Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il ricevitore è la spia
Il ricevitore è la spia
Il ricevitore è la spia
E-book597 pagine8 ore

Il ricevitore è la spia

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

L'incredibile storia vera della spia che cambiò il mondo

In contemporanea al film sulla vita dello straordinario campione di baseball e agente segreto della CIA, con Paul Giamatti e Sienna Miller, impegnato a scongiurare la minaccia atomica nazista durante la seconda guerra mondiale 

Moe Berg è l’unico giocatore di baseball la cui foto sia incorniciata sui muri della sede principale della CIA. La verità è che Moe Berg è stato molto più che un campione, un ricevitore che ha inanellato molti record nel corso della sua luminosa carriera nella massima serie negli anni tra il 1923 e il 1939, durante l’età del’oro del baseball americano. Moe Berg è stato anche un’eccellente spia. Di famiglia ebrea emigrata a Newark, in New Jersey, vantava prestigiosi studi a Princeton e alla Sorbona ed era arrivato a parlare dodici lingue quando diventò un agente del Servizio Segreto Statunitense durante la seconda guerra mondiale. Il romanzo di Nicholas Dawidoff ci racconta l’avventurosa doppia vita di Moe Berg, dalla sua infanzia claustrofobica fatta di studio e rigore, dei brillanti risultati ottenuti nello studio, fino alle sue due clamorose carriere, nello sport e nello spionaggio internazionale e ai suoi rapporti con personaggi di primo piano come Joe Di Maggio e Albert Einstein. Ma chi fu veramente Moe Berg? Un ragazzone dal viso pulito che eccelleva nello sport e si è ritrovato per caso a militare nei servizi segreti o la sua indole enigmatica nascondeva il desiderio di rendersi utile al suo Paese e lo sport era solo una copertura necessaria? Incredibile come un romanzo di John le Carré, Il ricevitore è la spia è un capolavoro trionfale di ricostruzione storica e psicologica. 

Uno straordinario atleta dai tanti record? Un agente segreto che rischiava la vita per il suo paese? Chi era davvero Moe Berg?

«Un libro straordinario che racconta una delle storie più incredibili dello spionaggio di tutti i tempi.»
New York Times Books Review
Nicholas Dawidoff
laureato ad Harvard, scrittore e collaboratore di «New Yorker» e «New York Times Magazine», già finalista al premio Pulitzer, è autore di libri apprezzati dalla critica e amati dal pubblico. Un suo reportage è stato indicato da Conde Nast Traveller tra i più grandi libri di viaggio di tutti i tempi. Da Il ricevitore è la spia, un successo fin dall’uscita, è stato tratto un grande film in onda su Prime Video.
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2017
ISBN9788822712851
Il ricevitore è la spia

Correlato a Il ricevitore è la spia

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Biografie storiche per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Il ricevitore è la spia

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il ricevitore è la spia - Nicholas Dawidoff

    512

    Titolo originale: The Catcher Was a Spy

    Copyright © 1994 by Nicholas Dawidoff

    Traduzione dall’inglese di Mara Gini

    Prima edizione ebook: novembre 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-1285-1

    www.newtoncompton.com

    Nicholas Dawidoff

    Il ricevitore è la spia

    Indice

    Prologo. Chi era Moe Berg?

    1. Il Berg pubblico: il professor Moe

    2. La gioventù: Runt Wolfe

    3. Colletto rigido

    4. Robin a Parigi

    5. Buono in difesa, pessimo alla battuta

    6. Quasi non ti accorgevi di averlo intorno

    7. Un bizzarro straniero con la cinepresa

    8. Mr Berg, è stato brillante

    9. Visita ufficiale a sud

    10. Remo va a Roma

    11. La spia perfetta

    12. Sempre di ottima compagnia

    13. Una vita senza calendario

    14. La vita segreta di Moe Berg

    Nota sulle fonti

    Bibliografia selezionata

    Tavole fuori testo

    A mia madre e mia nonna

    Prologo

    Chi era Moe Berg?

    Il quartier generale della

    CIA

    a Langley, in Virginia, è un tetro labirinto di corridoi identici, fiancheggiati da anonime porte di colore diverso a seconda dell’ufficio, che sono sempre rigorosamente chiuse. Solo nel cuore del quartier generale, nel padiglione espositivo della

    CIA

    , si notano le tracce della frenesia, della violenza e del sangue freddo dello spionaggio professionale. Esposti in teche di vetro come una collezione di reperti della dinastia Han, vi sono apparecchi per forare le gomme delle automobili, un sensore mascherato da cumulo di sterco, una lettera in cui la figlia di Iosif Stalin richiede asilo in Occidente, una bomba inesplosa scoperta presso una struttura governativa statunitense in Medio Oriente, una telecamera miniaturizzata mascherata da scatola di fiammiferi, un segnale luminoso ammaccato utilizzato durante la disastrosa operazione della Baia dei Porci e un busto di Hermann Göring che il futuro direttore della

    CIA

    , Allen Dulles, trafugò dalla Germania alla fine della seconda guerra mondiale.

    Vi è una teca dedicata anche all’Ufficio servizi strategici (

    OSS

    ), antenato della

    CIA

    e prima agenzia di intelligence nazionale statunitense. Su una mensola poco sopra una pistola e un silenziatore appartenuti un tempo al direttore dell’

    OSS

    , Bill il Selvaggio Donovan, vi sono due figurine cartonate che ritraggono un giocatore di baseball, accanto alle quali è situata una targa su cui si legge:

    FIGURINE DI MORRIS (MOE) BERG.

    Dopo una carriera durata quindici anni in cinque diverse squadre della Major League, Berg, laureato a Princeton, prestò servizio con grande successo come agente operativo dell’

    OSS

    durante la seconda guerra mondiale. Tra le sue tante missioni per conto dell’agenzia, l’ex ricevitore fu incaricato di apprendere quanto più possibile sul progetto della bomba atomica di Hitler…

    Grazie alla sua intelligenza, Moe Berg è considerato l’uomo più cervellone del baseball. Parlava correntemente decine di lingue e spesso autografava le foto in giapponese. Queste figurine appartengono alle stagioni giocate con i Washington Senators (1932-1934) e con i Boston Red Sox (1935-1939).

    Quando Linda McCarthy¹, curatrice del museo della

    CIA

    , parla di Moe Berg, le guance le si imporporano e la conversazione assume un ritmo febbrile, concitato. Moe Berg è la sua passione. «La gente pensa che mi inventi le cose», racconta. «Per me Moe è un idolo; lo ha fatto per le giuste motivazioni. Si è unito all’

    OSS

    spinto da uno scopo preciso: sapeva che sarebbe stato utile al proprio Paese; sapeva quello che i tedeschi stavano combinando con l’atomica. È questa l’intelligence: bisogna sapere cosa sta facendo la controparte».

    «Come giocatore era un gentiluomo», prosegue McCarthy, che guida un’utilitaria – «per un utility catcher», spiega – decorata con targhe intitolate a Moe Berg. «Ammiro gli uomini del Rinascimento, mi piacerebbe molto poter conversare con loro. La sera, quando chiudo il museo, passo da Moe e gli auguro la buonanotte. Credo che il suo spirito sia ancora qui e ho la sensazione di conoscerlo».

    Allan Siegal² è un assistente caporedattore al «New York Times». Col tempo, Siegal ha allacciato rapporti di corrispondenza con quelli che lui definisce «tizi che si sentono in dovere di sorvegliare la parola scritta». Molti di loro sono lettori anziani, pensionati con tanto tempo a disposizione, ma altri sono semplicemente esperti della lingua e includono – Siegal li conta sulla punta delle dita – «avvocati di spicco, un agente immobiliare di rilievo che nessuno sospetterebbe nutrire un interesse per cose del genere, un famoso professore della Columbia; vi sono individui con cui ci siamo scritti per dieci o vent’anni». Di recente, Siegal ha ricevuto svariate lettere su una serie di questioni sintattiche da parte di Moe Berg. Non è mai indicato l’indirizzo del mittente, perciò Siegal non ha potuto rispondere, ma non si è minimamente scomposto di fronte alla diffidenza di Berg.

    L’ultima sua missiva è arrivata in risposta a un articolo sul fisico tedesco Werner Heisenberg; durante la seconda guerra mondiale, lo staff militare americano temeva che stesse sviluppando la bomba atomica per conto di Adolf Hitler. Il compito di Berg era quello di scoprire se Heisenberg stesse lavorando al progetto oppure no. Le frasi incriminate³ dell’articolo del «Times» descrivono l’unico incontro di Berg con Heisenberg, in occasione di una conferenza in Svizzera. «Ma se Heisenberg avesse anche solo ventilato l’idea che la realizzazione della bomba atomica da parte dei nazisti fosse eminente, Berg aveva l’ordine di ucciderlo seduta stante. Berg osservò e ascoltò e decise che Heisenberg aveva uno sguardo sinistro». Con ogni evidenza, il giornalista del «Times» scrivendo eminente intendeva in realtà dire imminente e, come c’era da aspettarsi, qualche giorno più tardi Siegal ricevette un messaggio che diceva: «Se la bomba tedesca fosse stata eminente, c’è poco da sorprendersi che Heisenberg avesse uno sguardo sinistro». Era firmato Moe Berg. Siegal aveva pensato che fosse carino che Moe Berg monitorasse le sue apparizioni sui giornali, e ne aveva parlato con un collega. Mentre si confidava, però, il collega era impallidito. «Al», gli aveva detto, «credo che Berg sia morto da parecchio tempo». Siegal aveva controllato ed era vero. Moe Berg era morto nel 1972. L’identità di chiunque si creda Moe Berg – uomo o donna – rimane avvolta nel mistero. Moe Berg era sempre stato un uomo molto schivo.

    Charles Owen⁴ beve birra e scotch, ma ha riempito il suo monolocale nei sobborghi del Maryland di Pouilly-Fuissé, un bianco della Borgogna, che guarda caso era il preferito di Moe Berg. Sulle pareti del suo appartamento sono appese tre copie del calco del viso di Berg, due in bronzo e l’altra di ceramica bianca. Owen ha incaricato alcuni artisti di riprodurre il ritratto del giocatore su palle da baseball. Per le feste invia biglietti d’auguri di Berg ideati da lui, mentre per la corrispondenza più informale si affida alle cartoline postali di Moe Berg, che fa stampare a centinaia. Le figurine del baseball di Moe valgono quasi centocinquanta dollari l’una, e Owen ne possiede più di cento; nel suo portafogli tiene anche alcuni suoi biglietti da visita. Berg era un avido lettore di giornali: ne comprava fino a dieci al giorno; ogni volta che Owen visita uno dei posti che Berg era solito frequentare – per esempio il Mayflower, il suo albergo preferito a Washington – lascia una copia del «Washington Post» fresca di stampa su un tavolino della hall.

    Owen, cinquantotto anni, finito il liceo si è arruolato nell’aviazione e da allora ha svolto svariate mansioni. È scapolo, perciò trascorre il tempo libero da solo, o meglio, in compagnia di Moe. Durante i fine settimana e le vacanze gira per il mondo alla scoperta di tutto ciò che può trovare sul suo idolo. Non si considera uno scrittore o uno storico; vuole semplicemente sapere. È con questo spirito che ha viaggiato in Inghilterra e Florida, ha incontrato ex spie e amori passati, generali graduati e ambasciatori in pensione, giocatori di baseball dei tempi andati e vecchi laureati di Princeton. Anche Berg si è laureato lì, classe 1923, e Owen definisce quell’università il «posto dove ha avuto inizio la leggenda».

    Ha sentito parlare di Berg per la prima volta circa dodici anni fa, leggendo un breve articolo su di lui sul «Washington Post». «Mi sono detto: Nessun uomo può aver fatto tutto questo», ricorda. Così ha iniziato a scrivere lettere e a fare telefonate e con il tempo è arrivato a conoscere il fratello maggiore di Berg, Samuel, medico di Newark. Berg visse a Newark con Samuel – noto come dottor Sam – per circa vent’anni, finché non fu sbattuto fuori di casa nel 1964. Il dottor Sam e Owen sono diventati amici e quest’ultimo è riuscito a mettere le mani sulle lettere, sulle foto e sugli oggetti di Berg conservati in soffitta. Owen racconta che Sam glieli aveva consegnati tutti prima della morte nel 1990, all’età di novantadue anni. «Mi sono sentito quasi forzato a svelare l’enigma di quest’uomo», confessa Owen. «Moe mi ha aperto un mondo. L’ho fatto perché volevo sapere chi fosse. In molti conoscevano alcuni aspetti di lui; era una persona diversa con ognuno. Era complicato ed era semplice». Owen scrolla la testa e sorride. «Non lo conosco ancora. Non so se qualcuno lo conosca davvero. Ha mantenuto dei segreti con chiunque e nessuno lo conoscerà mai realmente».

    Nel 1989, durante il secondo anno a Princeton⁵, Lou Jacobson, che scriveva per il «Daily Princetonian», stava rientrando al campus da una convention giornalistica a Washington, insieme ad altri tre colleghi del giornale universitario. Seduta alle sue spalle c’era Sharon Katz, che non aveva mai visto. «Per ammazzare il tempo», ricorda Jacobson, «le raccontai la storia di Moe, la versione lunga. Da Washington fino al Delaware». Qualche tempo dopo, di nuovo al campus, si imbatté ancora in Sharon e la conversazione finì presto su Moe Berg. Jacobson affermò di avere alcune foto di Berg nella sua stanza e le chiese se le andasse di vederle. Lei accettò e da allora non si sono più lasciati.

    A Jacobson piace prendersi in giro per quello che definisce «il mio interesse ossessivo per Moe Berg». Lo stesso fecero i suoi amici al «Princetonian», che, con una puntina, attaccarono alla sua porta un foglio con elencati i principi fondamentali per il Rituale di adorazione di Moe Berg (La religione moesulmana). Jacobson scrisse di Berg per un progetto scolastico, di nuovo per un seminario di Princeton e un’altra volta ancora per il «Princetonian», e ammette: «Ne subisco ancora il fascino. Ci sono così tante domande senza risposta nella mia mente. Cerco di staccarmi dall’alone di mistero che lo circonda, perché voglio semplicemente capirlo. Perché è rimasto nel baseball così a lungo, se ha giocato così poco? Perché improvvisamente si è dato allo spionaggio? Cos’è successo dopo gli studi in giurisprudenza? Perché non si è mai sposato? Perché nessuno della sua famiglia si è mai sposato? Perché i loro rapporti erano così tesi?».

    «Moe Berg era un imbroglione!»⁶, dice George Allen, alzando la voce come fa sempre quando si parla di Berg. Allen è il proprietario della libreria d’antiquariato William H. Allen di Philadelphia. Incontrò Berg sul finire degli anni Sessanta. Un giorno Berg entrò nel suo negozio e chiese dove si trovasse la sezione di linguistica; poi vi trascorse l’intera giornata, appollaiato su uno sgabello a leggere. Non si interruppe nemmeno per pranzare. Berg tornò a leggere per svariati altri giorni, sempre con l’aria di chi, per Allen, «aveva passato la notte precedente sulle panchine della stazione»⁷. Solo una volta Berg comprò un libro, al costo di un dollaro. «Non lo presi mai sul serio», racconta Allen. «Non era un brav’uomo, era un bugiardo di professione, un fannullone che viveva sulle spalle del fratello, un maniaco e un ciarlatano. Non riesco proprio a capire cosa ci abbia mai trovato in lui l’

    OSS

    . Non parlava nessuna lingua straniera abbastanza bene da poter essere una spia; era piuttosto la parodia di una spia. Berg era un mistero autoinventato, un tizio carismatico, ma decisamente un imbroglione. Il mistero è che non c’è nessun mistero».

    Irwin Berg⁸ è un avvocato di New York laureato a Harvard. Vide il cugino solo due volte, ma pensa a lui di continuo. «Nel 1939 non avevo ancora sei anni», racconta. «Mio padre mi portò a vedere gli Yankees contro i Red Sox. Ci andammo perché Moe giocava per i Red Sox. Mio padre gli lasciò un messaggio, dicendogli che l’avremmo incontrato vicino all’ingresso dei giocatori dopo la partita. Così, al termine dell’incontro, mio padre portò lì me e mio cugino David e poi si allontanò un po’. Lo aspettammo per quaranta minuti e alla fine Moe uscì. Mi strinse la mano e mi salutò e poi strinse la mano di David. Qualcuno su un’auto gli gridò: Ehi, Moe! Andiamo!. Lui saltò sull’auto e se ne andò».

    «La seconda volta fu nella casa di Samuel Berg. Moe abitava lì e Sam invitò a cena me e mia madre. Ci disse di aspettare nel suo ufficio, perché aveva delle cose da sbrigare. Nel frattempo sentii qualcuno che camminava avanti e indietro al piano di sopra e non era Sam. Poi la persona in questione scese di sotto e uscì. Era il 1955, mi pare. Mia madre mi disse: Quello è Moe. A quanto sembrava, Sam gli stava lasciando del tempo per uscire di casa, perché Moe non voleva vedere nessuno. Moe accompagnò sua madre al funerale di mia nonna e poi rimase seduto fuori ad aspettarla, seduto su una panchina con un giornale aperto a coprirgli la faccia».

    ¹ Intervista a Linda McCarthy a Langley, Virginia.

    ² Intervista telefonica ad Allan Siegal.

    ³ «New York Times», 28 febbraio 1993.

    ⁴ Intervista a Charles Owen, Washington

    D.C.

    ⁵ Intervista a Lou Jacobson a Princeton, New Jersey.

    ⁶ Intervista telefonica a George R. Allen.

    ⁷ George R. Allen, The Strange Story of Moe Berg: Athlete, Scholar, Spy. Discorso tenuto alla cena annuale del Franklin Inn Club di Philadelphia in onore di J. William White, 17 gennaio 1991, p. 2.

    ⁸ Intervista a Irwin Berg a New York.

    1

    Il Berg pubblico: il Professor Moe

    Fu John Kieran a creare il personaggio pubblico di Moe Berg. Dentro di sé, Kieran era un amante della natura; la cosa che lo rendeva più felice era camminare lungo un promontorio roccioso con uno stormo di uccelli marini che migravano sopra la sua testa. Kieran però sapeva anche discorrere a lungo dei libretti di Rossini, dei diari di Jefferson, dei traduttori di Virgilio o del credo politico di Manet. O della forza di Lou Gehrig. Perché Kieran si guadagnava da vivere⁹ scrivendo su Sports of the Times, la prima rubrica quotidiana di quel tipo sul «New York Times».

    Kieran curò la rubrica Sports of the Times dal 1927 al 1942, periodo in cui la sezione sportiva non era ancora luogo di indagini, opinioni o citazioni. I giornalisti si occupavano di partite, non di personaggi, mentre gli editorialisti si focalizzavano su articoli distensivi, più che sugli scoop. La maggior parte dei migliori editorialisti sportivi dei primi tempi – Lardner, Runyon, Kieran – erano umoristi cui si lasciava ampia libertà di espressione in nome dell’intrattenimento. E ne avevano bisogno, dal momento che l’inesorabile impegno di ogni editorialista è quello di scovare qualcosa su cui valga la pena scrivere quando la storia è piatta. Kieran teneva una rubrica giornaliera sul suo giornale, e ogni volta che gli eventi, l’atmosfera o l’ispirazione scarseggiavano, «il più erudito giornalista sportivo dei suoi tempi, o di tutti i tempi»¹⁰, secondo Runyon, si rivolgeva senza pensarci su a Moe Berg. Con il tempo Kieran finì per creare un personaggio intorno a Berg, macinando episodi su episodi della vita del suo beniamino, il Professore, il giocatore patito dei libri.

    La minima scusa era buona perché Kieran scrivesse di Berg¹¹. Per esempio, la notizia che il lanciatore dei Cincinnati Reds, Johnny Vander Meer, aveva da poco subito la sua terza tonsillectomia. «Non appena il Professor Moe Berg del dipartimento di Lingue e scienze oscure dei Boston Red Sox sarà rintracciato, quest’osservatore ha tutta l’intenzione di chiedere la sua opinione a proposito di un oggetto misterioso comparso di recente tra le notizie di baseball», scrisse l’8 dicembre 1938. «Forse sarà difficile acchiappare l’erudito ricevitore; i suoi movimenti sono avvolti nel mistero». Kieran faceva allusione al più recente avvistamento di Berg, «tra il pubblico dell’università di Princeton, una settimana fa circa, quando il dottor Thomas Mann, l’eminente esule, ha tenuto una conferenza sul Faust di Goethe». Berg venne poi rintracciato a Princeton a un appuntamento con Albert Einstein, con il quale aveva conversato a proposito delle riflessioni del professor Archibald Henderson sulla questione della bisettrice interna nella geometria euclidea, che «gli ronza in testa da quando, sul finire dell’estate scorsa, ha letto la monografia del professor Henderson sulla panchina dei lanciatori, durante un doppio incontro tra i Red Sox e i Detroit Tigers a Detroit». A quel punto, finalmente, veniva citata la terza tonsillectomia di Vander Meer, ma en passant, come se fosse un altro enigma degno della considerazione di Berg.

    In un articolo¹² datato 27 gennaio 1938, dal titolo Il ritorno del topo di biblioteca, «il ricevitore Moe Berg» viene descritto in visita a Princeton in compagnia dell’amico del cuore, il perennemente imbronciato Al Schacht, coach dei Red Sox, meglio conosciuto dai fanatici dello sport come The Clown Prince of Baseball. Berg ha in programma di mostrare agli studenti della sua alma mater alcuni filmati girati in Russia e in Giappone in occasione del suo viaggio del 1934. Gli oneri della guida ricadono su un agitato Schacht. «Parla otto lingue, ha sedici lauree universitarie e non riesce a guidare una macchina», si lamenta Schacht. «Non riesce a fare niente in auto, si rifiuta di toccare qualsiasi cosa, non accende nemmeno la radio – non accende le luci e non infila le mani in tasca per pagare la benzina». Il viaggio non inizia sotto i migliori auspici. Berg arriva con un’ora e mezza di ritardo al ritrovo a New York, e quando finalmente si presenta, ritarda ulteriormente la partenza insistendo di dover passare da casa a Newark. Schacht rimane sbalordito dalla casa di Berg, non ha mai visto così tanti libri in tante lingue diverse. «Il soggiorno è pieno di mensole colme di libri in francese. La sala da pranzo rigurgita volumi, fino al soffitto, in tedesco. Ci sono altre due stanze, una piena di libri italiani e l’altra di libri spagnoli. Così saliamo al piano di sopra. Alle pareti non ci sono altro che mensole stracolme di libri, di astronomia da un lato, di chimica dall’altro… Non mi meraviglia che non riesca a colpire una palla curva! Chiunque abbia letto anche solo la metà di questi libri deve essere cieco come una talpa!».

    Berg recupera i filmati dalla soffitta, tornano in auto e si finisce a parlare del periodo di studio che Berg trascorse alla Sorbona di Parigi (Schacht lo definisce la Scottatura). Alla fine arrivano a Princeton e Berg proietta i filmati, assentandosi per andare a comprare qualche libro – «sette tomi enormi, di cui nemmeno capisco i titoli», racconta Schacht – e poi di nuovo in marcia, ma dopo una trentina di chilometri verso New York Schacht è costretto a fare dietrofront: Berg ha scordato i filmati.

    Il misterioso Berg¹³ divenne la risposta di Kieran al fittizio Jack Keefe di Ring Lardner, l’incolto busher¹⁴ la cui vena di grossolana loquacità era forte quasi quanto il suo braccio da lanciatore. Ogni articolo di Kieran su Berg diventava l’ennesimo capitolo delle contorte avventure comiche dell’eccentrico erudito del baseball.

    Per un editoriale del 1937¹⁵ sulla riluttanza dei giocatori di baseball a parlare della propria squadra, se non quando vince, Kieran piazza Berg trafelato al Grand Central Terminal di New York, appena dopo che gli Yankees, come sempre, hanno bastonato i Red Sox. Berg ha con sé «un pacco di giornali sotto il braccio, stranieri e nazionali» e quando adocchia Kieran, lo saluta in giapponese. Kieran invita Berg a unirsi a lui per pranzo e ordina una mousse di mele, «né più, né meno». In attesa dell’ordinazione, Berg sistema i giornali su una sedia accanto a lui e una copia della Ricerca sull’intelletto umano di un certo David Hume, sconosciuto nella cerchia dell’American League, cade a terra. «È una sorpresa che in quel momento buio non se ne sia uscito con un volume di Schopenhauer», racconta Kieran, che a quel punto inizia a fargli il terzo grado sulla recente batosta subita dai Red Sox. Kieran gli fa domande sul lancio e Berg gli spiega la sua ambizione di possedere il «New York Times»; Kieran gli domanda di un ricevitore particolarmente scarso e Berg descrive a grandi linee l’arte di come ordinare un roast beef in un ristorante londinese; Kieran vuole sapere dell’esterno dei Boston e Berg gli parla della politica estera giapponese. Disperato, Kieran gli chiede degli Yankees e in risposta gli viene raccontato l’ultimo sketch comico di Al Schacht, il trucco della colomba.

    Berg viene evocato persino in occasione di un articolo sull’hockey su ghiaccio del 31 gennaio 1939. Kieran si scopre molto confuso riguardo a un goal controverso e «quest’osservatore perplesso è determinato a rivolgersi a un avvocato. Per pura fortuna, il Professor Moe Berg era assorto in una conversazione con un gentiluomo di lettere, tale Mr Percy Waxman… Sia messo agli atti che il Professor Berg, ricevitore dei Red Sox che scende in campo solo nella seconda parte dei doppi incontri, ma non se quel giorno fa particolarmente caldo, è un avvocato iscritto all’albo, competente in quest’area»¹⁶.

    Kieran riassume la controversa questione del goal così: «Per me è sanscrito, ha mormorato Mr Waxman. Il che mi ricorda, ha commentato il Professor Berg», che a quel punto si lancia in una prolissa discussione sulle radici del sanscrito, con tanto di riferimenti alla Stele di Rosetta e ai geroglifici egizi, finché Kieran non lo interrompe con un’altra stoccata alle sue capacità professionali.

    «Molto interessante, ma non ha niente a che vedere con i fiori che sbocciano in primavera o con la decisione sommaria di estromettere dall’incarico un giudice di porta di una partita di hockey. Il Professor Berg era, si diceva, un asso della League durante l’estate. Aveva una divisa e gli era concesso di viaggiare con la squadra».

    Imperterrito, nell’arco dei paragrafi seguenti, Berg spiega che il vocabolo league ha la stessa radice latina della parola legatura e discute delle radici basche, magiare e ugro-finniche della dizione moderna e spiega che le isole Canarie non prendono il nome dai canarini, ma «in realtà sarebbero le isole dei cani, dalla parola latina canis» e butta lì anche il filologo tedesco Jacob Grimm. La controversa questione del goal rimane irrisolta.

    Il Professor Berg si rivelò irresistibile per molti giornalisti sportivi, e anche se nessuno lo omaggiò con una prosa arguta quanto quella di Kieran, il Berg che apparve nelle rubriche e nei servizi speciali in tutto il Paese durante la sua vita e anche dopo fu un personaggio coerente e riconoscibile.

    Berg era un lettore vorace e ai giornalisti, ovviamente, questo aspetto piaceva, soprattutto quando adocchiavano i volumi che si portava dietro per tutta l’American League in aggiunta ai loro giornali. «Che libro è?», gli fu chiesto un giorno da un giornalista, al circolo dei Washington Senators. «Oh, solo una cosina che ho preso in Inghilterra», rispose lui con nonchalance, lanciando il volume su un tavolo lì accanto. «Non è una lettura molto profonda, ma è interessante», aggiunse poi con aria critica. Il titolo del volume era Società primitiva e diritto antico¹⁷.

    A Berg piaceva anche parlare, e in tante lingue per di più, ulteriore fonte inesauribile di gioia per gli editorialisti. Movius Berg homo eruditissimus est / Dal dono delle lingue benedetto è, fu il titolo dell’editoriale¹⁸ di John Drohan del 23 maggio 1935 sul «Boston Traveler», un sermone canzonatorio che accusava Berg di «essere troppo istruito».

    «Nessuno può esserlo troppo, ha risposto l’illustre Berg, mentre sudava sulla panchina dei Red Sox». Drohan allora si impegnò a indagare per scoprire quando il troppo stroppia. «Avendo studiato le boccette di profumo, abbiamo deciso di mettere alla prova il nostro francese con lui.

    Comment vous portez-vous?

    Ça va bien, merci, ha risposto Berg. (Forse ci stava insultando, non potevamo saperlo)». Dopo che Berg ebbe passato un test altrettanto difficile in spagnolo, Drohan chiese all’esterno Edmund Bing Miller di «dare un taglio a queste stupidaggini propinandogli un assaggio di tedesco dell’Iowa, borbottando: Wie geht es Ihnen?».

    «Senza nemmeno batter ciglio, Berg ha risposto: Sehr gut, mein Herr…». Drohan aggiunse ungherese e italiano al conteggio, prima di confidare che il giocatore che alcuni suoi compagni chiamavano Lingwee adesso stava studiando il gaelico. Secondo lui non ci avrebbe messo molto, se si prendeva come esempio l’avventura con il giapponese; durante il suo viaggio in Giappone dell’anno precedente, Berg «imparò l’idioma locale così bene nel giro di tre settimane, da riuscire a parlare come un autoctono». Le altre rivelazioni di Drohan compresero il livello del suo greco nelle conversazioni – era una meraviglia nei bar – la preferenza di Berg per il baseball rispetto al suo lavoro di avvocato (quando non giocava) «presso uno dei maggiori studi della bassa Manhattan», una passione per il cinema e la fissa dei viaggi; Berg era appena stato in Russia, dove era stato arrestato sei volte nel giro di poche settimane per aver effettuato delle riprese senza permesso.

    Berg trascorreva i pomeriggi estivi al campo da baseball, ma certe volte spuntava in altri posti. Nel «Philadelphia Bulletin» del 17 dicembre 1938¹⁹, Frank Yeutter lo descrisse come un uomo a proprio agio con gli aristocratici così come con gli interni²⁰. «L’altra sera a New York, mentre a migliaia aspettavano di ascoltare Anthony Eden, ex ministro degli Esteri britannico, tenere un discorso sugli affari esteri, poco dopo il suo arrivo, l’azzimato diplomatico inglese stava chiacchierando con un giocatore di baseball. Quel giocatore era Morris Berg, dei Boston Red Sox, meglio noto come Moe, laureato di Princeton, che ha proseguito gli studi alla Sorbona di Parigi e a Heidelberg in Germania. Il punto forte di Moe sono le lingue orientali, che legge per hobby. Mentre Mr Eden si stava sistemando la cravatta bianca, Moe poltriva su una sedia della stanza, discutendo di alcune forme verbali sanscrite». Perché mai si trovasse nella stanza di Eden rimane un mistero.

    Nel 1938 Berg apparve sotto una nuova luce e fu tutto merito di Kieran. Kieran era uno degli ospiti abituali del popolare programma radiofonico Information, Please!, il quiz degli intellettuali. Il critico letterario del «New Yorker» Clifton Fadiman cercava di cogliere in fallo un gruppo di uomini molto istruiti– Kieran, Franklin P. Adams, Oscar Levant e un ospite speciale – con domande su argomenti astrusi inviate dal pubblico in ascolto. Su suggerimento di Kieran, Berg fece la sua apparizione come ospite agli inizi del 1938. E fece un’ottima figura. La stampa sportiva andò in visibilio e Berg trascorse gran parte di quell’estate seduto in panchina a rispondere a domande di cultura generale. Le trascrizioni di quelle sessioni, manco a dirlo, divennero materia di editoriali.

    Nel 1942 Berg smise all’improvviso di giocare con i Red Sox e accettò una posizione offertagli da Nelson Rockefeller: coordinatore dell’Ufficio degli Affari inter-americani (

    OIAA

    ). L’

    OIAA

    si occupò di mantenere relazioni amichevoli tra gli Stati Uniti e l’America centro-meridionale negli anni della seconda guerra mondiale. Berg doveva diventare un ambasciatore delle buone intenzioni. Sulle pagine sportive da Chattanooga a New York, baseball e ingegno si combinarono trionfalmente al fanatismo nazionalistico. Su una rubrica dal titolo I Dodgers festeggiano alla notizia che il loro cervellone si unisce allo Zio Sam, Joe Williams del «New York World Telegram» scrisse che «non è un titolo vuoto di significato o un incarico fine a se stesso; è un lavoro che Moe Berg, ricevitore navigato, è in grado di svolgere con altrettanta competenza e diplomazia di qualsiasi altro uomo nel Paese»²¹.

    Berg trascorse la prima parte del 1943 a lavorare per Rockefeller, prima di entrare nell’

    OSS

    . Fece ritorno a Newark nel 1946 e per i successivi venticinque anni fu un habitué dei campi di baseball di New York, dove guardò parecchie dozzine di incontri durante l’estate, spesso restando seduto nella tribuna stampa. Nessuno sapeva davvero cosa facesse per vivere. Per essere uno così bravo a raccontare, rimase sempre molto riservato. C’era qualcosa di inaccessibile in lui; la gente percepiva di trovarsi di fronte a qualcuno che non si lasciava raggirare. Persuadere l’uomo dal completo nero, come lo definiva Francis Stann del «Washington Star», non avrebbe comunque funzionato. In risposta a chi osava dar voce ai propri quesiti sul suo lavoro all’

    OSS

    o sulla sua vita dopo il baseball, Berg si limitava a portarsi un dito alle labbra e a invitare sibilando al silenzio. La maggior parte delle persone non indagava, comunque. Circolavano voci che fosse un agente della

    CIA

    , e qualunque sciocco sapeva che discutere di quel genere di cose era verboten.

    Parlare di baseball era un altro paio di maniche; Berg non se ne stancava mai. Così per i giornalisti sportivi rimase un popolare argomento di discussione, per i soliti motivi. Quando, per esempio, un giornalista della United Press International gli chiese di George Scott, mastodontico esordiente dei Red Sox nel 1966, Berg rispose: «Credo che gli imprenditori edili che sostituiranno le pareti che abbatterà con la forza delle sue battute faranno una fortuna». Berg, scrisse il giornalista della

    UPI

    , conosce il sanscrito, ma «si diverte molto di più con George Scott il Grande»²².

    Di certo la lettura era estremamente piacevole e c’era un fondo di verità in ogni storia, ma l’allegro mondo del Professor Berg era in definitiva posticcio. Non era più un uomo, ma una caricatura su vasta scala. A Berg in realtà non importava; anzi, incoraggiava la farsa e orchestrava la creazione di questa brillante manipolazione della realtà. Nascondendosi dietro le bizzarre avventure del Professor Berg, fece in modo di occultare scrupolosamente il vero Moe Berg. Dietro quelle messe in scena c’era qualcosa di ben diverso; la sua vita era fatta di continue stranezze, il suo mondo segreto era affascinante e famigerato, vivido e inquietante, splendido e triste. E, a differenza della sua caricatura, era pieno di ambiguità.

    ⁹ Cfr. Jerome Holtzman (a cura di), No Cheering in the Press Box, Holt, Rinehart and Winston, New York 1973, pp. 34-46. Intervista telefonica e corrispondenza con Margaret Ford Kieran.

    ¹⁰ Damon Runyon, «New York Journal American», 27 ottobre 1956.

    ¹¹ John Kieran, An Obscure Baseball Item, «New York Times», 8 dicembre 1938. La mia raccolta di ritagli di Kieran proviene dalla biblioteca del «New York Times». Kieran scrisse molti altri articoli relativi a Berg per il «New York Times» di cui potrei parlare e i lettori che andranno a cercarli non resteranno delusi. Alcuni dei miei preferiti sono: Barrister Berg Examines a Witness, 16 giugno 1931; A Baseball Barrage, 7 febbraio 1936; Night Life in the Big Leagues, 14 febbraio 1940; e Rain-Maker for Rent, 17 settembre 1942.

    ¹² John Kieran, When the Bookworm Returned, «New York Times», 27 gennaio 1938.

    ¹³ Cfr. Ring Lardner, You Know Me, Al, Vintage Books, New York 1984.

    ¹⁴ Chi sfonda nella Major League da una lega minore. (n.d.t.)

    ¹⁵ John Kieran, What a Catcher Thinks About, «New York Times», 13 settembre 1937.

    ¹⁶ Id., It Must Be Catching, «New York Times», 31 gennaio 1939.

    ¹⁷ Questo ritaglio è privo di intestazione e mi è stato dato da Joel Barr. Ho tantissimi ritagli del genere sul Professor Berg. Tra questi: Dr. Berg, Backstop, «American Mercury», maggio 1940; He Can Talk Baseball in Ten Languages, «Baseball»; e John Drohan, Professor Berg Inspects Fenway, 30 gennaio 1940. Molti di questi ritagli provengono da collezioni private, compresa quella dello stesso Berg, e sono privi di intestazione e informazioni sulla pubblicazione.

    ¹⁸ John Drohan, «Boston Traveler», 23 maggio 1935.

    ¹⁹ Frank Yeutter, «Philadelphia Bulletin», 17 dicembre 1938.

    ²⁰ Nel baseball gli interni sono prima, seconda, terza base e interbase. (n.d.t)

    ²¹ Joe Williams, «New York World Telegram». Va fatto notare che moltissimi degli articoli di giornale su Berg furono conservati da Berg stesso e ritagliati in modo tale da rendere impossibile una completa identificazione per scopi di attribuzione.

    ²² United Press International, «Newark News», 22 maggio 1966.

    2

    La gioventù: Runt Wolfe

    Quando Bernard Berg si lasciò alle spalle il piccolo villaggio ucraino di Kippinya nel 1894, dirigendosi a ovest, di certo mirava alla ricchezza, ma è anche vero che era in fuga. Non fu facile per il giovane ed esile ragioniere dai folti baffi e dagli occhi castano scuro separarsi da Rose Tashker. Rose abitava in un villaggio vicino nella regione di Kamenec-Podolskij, lungo il corso del fiume Bug, non molto distante dalla Romania. Suo padre lavorava come ragioniere per un certo principe Krapinsky, che possedeva una distilleria di vodka e altre proprietà immobiliari in zona. Rose era bella, dolce e aveva acconsentito a sposare Bernard. Per tutta la sua vita, però, Bernard Berg aveva stemperato con il suo spirito etico qualsiasi conflitto emotivo, e abbandonare Kippinya fu una decisione dettata dalla morale. La cittadina era interamente abitata da ebrei; era un luogo in cui le leggi e le superstizioni dell’ebraismo est-europeo permeavano ogni momento della giornata di un individuo. Bernard Berg non poteva tollerare un asservimento così totale alla fede. Ciò che per gli altri era un incentivo e un motivo di conforto, per lui era solo un peso e così, promettendo a Rose che l’avrebbe mandata a prendere una volta sistematosi, si lasciò Kippinya alle spalle²³. Un’altra delle virtù di Rose era la pazienza: ci sarebbero voluti due anni prima che rivedesse di nuovo Bernard.

    L’uomo andò dapprima negli Stati Uniti, ma ciò che vide non gli piacque, così andò in Inghilterra, perché aveva sentito dire che si garantiva la cittadinanza a chiunque si fosse offerto volontario per prestare servizio nelle guerre boere. Quando arrivò a Londra, però, gli fu detto che era troppo tardi: l’offerta era stata revocata quattro giorni prima. Così Bernard andò al porto, trovò un mercantile diretto a New York e si imbarcò, guadagnandosi un passaggio attraverso l’Atlantico spalando carbone in sala macchine.

    A New York, Bernard iniziò a lavorare come stiratore presso una lavanderia di Ludlow Street, nel Lower East Side di Manhattan²⁴. Come la maggior parte delle strade del quartiere, Ludlow era uno stretto vicolo fiancheggiato da condomini senza ascensore e da scuderie. Piccoli negozietti che vendevano di tutto, da matzo appena sfornato ad aringhe sotto sale, invadevano i marciapiedi, mentre una confusione di carretti, cavalli e imbonitori, che cercavano di fare affari in un sonoro yiddish, intasava la strada. Era New York, ma era anche molto familiare. Bernard non aveva alcuna intenzione di restare nel ghetto ebraico e iniziò a mettere da parte dei soldi. Quando Rose lo raggiunse nel 1896, aveva avviato la sua lavanderia e prendeva lezioni serali al New York College of Pharmacy²⁵. Durante il giorno apriva i libri di testo su un asse per il bucato mentre passava il pesante ferro da stiro nero sulle camicie. Bernard apprendeva senza alcuno sforzo apparente. Prima di arrivare a New York, aveva imparato da autodidatta a leggere inglese, francese e tedesco, perciò compresi yiddish, ebraico e russo, conosceva ben sei lingue. Non appena si era sistemato a New York, aveva appreso in fretta a parlare un inglese accettabile. Da quel punto in poi fece del suo meglio per non dover mai più parlare yiddish e lo proibì persino in casa propria²⁶.

    Tra il 1898 e il 1902 Rose e Bernard ebbero tre figli: per primo un maschio, Samuel, nato in una stanza sul retro della lavanderia; poi nel 1900 una femmina, Ethel, e infine un altro maschio, Morris, due anni più tardi. A quel punto ormai Bernard aveva venduto la lavanderia e aveva iniziato a lavorare come commesso in una farmacia dei quartieri alti. La famiglia si era trasferita a nord, in un caseggiato senz’acqua calda non lontano dal Polo Grounds, sulla Centoventunesima di Harlem, prima del 2 marzo 1902, quando era nato Morris. Fu subito soprannominato Moe e il nomignolo gli rimase; un diminutivo che fin dal principio contraddisse la sua corporatura robusta: Moe infatti pesava 5,4 chili.

    Rose Berg lavorava magnificamente all’uncinetto, trascorrendo giornate intere su pezzi che venivano poi esposti nei musei. Il figlio più giovane non era provvisto della stessa pazienza e sapeva essere capriccioso. All’età di tre anni e mezzo supplicò la madre di lasciarlo andare a scuola «come Sam e Eth». La zia Sophie origliò la conversazione: «Vestilo e mandalo a scuola», disse alla cognata. Moe indossò il suo completino coi pantaloncini, la camicia bianca con il colletto alto inamidato, le calze e le scarpe di cuoio allacciate fino al polpaccio. La madre ci mise parecchio a stringere quei lacci, ma una volta finito, ecco che Moe era pronto per andare²⁷.

    Nel 1906, Bernard aveva comprato una farmacia su Warren Street nella zona occidentale di Newark, che gestì fino al 1910; poi acquistò un edificio al 92 della Tredicesima sud, all’angolo con la Nona Avenue; era il quartiere Roseville di Newark, non troppo lontano da West Orange e molto vicino alla nozione di perfezione di Bernard: Roseville era dotato di buone scuole, abitato dal ceto medio e praticamente privo di ebrei. Lui avrebbe lavorato lì e la famiglia si sarebbe sistemata in un appartamento sopra la farmacia, fino alla sua morte.

    Quando i Berg arrivarono a Newark, il posto era in fermento. «La città di Newark sta attraversando la fase di cambiamento più sorprendente della sua storia»²⁸, sentenziò il sindaco Henry M. Doremus nel suo discorso del 1907 alla città. Tra il 1870 e il 1910, 250.000 immigrati tra cui quarantamila ebrei – o giudei, come li definiva il Board of Trade – si riversarono nella cosiddetta «fucina della nazione»²⁹, portando lo storico della città Frank John Urquhart a commentare nel 1913 che «sarebbe sorprendente se poco più di un centinaio di persone a Newark riuscisse a far risalire il proprio lignaggio ai fondatori della citt໳⁰. Per primi erano arrivati tedeschi e irlandesi, seguiti da italiani, ungheresi, romeni, polacchi e russi³¹. «Qui gli abitanti di ogni Paese del mondo hanno trovato e stanno trovando una casa congeniale»³², dichiarava un opuscolo pubblicato dalla città. Se c’era qualcosa di davvero congeniale nella vita dei quartieri dei duri e caparbi immigrati, dove il tanfo del fiume Passaic aleggiava sulle strade brulicanti di persone, era l’abbondanza di posti di lavoro. La Newark dell’anteguerra, città di non più di 350.000 abitanti, aveva oltre 2.200 fabbriche, diciassette chilometri di pontili industriali, quattordici scali merci e ambiziosi progetti di opere pubbliche, compresi tunnel ferroviari sotto il fiume Hudson fino a Manhattan, parchi, ospedali, strade asfaltate, luci a gas, linee del tram, diciannove nuove scuole tra il 1908 e il 1912 e persino, nel 1909, un museo cittadino³³.

    Era anche una città di quartieri a sé stanti³⁴. La maggior parte dei 21.000 russi immigrati di recente a Newark affollava Prince Street, la versione cittadina della famosa Hester Street di New York, ma Bernard Berg non sentiva più il bisogno della ventata del vecchio mondo che tratteneva così tanti immigrati nei bassifondi. Trasferendosi nel quartiere cristiano e borghese di Roseville stava rinunciando al proprio passato e assaporando l’autodeterminazione che era andato cercando in America. I Berg non erano benestanti e non lo sarebbero mai stati, eppure senza dubbio Bernard ne aveva elevato lo status.

    Un tempo noto come Boiling Spring, fonte ribollente, Roseville fu rinominato grazie a James Rowe, un testardo produttore caseario irlandese che si rifiutò di vendere il suo terreno alla città finché qualcuno non pensò di solleticare la sua vanità con la toponomastica. Nei primi decenni del

    XX

    secolo, Roseville divenne un quartiere grazioso. Le persone andavano a lavorare, mantenevano curate le loro proprietà e la sera si sedevano sulle scalinate d’ingresso, a parlare con la famiglia. Come proprietario di una farmacia, Bernard era allo stesso tempo farmacista e medico. I clienti erano soliti entrare in negozio e descrivere i sintomi propri o dei loro figli; se la situazione sembrava seria, il consiglio era di rivolgersi a un medico, altrimenti Bernard si occupava personalmente dei disturbi. Per la costipazione, aggiungeva un cucchiaino di olio di ricino in una bevanda frizzante a base di radici, con la prescrizione di berlo tutto e andare di filato a casa senza soste lungo la via. Qualora fosse stata presentata una ricetta, andava nel retro del negozio e macinava il composto nel suo mortaio con un pestello. Con il tempo, le persone arrivarono a fidarsi di lui e la farmacia prosperò al punto da diventare il centro di aggregazione del quartiere. Le donne sedevano a spettegolare sulla lunga panchina accanto all’ingresso, i ragazzi mangiavano banana split ed egg cream al distributore di bibite gassate e i bambini entravano per le caramelle, slacciandosi le scarpe di cuoio per pescare le monete dai calzini. C’era una bilancia dove ci si poteva pesare, ed esposti in vendita c’erano cosmetici e materiale scolastico; c’era poi una cabina telefonica in legno.

    Bernard lavorava quindici ore al giorno, sette giorni la settimana. La sua famiglia comunicava con lui dall’appartamento al piano di sopra attraverso un tubo acustico. Quando non doveva cucinare, portare il pranzo a Bernard al piano di sotto, fare il bucato o spazzare i pavimenti immacolati, Rose stava seduta dietro il bancone del negozio, dando i resti e lavorando all’uncinetto. Era opinione diffusa che i Berg fossero un po’ strani. Si vociferava che Bernard fosse semi-comunista e alcuni si interrogavano sul perché una famiglia ebrea non visitasse mai la sinagoga. Eppure piacevano a tutti, soprattutto perché spesso Berg non faceva pagare le ricette alle famiglie povere.

    «Erano così gentili e disponibili», ha ricordato Eugenia O’Connor, che crebbe comprando gelati a due centesimi dai Berg. «Erano persone del vecchio mondo oltreoceano, che sembravano veramente grate di trovarsi qui. Cercavano di essere americani, di inserirsi. Non erano avidi».

    No, non lo erano. Erano ambiziosi. Se Bernard avesse fatto lavorare i figli per lui, si sarebbe potuto pensare a un uomo interessato a fare lucrosi guadagni; invece non lo fece. Al contrario, li incoraggiò a studiare. Le uniche volte in cui a un bambino dei Berg si chiedeva di passare del tempo in farmacia, erano gli occasionali intervalli in cui Sam tirava fuori la sua armonica. Quando succedeva, veniva spedito al piano di sotto a suonare dentro la cabina telefonica di legno³⁵.

    Le pagelle³⁶ che Berg portò a casa della scuola pubblica sull’Ottava evidenziarono il fatto che era stonato. Ma i genitori potevano sorvolare su questa sua piccola mancanza, perché per il resto era uno studente impeccabile. Apprendeva senza sforzo e ricordava tutto. Moe Berg aveva una memoria fotografica. Nei giorni in cui si trovavano di fronte una classe poco collaborativa, gli insegnanti di Berg

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1