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Insieme per amore
Insieme per amore
Insieme per amore
E-book429 pagine5 ore

Insieme per amore

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Info su questo ebook

The Club Series

Mezzo milione di copie vendute negli Stati Uniti
Dall’autrice bestseller di USA Today e New York Times. La serie più bollente che è diventata un successo internazionale

«Non c’è mai stato un amore come il nostro e non ce ne sarà mai un altro. La nostra è la più grande storia d’amore mai raccontata. I nostri sentimenti sono puri e autentici. Il nostro amore è così puro e vero che siamo il diletto degli dèi».
Jonas Faraday continua a lottare contro i suoi demoni personali, ma non è più solo nella sua battaglia. Accanto a lui ora c’è Sarah e non può rischiare di perderla. Giungerà mai per Jonas il momento della redenzione?

«Stupendo… grazie Lauren per le emozioni che mi hai fatto provare. Mi hai conquistato fin dall’inizio.»

«Un bel mix di adrenalina, suspense, amore, amicizia e sesso selvaggio. Un ottimo epilogo per una trilogia arrivata da oltre oceano, molto affascinante, convincente e romantica.»

«Una trilogia perfetta e unica. Ho adorato la storia di Jonas e Sarah dall’inizio alla fine, senza un minimo dettaglio fuori posto, con lo stile inconfondibile dell’autrice che ci ha regalato un romanzo intenso, ricco di suspense, di lacrime, di follia, di divertimento e di passione.»

«La giusta conclusione per una storia di gioco, passione e amore. La trama ti trascina nel mondo di Jonas e Sarah e ti coinvolge… Che dire? Assolutamente consigliato per chi ama il genere!»
Lauren Rowe
è lo pseudonimo di una poliedrica autrice bestseller di USA Today, artista e cantante che ha deciso di liberare il proprio alter ego per scrivere The Club Series senza alcuna autocensura. Lauren Rowe vive a San Diego, California, con la sua famiglia. La Newton Compton ha pubblicato Insieme per gioco, Insieme per passione e Insieme per amore..
LinguaItaliano
Data di uscita20 nov 2015
ISBN9788854189379
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    Anteprima del libro

    Insieme per amore - Lauren Rowe

    1107

    Titolo originale: The Redemption

    Copyright © 2015 by Lauren Rowe

    Traduzione dall’inglese di Cecilia Pirovano

    Prima edizione ebook: febbraio 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8937-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Lauren Rowe

    Insieme per amore

    The Club Series

    Capitolo uno

    Jonas

    Voglio tenerla tra le mie braccia, ma me la strappano via. Incespico all’indietro, con gli occhi sgranati. Abbasso lo sguardo sulla mia maglietta. È intrisa del suo sangue. C’è tantissimo sangue. È dappertutto.

    «Non ha battito», dice un uomo, tastandole il polso. Sposta le dita sul collo. «Niente». Aggrotta la fronte. «Maledizione. Le hanno reciso la carotide di netto. Per essere sicuri… Dio». Scuote la testa.

    «Che razza di animale…», commenta l’altro, ma poi si zittisce e mi lancia un’occhiata. «Fallo uscire da qui. Non dovrebbe vedere».

    Questi due uomini indossano un’uniforme come quella dei pompieri… ma secondo me non sono pompieri, perché non c’è nessun incendio.

    «Il corpo è già freddo. Direi quindici, venti minuti buoni».

    «Ti amo, mamma», le ho detto. Ma lei non mi ha risposto. È stata la prima volta che è successo. Quando glielo dico, lei dovrebbe rispondere: «Ti amo anch’io, bambino mio. Mio prezioso bambino». È così che mi dice sempre. «Ti amo, bambino mio. Mio prezioso bambino». Perché stavolta non l’ha fatto? E perché non mi guarda? Tiene lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Allora guardo anch’io fuori dalla finestra. Davanti casa c’è un’ambulanza. La sirena lampeggia ma non suona.

    Ne sento alcune in lontananza, però. Si stanno avvicinando. Di solito mi piace sentire le sirene, soprattutto quando si avvicinano. Mi piace quando una macchina della polizia insegue un cattivo o un grosso camion rosso dei pompieri ci supera sfrecciando. La mamma dice che se senti una sirena devi accostare. «Eccoli che vanno a salvare la situazione!», canticchia sempre quando passano. Ma oggi no.

    Oggi non mi piace sentire le sirene.

    Vado in un angolo della stanza. Mi siedo per terra e ondeggio avanti e indietro. Le ho detto che la amo, ma lei non mi ha risposto. E adesso non mi guarda nemmeno. Fissa fuori dalla finestra. Non sbatte neanche le palpebre. È furiosa con me perché non l’ho salvata.

    «È la tua mamma, ragazzino?», mi chiede il primo uomo, chino su di me.

    La mia voce non funziona.

    Sì, è la mia mamma.

    «C’era qualcun altro in casa oltre a voi due?».

    Volevo stare da solo con lei. La volevo tutta per me. Volevo far sparire il dolore. Sono stato cattivo.

    «Siamo qui per aiutarti, piccolo. Non ti faremo del male. Siamo paramedici. Sta arrivando anche la polizia».

    Deglutisco a fatica.

    Sono rimasto nell’armadio perché pensavo di usare le mie mani magiche quando quell’omone se ne sarebbe andato via, ma la magia non ha funzionato. Non so perché. Sono stato cattivo.

    «Come ti chiami, piccolo?»

    «Portalo via di qui», ripete l’altro uomo. «Non dovrebbe vedere».

    Con un cenno della mano, il paramedico chino su di me zittisce il collega. «Sei sporco di sangue, ragazzino», dice piano. «Devo assicurarmi che non sia tuo. Qualcuno ti ha fatto del male?».

    Mi prende una mano, ma io la libero con uno strattone e corro da lei. Mi butto sul suo corpo. Non mi interessa se mi sporco ancora di più di sangue. La stringo con tutta la forza che ho. Non possono costringermi a lasciarla. Magari, se mi impegno, le mie mani magiche ricominceranno a funzionare; magari prima non mi sono adoperato abbastanza. E magari, se la mia magia ricomincerà a funzionare, lei la smetterà di guardare fuori dalla finestra. Magari se le ripeto tante volte «Ti amo, mamma», la magia funzionerà ancora e lei finalmente sbatterà di nuovo le palpebre e mi dirà: «Ti amo anch’io, bambino mio. Mio prezioso bambino».

    Sono sdraiato nel mio letto, con le lenzuola con le palle da baseball. Josh è in quello di fianco al mio, con le lenzuola con i palloni da calcio. Di solito fa una scenata se non gli danno quelle con le palle da baseball, ma questa volta me le ha lasciate senza storie. «Puoi averle tu ogni notte, se vuoi», ha detto. «D’ora in avanti, puoi scegliere tu per primo».

    Una settimana fa, sarei stato contento di questa faccenda. Ma adesso non mi interessa più. Non mi interessa più niente. Non mi interessa più nemmeno parlare. È passata una settimana da quando la mamma se n’è andata per sempre e da allora io non ho detto una sola parola. Le ultime uscite dalla mia bocca sono state: «Ti amo, mamma», mentre la abbracciavo, la baciavo e la toccavo con le mie mani magiche che non sono più magiche; allora ho deciso che quelle sarebbero state le ultime che avrei mai pronunciato. Anche quando il poliziotto mi ha chiesto com’era quell’omone, io non ho detto niente. Anche quando ho sentito papà che piangeva nel suo studio, io non ho detto niente. Anche quando ho sognato l’omone che accoltellava la mamma e mi inseguiva, io non ho detto niente. Anche quando ieri sera papà ha affermato che la polizia ha scoperto che è stato il fidanzato della sorella di Mariela a far andare via per sempre la mamma, e l’ho sentito aggiungere al telefono allo zio William: «Lo ammazzo quel figlio di puttana», io non ho detto niente.

    Mi metto a sedere.

    Sento la voce di Mariela al piano di sotto, all’ingresso. So che viene da lì perché rimbomba forte e quello è l’unico posto in tutta la casa in cui le voci diventano grosse e risuonano così tanto, soprattutto una dolce come quella di Mariela.

    Guardo Josh. Dorme profondamente. Dovrei svegliarlo per salutare Mariela? No, Mariela è mia. Sono io che me ne sto seduto in cucina a parlarle mentre lei ci prepara piatti venezuelani. Sono io che la aiuto a lavare le pentole e la ascolto cantare le sue belle canzoni in spagnolo. Mi piace quando immerge le mani nell’acqua con il detersivo e poi le tira fuori e la sua pelle scura, bagnata e lucida mi ricorda il caramello sul gelato. Mariela ha una pelle così morbida, liscia e bella che a volte, quando canta, io le tocco il braccio con le punte delle dita, chiudo gli occhi e glielo accarezzo piano. Anche i suoi occhi sono belli, color cioccolato. Mi piace vederli brillare quando mi passa una pentola da asciugare o quando canta per me.

    «Señor, por favor!», strilla Mariela al piano di sotto.

    Salto fuori dal letto ed esco di corsa dalla mia stanza. È la prima volta che mi alzo dal letto da quando la mamma se n’è andata per sempre. Ho le gambe rigide e indolenzite. Mi fa male la testa. Mi ero prefisso di non scendere più dal letto, ma voglio vedere la mia Mariela. Anche se ho fatto quella promessa, magari posso darmi una nuova regola per cui mi è permesso alzarmi solo per vedere lei. Mi lancio sulle scale il più in fretta possibile. Non vedo l’ora di sentire la sua voce che mi chiama Jonasito o mi canta una delle sue belle canzoni.

    Ma poi sento mio padre e mi blocco a metà scala.

    «Vattene», le dice, con voce cattiva. «Altrimenti chiamo la polizia».

    «No, señor! Por favor», grida lei. «Dios bendiga a la señora. Por favor, déjeme ver a mis bebes. Los quiero». Mi lasci vedere i miei bambini. Gli voglio bene.

    «Sei stata tu a dire a quel figlio di puttana che saremmo andati alla partita… È come se l’avessi uccisa tu».

    Mariela strilla fortissimo. «No, señor! Ay, Dios mio, señor. No sabía! Lo juro por Dios». Si sforza di usare l’inglese. «La prego, señor. Voglio bene ai bambini, son como mis hijos». Sono come figli miei. «Señor, por favor. Esta es mi familia». È la mia famiglia.

    «Vattene», urla papà. «Togliti dal cazzo».

    Quando papà ha la voce così arrabbiata, soprattutto quando grida contro la mamma o Mariela, è meglio stargli alla larga. Ma non mi interessa. Voglio vedere la mia Mariela.

    Arrivo in fondo alle scale, attraverso l’ingresso e vado dritto tra le sue braccia.

    Non appena mi vede, lei si lascia scappare un urletto e mi abbraccia. Mi stringe così forte che non riesco a respirare. Per la prima volta da quando la mamma se n’è andata, parlo. «Te quiero, Mariela». Ho la voce stridula.

    «Ay, mi hijo», dice lei. «Pobrecito, Jonasito. Te quiero».

    Volevo che le mie ultime parole fossero: «Ti amo, mamma», ma parlare in spagnolo con Mariela non conta come parlare, anche se le dico che la amo, perché lo spagnolo non è vero. È solo la lingua segreta che uso con lei, per gioco. Nemmeno papà capisce la nostra lingua segreta e lui è l’uomo più intelligente del mondo, quindi, anche se parlo con Mariela, anche se le dico che la amo – in spagnolo però – non infrango mica la mia regola.

    Mio padre strilla a Mariela di andarsene.

    Io le afferro la gonna. «No me dejes, Mariela». Non lasciarmi.

    «Te quiero, Jonasito». Mariela piange tantissimo. «Te quiero siempre, pobrecito bebe». Ti amerò per sempre.

    «No me dejes, Mariela».

    «Mariela?». È Josh. Deve aver sentito la sua voce e si è svegliato. Corre ad abbracciarla.

    Lei si inginocchia e lo cinge con un braccio, mentre io le stringo le spalle.

    «Te quiero», dice a Josh. «Te quiero, bebe».

    Josh capisce la mia lingua segreta con Mariela, ma non la parla tanto bene. «Ti amo anch’io», dice tra le lacrime.

    «È ora di andare», dice papà a Mariela, e prende il telefono. «Chiamo la polizia».

    Scossa dalle lacrime, Mariela prende il viso di Josh tra le mani (e la cosa mi fa arrabbiare un po’ perché vorrei che lo facesse a me). «Cuida a su hermanito», gli dice. «Sabes que él es lo sensitivo». Prenditi cura di tuo fratello. Lo sai che è più sensibile.

    «Okay, Mariela», dice Josh. «Lo farò».

    «Te quiero, Mariela», dico io, aggrappato alla sua gonna. «No me dejes».

    «Oh, Jonasito», dice lei. «Te quiero, bebe».

    Fa per abbracciarmi, ma mio padre la strappa via da me e la trascina alla porta. Io lo imploro di farla restare con me. Urlo il suo nome. Le dico che la amo. Piango. Ma nonostante tutto quello che dico e faccio, papà manda via la mia Mariela per sempre.

    Capitolo due

    Jonas

    È così pallida.

    «Pressione novanta su cinquanta», dice uno dei paramedici. Le stanno tutti intorno e mi tagliano fuori. Nel retro dell’ambulanza c’è poco spazio, quindi me ne sto seduto ai suoi piedi e le stringo una caviglia.

    «Come si chiama?», mi chiede l’uomo.

    Vedo la sua bocca che si muove e sento le sue parole, ma non riesco a parlare. Ho promesso di proteggerla. Le ho promesso che non avrei mai permesso che le succedesse qualcosa. E invece me ne stavo seduto in quell’aula ad ascoltare la cazzo di musica sul portatile mentre lei era in bagno a combattere per la propria vita. Sto tremando.

    Un paramedico le preme qualcosa sul collo e dietro la testa, mentre un altro fa lo stesso sul costato. Le hanno attaccato una flebo.

    «Come si chiama?», mi chiede di nuovo.

    Vorrei rispondergli, ma la mia voce non funziona.

    «Quanti anni ha?».

    Deglutisco a fatica. Non permetterò ai chiari di luna di prendere di nuovo il sopravvento. Ora sono più forte. Sono diverso. Sarah ha bisogno di me.

    «Sarah Cruz. Ha ventiquattro anni».

    Lei geme e apre gli occhi.

    Il paramedico si sposta e io mi sporgo verso di lei, con il viso a pochi centimetri dal suo.

    Ha gli occhi spalancati, impauriti. Le scende una lacrima che le scorre lungo la tempia.

    «Jonas?», mi chiama. Parla in un sussurro lievissimo ma, a quell’unica parola a malapena udibile, la mia mente in bilico si allontana dall’orlo del baratro e va verso la luce, verso Sarah, verso la mia preziosa bambina. A quell’unica, debole parola, i chiari di luna si ritraggono in tutta fretta, come uno scarafaggio quando si accende la luce in cucina. A quell’unica parola di Sarah, la mia mente torna lucida.

    «Sono qui, piccola. Stiamo andando in ospedale. Andrà tutto bene».

    «La lezione inizia tra cinque minuti», dice lei. «Devo andare».

    «Sai come ti chiami?», le chiede l’uomo.

    Lei lo guarda con occhi assenti. «Jonas?»

    «Sono qui».

    «Stia indietro, signore».

    Ubbidisco. «Sono qui, piccola. Lasciali lavorare». Reprimo un singhiozzo.

    «Sai come ti chiami?», riprova il paramedico.

    Lei sgrana gli occhi.

    «Sai come ti chiami?».

    Non risponde. È pallida.

    Sento il cuore che mi batte con violenza contro la gabbia toracica.

    «Sai che giorno è oggi?», chiede ancora il paramedico.

    «C’è diritto costituzionale».

    «Sai dove ti trovi?»

    «Chi sei tu?», chiede lei.

    «Sono Michael, un paramedico. Ti stiamo portando in ospedale. Ti ricordi cos’è successo?».

    Sarah geme. «La lezione inizia tra cinque minuti. Lasciami andare». È legata alla barella.

    «Sta’ ferma, Sarah. Sei ferita. Devi stare ferma. Stiamo andando in ospedale. Digli come ti chiami».

    Lei mi guarda con aria assente. «Jonas?»

    «Sono qui, piccola».

    Scoppia in lacrime. «Non lasciarmi».

    «Non ti lascerò mai. Sono qui». Reprimo un altro singhiozzo. Ho promesso di proteggerla. Ho promesso che non le sarebbe successo nulla di male. «Non ti lascerò mai, piccola. Te lo prometto».

    L’ambulanza si ferma e il portellone posteriore si apre.

    Alcuni dottori si accalcano intorno a lei e la portano via. Corro dietro alla barella lungo il corridoio ma poi qualcuno mi blocca fuori da una porta.

    «Come si chiama?»

    «Sarah Cruz».

    «Età?»

    «Ventiquattro».

    «È allergica a qualche farmaco?»

    «Non me ne ha mai parlato».

    «Sa se ha preso qualche farmaco oggi? Qualsiasi cosa?».

    Scuoto la testa. «Niente».

    «Soffre di qualche patologia?».

    Scuoto di nuovo la testa. «No».

    «Lei è il marito?».

    Tremo tutto. «Sì».

    Cinque minuti – o cinque ore? – più tardi, finalmente un tizio mi si avvicina in sala d’attesa. «Stiamo facendo degli esami», mi dice. Indossa un camice e abbassa lo sguardo sulla mia maglietta.

    Lo imito. Sono imbrattato di sangue.

    «È ferito?».

    Scuoto la testa.

    «È il sangue della ragazza?».

    Annuisco.

    «Ora è cosciente e parla. Lei è Jonas?».

    Annuisco.

    «Continua a chiedere di lei». Mi rivolge un sorriso comprensivo. «Non appena sarà possibile, potrà tornare a stringerle la mano. Aspetti qui. Stiamo facendo degli esami per determinare la gravità delle ferite».

    Annuisco di nuovo.

    «Aspetti qui».

    Il dottore si allontana e io mi risiedo. Sto tremando. La mia mente non mi appartiene più. Più resto qui seduto, più sfreccia nello spazio. Ho promesso di tenerla al sicuro e ho fallito. Sto perdendo la ragione. Ho bisogno di Josh. Faccio per prendere il telefono dalla tasca ma non c’è. Dov’è? Non so il numero di Josh a memoria. Quando voglio parlargli, mi basta premere il tasto con il suo nome.

    La mia mente non mi appartiene più: avanza nello spazio a zig-zag, ondeggia e sbanda, facendo del proprio meglio per allontanarsi dai chiari di luna. E sta fallendo miseramente.

    Capitolo tre

    Jonas

    «Ti va di arrampicarti sull’albero?», mi chiede Josh.

    Io non rispondo, come al solito. Non ho più parlato da quando la mamma se n’è andata due mesi fa; nemmeno quando mi hanno mandato in quel brutto posto dopo che papà ha cacciato via Mariela. Non voglio più tornarci in quel brutto posto: mi mancavano Josh, la mamma, Mariela, papà e il mio letto morbido, e volevo solo tornare a casa. E quei dottori pensavano solo a farmi parlare di nuovo, anche se io non posso più farlo.

    Per tutto il tempo che sono stato in quel brutto posto ho sempre saputo che, se avessi fatto come volevano, se avessi detto qualsiasi cosa, mi avrebbero lasciato tornare a casa con Josh e papà. Ma non capivano che la mia bocca non può più dire niente, non da quando ho detto: «Ti amo, mamma», e lei non mi ha risposto.

    «Andiamo ad arrampicarci sull’albero come facevamo sempre», dice Josh.

    Quando ancora la mamma viveva a casa con noi, io e Josh ci arrampicavamo sul grande albero tutti i giorni, ma adesso che lei non c’è più non mi interessa arrampicarmi. Non mi interessa più niente. Vorrei solo andare in paradiso con lei.

    «Su», dice Josh, poi mi prende per mano e mi fa alzare dal letto.

    Vedendo che resto lì in piedi e non torno sotto le coperte, lui sorride e mi prende di nuovo per mano e mi trascina di sotto, attraverso la cucina, fuori dalla porta sul retro, in cortile, oltre il prato e fino al grande albero.

    «Dai, Jonas», mi dice. «Arrampichiamoci».

    Lui si mette all’opera, ma io resto ai piedi dell’albero e lo osservo per un paio di minuti. È molto più lento di me e sta sbagliando tutto. Oddio, vederlo arrampicarsi come un pesce è una tortura. La mamma diceva sempre: «Se giudichi un pesce da come si arrampica su un albero, sarà sempre un disastro. E allora perché non lo facciamo nuotare, quel povero pesciolino?». Be’, mi spiace ma è vero: Josh è un pesce del cavolo che cerca di salire su un albero. E allora mi arrampico anch’io, ma solo perché non ce la faccio più a guardare Josh il Pesce.

    Lo supero in men che non si dica e, una volta salito fino al punto più alto a cui è possibile arrivare, mi siedo ad aspettarlo e osservo il cielo. Quando finalmente mi raggiunge, Josh si siede e alza lo sguardo anche lui. Non so a cosa stia pensando, ma io nella mente mi immagino delle figure con le soffici nuvole bianche.

    «Sai cosa ho capito?», mi dice.

    Non rispondo.

    «Di giorno la mamma fluttua tra le nuvole, mentre di notte è tra le stelle. Quando vedi una stella che brilla, è lei che ci fa l’occhiolino e ci dice che è ora di andare a dormire».

    Non voglio parlarne e quindi comincio a scendere. Pensavo che le mie mani magiche avrebbero guarito la mamma, ma non hanno funzionato.

    Quasi ogni notte da quando la mamma se n’è andata, sogno l’omone con il culo peloso che la accoltella. A volte sogno che insegue anche me. Una volta, dopo il solito incubo, mi sono svegliato e mi sono ritrovato tra le braccia di Mariela che mi cantava una canzone in spagnolo, e mi sono messo a piangere a dirotto perché ero contentissimo di vederla, dato che mi mancava così tanto. Ma poi mi sono svegliato sul serio e Mariela non c’era. Non c’era nessuno oltre a quello stupido di Josh, che dormiva nel letto di fianco al mio e sbavava. Niente mamma. Niente Mariela. Solo Josh con il mento coperto di saliva.

    Continuo a scendere dall’albero. Le mie mani magiche non hanno funzionato. E non capisco come mai.

    Sento mio fratello che scende dietro di me, senza smettere di parlare della mamma. Ma io non voglio parlare mai più di lei, nemmeno con Josh. Mi fa pensare al sangue, così tanto che sembrava un oceano, e al culo di quell’uomo quando si è abbassato i pantaloni. Mi fa pensare all’espressione spaventata della mamma; però io non sono uscito dall’armadio per aiutarla. Perché sono stato cattivo.

    Josh balza a terra sull’erba accanto a me.

    «Prendiamo il pallone e facciamo qualche tiro», dice. Mi afferra la mano e fa per tirarmi verso il capanno dove teniamo gli attrezzi sportivi.

    La ritraggo.

    «Dai, Jonas», mi dice, ma io mi allontano a grandi passi. Mi segue. «Oppure possiamo fare qualche lancio a baseball, se vuoi… Possiamo fare tutto quello che vuoi. Scegli tu».

    Questa è nuova. Josh non mi lascia scegliere mai. Di solito è così prepotente. In realtà, mi andrebbe di scegliere, ma continuo comunque ad allontanarmi.

    Di punto in bianco, Josh mi placca. Cado sull’erba e lui si mette a cavalcioni su di me e mi prende a pugni nella pancia e poi sul braccio e in faccia. Io non rispondo ai suoi colpi. Voglio che mi picchi. Tutti dovrebbero picchiarmi. Sono stato cattivo. È colpa mia se la mamma se n’è andata. Forse, se mi picchia abbastanza forte, andrò in paradiso con lei. Non voglio più stare qui. Voglio stare con la mamma.

    «Perché non mi picchi anche tu?», chiede Josh. «Forza!», grida.

    Io resto sdraiato e mi lascio colpire. Mi metto a piangere, e anche Josh. Piange e mi picchia, mentre io piango e mi lascio picchiare. Dopo un minuto, la smette. Resta seduto sopra di me, con il fiatone e il viso rigato di lacrime e moccio.

    Non mi muovo. Vorrei che mi picchiasse ancora.

    Ci fissiamo l’un l’altro. Non sappiamo che fare. È strano. Piangiamo tutti e due a dirotto.

    Josh inspira a fondo e si dà uno schiaffo da solo. Molto forte.

    Anche se sto piangendo, mi concedo un sorriso. Perché l’ha fatto? Che cosa stupida.

    Vedendo me, anche Josh fa un gran sorriso. È la prima volta che sorrido da quando la mamma se n’è andata. Lui si dà un altro schiaffo, persino più forte del primo, e io scoppio a ridere.

    «Se non mi picchi tu, dovrò pensarci io al posto tuo», mi spiega.

    Mi do anch’io un forte schiaffo e ride anche lui.

    «Non ti fa sentire meglio, Jonas?».

    Sì.

    Josh si sdraia sopra di me e fingiamo di fare la lotta, anche se in realtà ci abbracciamo e piangiamo insieme a lungo.

    «Cosa diavolo state facendo?». È nostro padre. «Alzatevi».

    Oddio, conosco questo tono. È la voce di quando siamo in guai grossi. Ci tiriamo su in fretta e ci asciughiamo gli occhi.

    «Cosa diavolo sta succedendo? Esco e mi ritrovo davanti questa scena… Voi due che vi rotolate nell’erba insieme e piangete come due femminucce…».

    Ragazzi, siamo proprio in guai grossi.

    Per un minuto, papà si nasconde il viso tra le mani. Ha un’aria così triste. «Se volete piangere, va bene, ma non potete farlo dove tutti possono vedervi, e soprattutto non potete farlo vicino a me. Capisco che a volte abbiate bisogno di piangere, ma non voglio vedervi quando capita, ragazzi. Faccio del mio meglio per alzarmi ogni giorno e non posso avere intorno nessuno, nemmeno voi due, che non riesca a mantenere la calma. È ora che noi tre ci riprendiamo e la smettiamo di cazzeggiare». Scuote la testa e gli sfugge uno strano lamento. «Se avete bisogno di parlare di come vi sentite e di farvi un bel pianto, allora vi manderò da uno strizzacervelli e potrete farlo in una stanza chiusa fino a diventare paonazzi. Ma quando siete a casa e con me, d’ora in avanti, voi due comincerete a comportarvi come due uomini. Avete capito?»

    «Sì, signore», risponde Josh.

    Fisso mio padre, ma non rispondo. Voglio la mamma.

    Lui mi fulmina con lo sguardo. «Jonas Patrick, ne ho abbastanza di te. Finora ho avuto pazienza perché pensavo che dovessi sfogarti, ma adesso il tempo è scaduto. È ora che tu la smetta di perdere tempo e ricominci a parlare. Pensi di essere l’unico a cui sembra che il mondo gli stia crollando addosso?». La sua voce mi fa ridere, è come se stesse per piangere. «Tua madre era una santa, cazzo. Mi ha salvato. E adesso che non c’è più, chi mi salverà?».

    Io e Josh ci scambiamo un’occhiata. Non sappiamo cosa voglia dire.

    «Perché, tanto per cambiare, non pensi a come si sentono gli altri, eh? Non sei mica l’unico che vorrebbe sdraiarsi e morire. Forse dovresti piantarla e riflettere su come possano sentirsi gli altri, soprattutto visto che sei tu il motivo per cui lei era a casa. Se non fosse stato per te…». Papà mi guarda con espressione cattiva e poi si allontana a grandi passi.

    Corro il più veloce possibile verso l’albero, e questa volta mi arrampico più su che mai, più di quanto mi permetta la mamma, fino al ramo più alto, quello che secondo lei potrebbe rompersi se ci salgo sopra. Ma non mi interessa se si rompe. Forse è proprio quello che voglio.

    Una volta in cima, allungo le mani sopra la testa e cerco con tutto me stesso di toccare le nuvole. Ma per arrivare alla mamma non basta nemmeno il ramo più alto. La prossima volta che mi arrampico devo portare una scala. Anzi, meglio ancora, dovrei scalare una montagna. Ma sì, al diavolo questo stupido albero: scalerò una montagna, la più alta del mondo. E poi arriverò fin sulla vetta e allungherò le mani e toccherò le nuvole e la mamma si sporgerà e mi tirerà su con lei. E poi ci sdraieremo insieme sulla sua nuvola come sull’amaca blu nella casa al lago dello zio William e la mamma mi sorriderà, mi bacerà su tutta la faccia come fa ogni volta, e staremo insieme per sempre.

    Capitolo quattro

    Jonas

    Mentre aspetto notizie dal dottore, il mio cervello delirante salta da un pensiero bizzarro all’altro. Le ginocchia mi tremano da pazzi. Non riesco a fermarle. Ho idee folli, mi tornano in mente cose che non ricordavo da anni e anni. Forse sto avendo di nuovo un crollo nervoso. Perché il dottore non viene a dirmi cosa sta succedendo?

    Abbasso lo sguardo. Ho la maglietta inzuppata del sangue di Sarah e allora vado in bagno per darmi una ripulita.

    Ho la forte sensazione di aver già vissuto questo momento, vedendo il sangue che sparisce nello scarico del lavandino.

    Anche il braccialetto che porto al polso, uguale a quello di Sarah, ne è intriso. Resto impietrito per un minuto, nel tentativo di capire cosa fare. Non voglio togliermelo, ma per la mia salute mentale non posso avere addosso il suo sangue. Me lo sfilo e lo passo sotto l’acqua. È inutile. Con mano tremante, me lo metto in tasca.

    Strizzo la maglietta bagnata per eliminare il sangue ma è una causa persa, quindi la butto nel cestino della spazzatura ed esco dal bagno a torso nudo. Il negozio di souvenir dell’ospedale è poco più avanti in questo corridoio. Magari vendono delle magliette per i famigliari bloccati in ospedale per lunghi periodi.

    Supero un’infermiera, a cui sfugge un mezzo guaito. Incrocio le braccia sul petto nudo e lei distoglie lo sguardo, tutta rossa in viso. La fisso con aria assente. In questo momento la mia mente non riesce a concepire un’interazione con altri esseri umani.

    Sì. Nel negozio vendono delle magliette della squadra di football dei Seattle Seahawks. Una scelta del tutto illogica, data la situazione. Ma d’altra parte mi serve un capo pulito.

    Torno in sala d’attesa con indosso la mia maglietta nuova e mi metto su una sedia in un angolo.

    Aspetto.

    Cazzo, ho il peggior mal di testa del mondo. No, non è vero. Sarah ha il peggior mal di testa del mondo, non io. A questo pensiero mi vengono le lacrime agli occhi, ma le ricaccio indietro. Nella mente continuo

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