuto da solo con mia madre. Mi hanno detto che ero un bambino buono e allegro. Io non me ne ricordo. Mio padre è uscito dalla mia vita quand’ero molto piccolo: mia madre lo lasciò prima che potessi imparare a conoscerlo, è come se non avessi mai avuto un padre. Quando avevo otto anni, il nuovo marito di mia madre venne a stare nel nostro appartamento di Motalavej a Korsør. Era estremamente violento, un vero psicopatico. Uno schifoso maiale. Fin dal primo istante mi ha trattato con freddezza. Non ne capivo il perché, ma era duro con me e dopo un po’ ha cominciato a essere brutale. Mi picchiava senza motivo, e non erano ceffoni ma pugni. Quasi non passava giorno che non mi colpisse. Era assolutamente imprevedibile. Era capace di darmele perché tenevo la forchetta in modo sbagliato o perché inspiravo rumorosamente dal naso. Qualunque cosa poteva essere un errore, non potevo saperlo. Non ho mai capito, ad esempio, perché mi abbia picchiato a casa di mia nonna, durante una cena di Natale», racconta Morten Storm.

    La madre di Morten Storm, Lisbeth, non ricorda bene quella vigilia di Natale. In generale, ci sono molte cose dell’infanzia di Morten che non rammenta.

    «Credo di avere rimosso buona parte di quel periodo. È più facile accettare un passato che non si ricorda. Non sono fiera dell’infanzia che ho dato a mio figlio e credo che sia diventato quel che è per colpa mia. È vero che mio marito picchiava sia Morten sia me, evidentemente era la sua natura. Un momento eravamo migliori amici e un momento dopo si scatenava l’inferno. Se Morten, ad esempio, posava il gomito sul tavolo mentre mangiava, invece di chiedergli di spostarlo lo colpiva».

    Lisbeth si è sempre sentita sola con la responsabilità del figlio. Il padre di Morten, con il quale ha vissuto per i primi quattro anni dell’infanzia del bambino, aveva problemi di alcolismo e lei alla fine lo ha lasciato. Così come ha cercato più volte di lasciare anche il patrigno violento di Morten.

    «Purtroppo sono tornata da lui due volte. Quando andavo via, lui mi rintracciava e mi prometteva che sarebbe cambiato. Ma non è mai successo. Morten lo odiava, lo capisco bene, e restava molto deluso ogni volta che tornavamo da lui. Mi sento in colpa, perché avrei dovuto lasciarlo subito e definitivamente, per amore di mio figlio», dice Lisbeth.

    La madre di Morten non voleva che lui facesse pugilato. Temeva che rischiasse dei danni cerebrali, perché aveva sentito dire che i colpi alla testa potevano provocarli. Il ragazzo, tuttavia, continuò a frequentare il Club Amatori Pugilato di Korsør di nascosto. A volte riusciva a nascondere i lividi o a inventare scuse plausibili, ma se lei lo scopriva lo chiudeva in casa.

    «Non mi piaceva che facesse pugilato, perché temevo che il suo temperamento violento sarebbe peggiorato», spiega Lisbeth.

    Finché un giorno venne a trovarla Mark Hulstrøm in persona e la convinse a lasciare che il ragazzo praticasse il pugilato. Per un periodo gli allenamenti andarono a meraviglia.

    «Purtroppo, però, Morten non era assiduo. Si allenava per tre mesi, spariva per tre mesi e poi tornava. Non era in grado di affrontare i sacrifici necessari a diventare un campione», dice Mark Hulstrøm.

    Morten Storm è d’accordo.

    «Non riuscivo a seguire gli allenamenti, preferivo divertirmi. Inoltre la mia famiglia non mi appoggiava. Né mia madre né il mio patrigno sono mai venuti ad assistere a un incontro di boxe o a una partita di calcio. Per andare agli allenamenti di calcio dovevo pedalare per venti chilometri fino a Slagelse, anche se nevicava. Avevamo la macchina, ma nessuno si è mai offerto di accompagnarmi. Sono stato anche a Praga, per dei campionati di pugilato, ma neanche questo li interessava».

    L’altalenante carriera pugilistica di Storm terminò alcuni anni dopo, quando prese parte nella categoria mediomassimi al Campionato Principianti dello Sjælland in una scuola di Helsingør.

    «Mi ero allenato tantissimo. Avevo perso venti chili, facevo sollevamento pesi, ero un fascio di muscoli. Sono arrivato in finale e l’incontro è andato benissimo. Tutti pensavano che avrei vinto, perfino il mio avversario. Invece hanno assegnato la vittoria a lui, non ho capito perché. Mark ha detto che era un imbroglio e che mi avevano rubato l’incontro. In quel momento ho deciso che non me ne fregava più niente, e comunque all’epoca ero diventato molto più bravo a mettere ko i miei avversari fuori dal ring».

    L’iperattività di Morten Storm lo condusse presto in contatto con la microcriminalità. A 12 anni iniziò a lavorare insieme ad altri due ragazzini nel negozio di un fruttivendolo sulla piazza principale di Korsør. Sapevano che faceva molti soldi in nero e che quindi non poteva controllare con precisione quanto c’era nella cassa.

    «Ci mettemmo d’accordo con gli immigrati che venivano a comprare frutta e verdura. Pagavano con una banconota da cinquanta e noi gli davamo il resto di cinquecento corone. Poi ci vedevamo fuori e dividevamo. Era un modo semplice per far soldi, ci sentivamo dei furbi».

    Il primo tentativo di rapina a mano armata non andò così bene. All’epoca Storm aveva 13 anni ed era fortemente influenzato dai film d’azione che vedeva con gli amici. Il padre di uno di loro era nella protezione civile e aveva una calibro 22 a tamburo. Il figlio se ne impadronì e, insieme a Morten Storm e a un altro ragazzino, decise di derubare la drogheria del signor Brinck nei pressi di Motalavej. Ci andarono un pomeriggio, appena prima dell’orario di chiusura.

    «Lo conoscevamo bene, perché ci compravamo le caramelle. Ci nascondemmo e poi, quando Brinck stava per chiudere, saltammo fuori gridando: Questa è una rapina!, ma quello era così tirchio che sarebbe morto, piuttosto che darci i soldi. Si oppose con tutte le sue forze e riuscì a sbatterci fuori e a chiudere a chiave, senza neanche perdere la sigaretta che aveva in bocca. Eravamo molto delusi, e tutti i negozi erano ormai chiusi. Allora ci venne in mente il Fasangrill, dove andavamo a mangiare gli hot-dog. C’era solo una commessa, una ragazza più grande di noi. Presi la pistola, mi tirai il passamontagna sul viso ed entrai, dicendo che doveva darmi i soldi, ma lei rispose: Sei tu, Morten?. Così non riuscimmo a combinare niente neanche lì. Eravamo così frustrati che finimmo per scippare una vecchia signora. La strattonammo e lei cadde, rompendosi l’anca. Mi sono sentito molto in colpa».

    L’indomani la polizia si presentò a casa di Morten Storm e il ragazzo venne condotto alla centrale. Il giorno dopo, Lisbeth dovette trarne le conseguenze. Non riusciva a gestire il figlio, e anche la scuola non aveva ottenuto risultati. Al contrario, durante la sua carriera scolastica Morten fu allontanato da cinque diversi istituti da insegnanti e presidi esasperati dal suo comportamento ingestibile.

    «Le tentate rapine furono la goccia che fece traboccare il vaso. Dovetti riconoscere la mia incapacità e fu spedito a Tvind», racconta Lisbeth.

    Nella Piccola Scuola per la Salute e la Forza, questo il nome completo della scuola Tvind di Middelfart, Morten poté dispiegare il proprio talento sportivo. Si distinse soprattutto nel calcio e nella corsa, vincendo molte medaglie. Tuttavia, quella scuola non era il posto adatto per un ragazzino problematico. Era circondato da delinquenti in erba e ragazzi difficili che, come lui, erano stati spediti a Tvind perché nessun’altra scuola li voleva. Quando Morten Storm tornò alla seconda media della Tårnborg Skole di Korsør era ancora più duro e violento di prima.

    «Lì conoscevano bene la mia aggressività e io non ero certo un ragazzo facile. Ero talmente iperattivo che a volte, prima di andare a scuola in bicicletta, correvo per dieci chilometri, per scaricarmi almeno un po’. A scuola, però, ero sempre inquieto, e mi annoiavo a morte», racconta Morten Storm.

    In una materia, tuttavia, Morten andava bene: l’educazione fisica. A quell’epoca sognava ancora di diventare uno sportivo professionista, e dunque la sua gioia fu grande quando venne selezionato per far parte di una squadra studentesca di ginnasti che doveva partecipare a un campionato in Germania.

    «Non vedevo l’ora di partire, ma quando la mia insegnante lo venne a sapere mi disse che avrebbe fatto in modo che non potessi andare in Germania. Era arrabbiata con me perché non facevo mai i compiti. Mi infuriai talmente che le diedi un calcio, facendole volare la tazza di caffè dalle mani. Così mi buttarono fuori dalla scuola. Tuttavia, alla fine mi concessero di fare gli esami di terza media, a patto di non frequentare la scuola mentre c’erano gli altri allievi».

    Morten Storm aveva ormai 15 anni. Era stato mandato via anche da casa, e viveva da un

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