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Il nostro amore quasi perfetto
Il nostro amore quasi perfetto
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E-book418 pagine6 ore

Il nostro amore quasi perfetto

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller Dopo tutto sei arrivato tu

A un primo sguardo posso sembrare il classico bel ragazzo pieno di donne e autostima. Ma c’è molto di più. Non sono un playboy qualunque, sono il Principe Magnus di Norvegia e la mia ultima avventura potrebbe aver messo in imbarazzo l’intera famiglia reale. Quindi ora l’unico modo per salvare la faccia è costringermi a mettere pubblicamente la testa a posto, sposando una ragazza nobile che faccia riguadagnare consensi alla monarchia. In caso contrario verrò estromesso dalla linea ereditaria. La donna scelta per me è la Principessa Isabella del piccolo principato del Liechtenstein. Isabella è bellissima e intelligente, certo, ma questo matrimonio di facciata non piace né a me né a lei. Mi considera uno sbruffone superficiale e temo che sia intenzionata a mettermi i bastoni tra le ruote per il resto della vita. Potrà mai funzionare?

Autrice bestseller di «New York Times», «Wall Street Journal» e «USA Today»

Karina Halle
è cresciuta a Vancouver, in Canada. Ha una laurea in sceneggiatura e una in giornalismo e ha collaborato con diverse riviste. È autrice di numerosi libri, tra cui la serie Dream (Patto d’amore, Offerta d’amore, Gioco d’amore, Bugie d’amore, Debito d’amore), il cui primo volume è stato in classifica per settimane sul «New York Times», sul «Wall Street Journal» e su «USA Today». Con la Newton Compton ha pubblicato anche Dopo tutto sei arrivato tu, Ricordati di me, scritto con Scott Mackenzie, Il principe svedese, Un cuore di ghiaccio e Il nostro amore quasi perfetto.
LinguaItaliano
Data di uscita8 ott 2019
ISBN9788822738134
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    Anteprima del libro

    Il nostro amore quasi perfetto - Karina Halle

    MAGNUS

    «Ha fatto un casino!», ripete di nuovo Ottar.

    Non proprio ciò che ci si vuole sentir dire pochi secondi prima di lanciarsi giù da un dirupo profondo circa mille metri e di precipitare nel fiordo lì sotto.

    In questo caso, però, dopo aver passato gli ultimi cinque minuti con Ottar che mi trapanava la testa dicendomi quanto ero idiota e quanto mi fossi incasinato la vita, gettarsi da una scogliera sembra la cosa giusta da fare. Forse l’unica cosa da fare in questa situazione.

    Mentre corro verso l’orlo del Monte Kjerag, tengo lo sguardo fisso sul fiordo che taglia la valle come un coltello azzurro e lascio che tutti i pensieri, tutte le preoccupazioni e la consapevolezza che ho di me si dissolvano.

    Salto.

    Immagino che nascere sia come quei primi secondi di caduta libera. Uno slancio terrificante, come l’essere spinti fuori dal mondo solido e sicuro che si conosce dentro un abisso gelato. Non c’è niente di simile: abbandonare la sicurezza e la vita per quella che dovrebbe essere una morte certa.

    E voli, a braccia spalancate, senza peso, un uccello nel cielo, la discesa di un angelo, un passo oltre l’essere umano.

    E precipiti.

    Il vento ti urta il viso, tirando indietro la pelle e facendoti sorridere, sbatacchiando il casco protettivo. Non c’è nient’altro, solo tu e il vento e la più grossa scarica di adrenalina che potrai mai sperimentare. È persino meglio del sesso.

    Forse.

    Il timer suona e interrompe la discesa precipitosa prima che il mio cervello vada in confusione. Afferro rapidamente il paracadute per aprirlo e vengo strattonato all’indietro, il divertimento della caduta libera si annulla per un attimo quando il paracadute si apre e inizia la discesa tranquilla.

    Di solito questa è la parte del salto in cui il cuore inizia a rallentare, tu inizi a capire dove ti trovi, cosa stai facendo, che ce l’hai fatta. Sei salvo. Mentre fluttui verso terra, dentro di te non provi altro che meraviglia e sai che non sei altro che un minuscolo paracadute dai colori vivaci che plana verso un fiordo ceruleo, librandosi all’altezza delle aquile.

    Oggi, però, non ci sono pace e tranquillità.

    Non c’è quella grande attenzione e quella chiarezza che provo sempre durante un salto, quando il mio mondo a pezzi sembra mettersi in pausa, solo per un meraviglioso minuto, mentre precipito giù dal cielo.

    Riesco solo a concentrarmi sulle parole di Ottar che mi trafiggono la testa. Ho fatto un casino. E non sono solo parole sue. Sono quelle delle mie sorelle, dei miei genitori, della stampa. Di quel primo ministro del cazzo.

    Quando sei un membro della famiglia reale e fai qualcosa di stupido, tutto il mondo, senza contare l’intera nazione, vogliono dire la loro.

    E io sono il Principe di Norvegia, erede al trono, e il mio ultimo scandalo ha riportato indietro di cent’anni l’immagine pubblica del paese.

    Non mi meraviglio che oggi sia stato più facile lanciarsi di molti altri giorni.

    Un urlo trapassa i miei pensieri e guardo in alto, anche se non riesco a vedere niente sopra di me, a parte il giallo elettrico del paracadute. Era il grido di Ottar. È solo la seconda volta che il ragazzo fa base jumping e, per lui, è una volta di troppo. Diamine, nessuna persona sana di mente tenterebbe questo sport, ma sono stato soprannominato Magnus il Matto per delle valide ragioni.

    L’urlo sembra fermarsi dopo un po’, il che vuol dire che probabilmente Ottar ha aperto il paracadute, e ora devo preoccuparmi del terreno.

    Concentrati, faccia di cazzo, dico a me stesso, desiderando che il mio cervello la smetta di pensare ad altro e si metta al lavoro prima che sia troppo tardi. Non capisco più niente. Afferro le pulegge davanti a me e sterzo verso le persone radunate sulla piccola penisola sotto di me, sperando che Ottar faccia lo stesso. Il suo ultimo atterraggio è stato aggraziato quanto una mucca lanciata da una catapulta.

    C’è solo un piccolo appezzamento di terra su cui atterrare: mancalo e ti andrai a schiantare contro le rocce o nelle acque gelide del fiordo. Forse è colpa della mia testa vuota, ma l’erba si sta avvicinando in fretta e so che mi farò un male cane.

    Urto con i piedi il terreno e le gambe si accasciano immediatamente, provocandomi un forte dolore agli stinchi. Rotolo sull’erba e poi mi alzo in piedi prima che la spalla urti una lastra di roccia.

    Helvete.

    Tutti gli astanti fissano inebetiti me e il mio atterraggio non proprio aggraziato.

    Mi calco meglio in testa il casco, mi aggiusto gli occhiali protettivi e faccio un rapido inchino. «Non c’è male come atterraggio se l’alternativa è la morte», dico sorridendo.

    Alcuni di loro applaudono. Quelle persone sembrano turisti: hanno i motoscafi accostati a riva e le fotocamere intorno al collo pronte a immortalare i coglioni come me che fanno questo famoso salto.

    E Ottar.

    Sta urlando di nuovo, con le gambe che scalciano mentre scende rapido verso di noi e le braccia che strattonano le maniglie, completamente fuori controllo. Se non rallenta e vira, si andrà a schiantare proprio contro un gruppetto di persone e poi contro le rocce dietro di loro.

    Non sarà un bello spettacolo.

    Si sparpagliano tutti, incerti sul da farsi, e so che ormai Ottar ha perso il controllo. Anche se porta gli occhiali protettivi che gli coprono gli occhi, so che sono sgranati; la bocca gli si spalanca mentre sembra immobilizzarsi per il terrore.

    Non penso nemmeno. Inizio a correre verso di lui e salto, scontrandomi contro di lui nell’aria, mentre provo a stringergli le cosce tra le mie braccia.

    In qualche modo riesco a tirarlo giù, come se stessi spiumando nell’aria un grosso uccello grasso e capellone, e alla fine mi si schianta addosso, facendomi schizzare il fiato dai polmoni quando rovino sul terreno.

    «Oh mio dio, Vostra Altezza!», grida e, anche se ho la bocca piena di erba, gli sto già borbottando di star zitto.

    Mi si toglie di dosso e io mi stendo sulla schiena, cercando di riprendere fiato e sperando che nessun altro abbia sentito come mi ha chiamato.

    «Mi dispiace tanto!», continua lui dandomi delle pacche sulle braccia e sulle cosce. «È vivo?».

    Povero Ottar. Non avrebbe mai voluto fare quella cazzata con me. In passato era stato il ragazzo che mi aspettava in macchina, che gironzolava a bordocampo. Poi, con i problemi di salute di mio padre quell’anno, Ottar aveva iniziato a seguirmi nelle mie attività. Se anche non avessi smesso di farle, per lo meno Ottar sarebbe stato presente, mi avrebbe tenuto d’occhio, assicurandosi che fossi, diciamo, vivo.

    Ora, però, non si tratta solo di controllare che sopravviva per diventare re, ma di assicurarsi che io non fugga via per fare qualcosa di stupido. O più stupido del saltare giù da un dirupo. Ho una cattiva reputazione in famiglia, in quanto tendo a essere un po’ impulsivo. Fin da piccolo, ho sempre fregato le guardie del corpo e le guardie reali e sono sempre scappato via a ogni occasione.

    «Sto bene», gli dico mettendomi seduto e guardandomi intorno. Le persone si sono radunate e ci guardano da lontano, come se Ottar fosse una bomba caduta dal cielo.

    «Mi ha salvato la vita, signore», esclama Ottar mettendomi il palmo in carne sulla spalla. «Non so come ripagarla».

    Guardo la sua mano e poi me la tolgo di dosso. «Be’, puoi iniziare andandoci piano con i tuoi modi da Samvise Gamgee».

    «Certo, signore», mi risponde con aria un po’ imbarazzata. Penso sia più per il fatto di essere quasi morto e dell’averlo dovuto salvare e non tanto per il soprannome del Signore degli Anelli, perché giuro che ci manca poco perché mi chiami Signor Frodo. «Però, ecco, sono mortificato».

    «Non è colpa tua», gli dico. Non è neanche colpa mia. «Però potresti aiutarmi ad alzarmi».

    «Sì, signore», risponde afferrandomi le mani e tirandomi su. Sento che la folla ci scruta ancora di più adesso – probabilmente per il modo in cui Ottar si rivolge a me, come se fossi qualcuno – e sono tentato di fare un altro inchino per i due pessimi atterraggi di fila.

    Alcuni, però, hanno tirato fuori le fotocamere e le stanno puntando nella nostra direzione, e non riesco a capire se lo facciano per immortalare due pazzi che sono appena atterrati o perché pensano che sia qualcuno d’importante.

    Rivolgo un sorriso teso verso le fotocamere e abbasso lo sguardo su Ottar, che è almeno quindici centimetri più basso di me. «Forse dovremmo toglierci questa roba e andare alla barca».

    Lungo la costa c’è un motoscafo bianco ed elegante con intagli di teak e il nome Elskling scritto con dei bei caratteri sul lato. L’uomo che aspetta paziente al volante è Einar, una delle mie guardie del corpo e il mio autista per le fughe. Come Ottar, è sempre nei paraggi, di solito mi segue perché cerco di sbarazzarmi di lui. Tuttavia, faceva parte dell’esercito e quindi è un uomo difficile da seminare.

    Sento venire dalla folla il debole click di qualche altra fotocamera, ma questa volta non concedo secondi sguardi. Mi tolgo rapidamente l’attrezzatura e poi, dato che Ottar sta ancora armeggiando goffamente con le cinghie che ha sul petto, aiuto anche lui.

    Si sente un "oooh" collettivo dei presenti e inclino all’indietro la testa verso il cielo, dove stanno scendendo altri tre paracadutisti, tutti e tre in fila. Da quella distanza sembrano stelle dai colori sgargianti che si sono bruciate al contatto con l’atmosfera.

    Un altro click cattura la mia attenzione.

    Tutti guardano i paracadutisti, tranne due uomini.

    Uomini con macchine fotografiche puntate dritte su Ottar e me.

    Uomini che avrei dovuto riconoscere prima ma, con tutto quel trambusto, non ero stato in grado di fare mente locale.

    Sei un idiota, Magnus.

    «Ehi, non sono…?», domanda Ottar, ma lascia la frase in sospeso quando i due uomini si voltano e iniziano a correre verso una delle barche in attesa.

    «Merda», impreco chiedendomi quante foto abbiano scattato.

    Non stavo certo facendo qualcosa di inappropriato in sé e per sé, ma avevo promesso alla mia famiglia di stare lontano dagli occhi dei paparazzi per quel giorno e, ecco, quei due coglioni sono il tormento della mia esistenza principesca. L’unica ragione per cui ero andato lì era stata evitare di essere fotografato, dato che di solito i paparazzi non mi seguono fino al Kjerag.

    Quei due, però, non sono dei paparazzi normali. Prima di tutto, sono gemelli russi che somigliano davvero un sacco a T-1000 di Terminator. E poi si comportano anche come T-1000. Sono inarrestabili, cazzo. Non importa dove vada, quei due pezzi di merda sono lì a fare foto e a venderle alla rivista di gossip che paga meglio o ai tabloid da quattro soldi. Non dico che mi addormento piangendo ogni notte per essere noto come il principe single, sexy e arrapante, ma di sicuro questo ti rende il cocco dei media.

    «Dobbiamo andare», dico a Ottar. «Subito».

    Di solito avrei lasciato correre la cosa ma, dato che quei due coglioni venderanno senza alcun dubbio le prime foto di me e di quello che verrà chiamato I postumi del disastro, seguito dai titoli Principe suicida si lancia da una scogliera (il suo segretario personale cerca di salvarlo) e Inadatto al regno, mi sento in dovere di interessarmene tanto quanto loro sono in dovere di trattarmi come un animale dello zoo.

    Iniziamo a correre sul prato che porta alla barca e gettiamo l’attrezzatura a bordo, poi entriamo nell’acqua gelida fino alle ginocchia prima di issarci dentro. Einar è al volante e aggrotta le sopracciglia da sotto i suoi occhiali da aviatore che emettono luccichii viola e blu, come se fossero stati polarizzati un milione di volte.

    Mi metto di fianco a lui e do una spallata al bruto per toglierlo di mezzo e prendere i comandi.

    «Se non ti dispiace, guido io», gli dico gettando un’occhiata alle mie spalle verso il loro motoscafo che si sta allontanando, prima di mettere la retromarcia e allontanarmi dalla riva a tutto gas.

    Ottar quasi finisce fuoribordo e si aggrappa alla ringhiera per mantenersi, mentre Einar afferra la console per rimanere fermo.

    «Sono abbastanza sicuro che sua madre etichetterebbe la cosa come guida spericolata!», grida Ottar cercando di raddrizzarsi, solo che io giro il motoscafo in avanti e parto alla volta della barca dei russi.

    «Sono abbastanza sicuro che mia madre non vorrebbe neanche che diventassi carne da macello per paparazzi», gli rispondo con una strizzatina d’occhio.

    «Lasci perdere», mi dice Ottar con un sospiro cacciato a forza dai polmoni quando cade di nuovo sulla ringhiera.

    Anche se sono abbastanza bravo a fuggire dai miei problemi, il fatto che mi abbiano seguito fino a qui mi dice che devo affrontarli. Un faccia a faccia. Nello stile di Magnus il Matto.

    «Lasciar perdere?», ripeto. «Sei tu quello che mi ha detto che ho fatto un casino pochi secondi prima che saltassi. Ho fatto un casino, quindi ora devo rimediare».

    «Signore», mi dice Einar schiarendosi la voce. Se anche quegli occhiali psichedelici non gli coprissero gli occhi, non sarei in grado di decifrarli. A volte penso che Einar sia stato costruito nella stessa fabbrica di robot dei russi, ma il suo ideatore deve aver deciso di dargli dei muscoli in più.

    «Ci penso io, Einar», gli dico. «Perché non ti assicuri che Ottar non cada fuoribordo?».

    Einar non si muove e, dal modo in cui tiene serrate le labbra, non penso che gli piaccia quando gli dico cosa fare. Lo so che non gli piace. Posso dare ordini a Ottar, ma Einar è solo una guardia del corpo, è qui per proteggere me, non chiunque altro.

    Non ho bisogno della sua protezione, ma questo non lo ferma dall’andare ovunque io vada. Anche quando esco per un appuntamento con una donna, è sempre lì appostato sullo sfondo. Ottengo un po’di privacy solo quando me le scopo e devo sperare che lui non mi stia spiando dalla finestra. Non fraintendetemi: l’idea di essere osservato mentre faccio sesso mi eccita come non mai, ma vedere la faccia seria e butterata di Einar rovinerebbe l’atmosfera.

    Detto questo, in un certo senso vorrei che mi avesse guardato la settimana scorsa, quando ero andato a casa di Heidi.

    Quando ero entrato nella stanza di Heidi.

    Non necessariamente quella prima volta in cui l’ho scopata fino a farle perdere i sensi.

    Però la seconda sì, quando aveva tirato fuori il cellulare dicendo che voleva riprenderci mentre facevamo sesso come un souvenir, un cimelio.

    Io avevo acconsentito perché, dai, perché cazzo non avrei dovuto voler essere filmato mentre le infilavo l’uccello dentro? Di solito non lo propongo proprio alle donne, perché il loro lato avventuroso si ferma alla pecorina e al massimo a un po’ di asfissia e a qualche sculacciata. Filmarci mentre facciamo sesso? Te lo puoi scordare.

    E mi sentivo in colpa perché poco prima quella sera l’avevo scaricata. Non che tra Heidi e me le cose fossero serie, però eravamo ci eravamo visti un paio di volte riuscendo in qualche modo a nasconderci al pubblico – e a suo padre – e sapevo che lei voleva molto di più da me. Nel senso che voleva diventare la prossima principessa di Norvegia.

    Naturalmente, avevo dovuto troncare tutto sul nascere, anche se a quanto pare, quando mollo qualcuna, penso sia ancora fico filmare un video sexy con lei dopo. È solo un altro esempio della mia impulsività che mi mette nei guai.

    Dio, se ho fatto una cazzata.

    Tuttavia, ormai è fuori dal mio controllo e chi lo sa cosa mi accadrà ora. Da quando la notizia è uscita ieri, devo ancora parlarne con i miei genitori, anche se riuscivo a sentire la loro rabbia che ribolliva per tutta la strada fino al loro palazzo nel centro di Oslo.

    Sento quella stessa rabbia ribollire dentro di me ora e posso indirizzarla solo in un punto.

    Aumento la velocità della barca e ora stiamo raggiungendo il motoscafo dei paparazzi. Tra poco li sorpasseremo.

    «Spero che sappia cosa sta facendo», mi dice con calma Einar, con lo sguardo concentrato sulla barca che si avvicina sempre di più.

    «So mai quello che sto facendo?», gli ripeto reprimendo un sorriso.

    E anche se non funzionasse, che mi importa? Se lo meritano eccome.

    «Ehi!», grido ai fotografi mentre affianchiamo la loro barca. «Avete fatto delle belle foto?».

    La mia voce viene portata via dal vento ma si girano entrambi e all’unisono sollevano le macchine fotografiche.

    Io gli mostro il dito medio e faccio un gran sorriso.

    Poi afferro repentinamente il volante e faccio virare di lato la nostra barca, creando un’onda gigante e assicurandomi che un’ondata d’acqua investa il lato del loro motoscafo, inzuppandoli dalla testa ai piedi.

    Scoppio a ridere e poi dirigo la barca a tutto gas nella direzione opposta verso il porto alla fine del fiordo, lasciando le due facce di cazzo a urlarci contro in russo, bagnati fradici e intenti ad agitare le macchine fotografiche, senza dubbio rovinate.

    Gli sta bene.

    «Bella manovra, signore», mi dice Einar dopo un attimo e io lo guardo e vedo un accenno di quello che potrebbe essere definito un sorriso che gli incrina la bocca.

    «Grazie, amico».

    «Lo sa che proveranno a farle causa per questo», mi avverte Ottar, barcollando lentamente sul lato del ponte, senza lasciar mai andare la ringhiera.

    «Sei un guastafeste, Ottar», gli dico. «Fammi divertire un po’».

    So già che sarà l’unico divertimento che vedrò per un po’.

    Anche se ho sempre avuto le mie preferenze su dove vorrei vivere, inclusi vari palazzi reali sparsi per la Norvegia, sono affezionato al mio appartamentino. Okay, magari non è proprio piccolo per gli standard normali. Comprende l’intero attico di un edificio ad angolo di Majorstuen, uno dei quartieri più in della città, e ho più stanze di quante riesco a usarne, ma mi fa sentire molto più normale vivere in questo modo rispetto al vivere in un palazzo.

    Ignorando il fatto che al piano di sotto vivono Einar, Ottar e varie guardie di turno, quello più sotto ancora ospita un H&M. Sulla strada sferragliano i tram, e trovo rassicurante il loro rumore, e la gente corre avanti e indietro facendo compere e fermandosi nei bar.

    I paparazzi sanno che vivo nel quartiere, ma non conoscono la posizione esatta. Le finestre che si affacciano sulla strada sono oscurate e mi nascondono alla gente e, quando ho bisogno di sole, salgo sul tetto, dove ho un intero solarium privato libero da occhi indiscreti. E ci sono un bel po’ di entrate nell’edificio, incluso un tunnel che sbuca un isolato più avanti in un cortiletto chiuso.

    È da lì che arriverà mia madre questa sera. Non mi piace il fatto che debba camminare nel tunnel, dato che è stato costruito nel 1800 e a volte è molto buio, ma ha insistito per venirmi a trovare il prima possibile.

    Di sicuro ci sono cattive notizie in arrivo. Il fatto che voglia parlarmi di qualcosa qui invece che a palazzo, dove ci sono mio padre e mia sorella minore Mari, la dice lunga. Per esempio, ci saranno meno testimoni nel caso in cui voglia assassinarmi.

    Mentre guardo in giro per l’appartamento, chiedendomi se sia il caso di nascondere i coltelli o, per lo meno, la grossa ascia vichinga che tengo appesa al muro, si sente bussare.

    Vado a grandi passi verso la porta, passandomi una mano tra i capelli per assicurarmi che siano in ordine (di solito i miei capelli sono sempre e inappropriatamente in disordine e troppo lunghi per lei), faccio un respiro profondo e le apro.

    Mia madre e la sua guardia del corpo, Per, sono nel corridoio. Mi accorgo di Einar sullo sfondo, intento a scendere le scale.

    «Magnus», mi dice mia madre con tono brusco, il suo tono abituale in ogni momento.

    «Madre», le rispondo io. Le faccio uno di quei sorrisi che di solito la incantano, ma sembra che non abbiano più quell’effetto. Incrocio lo sguardo di Per ma, proprio come quello di Einar, non mi dice niente. Altri robot in giacca e cravatta.

    Mi schiarisco la voce e indico l’appartamento. «Be’. Entra, allora».

    Lei annuisce e getta uno sguardo alle guardie del corpo, ordinandogli in silenzio di rimanere dove sono. Poi entra dentro e io chiudo la porta dietro di lei.

    «Hai messo in ordine», mi dice fermandosi al centro del salotto e guardandosi attorno. Si tratta di un open space, il che vuol dire che lo si vede quasi tutto da qualsiasi punto, e di solito è un casino. Anche se ho una cameriera che viene qui a giorni alterni, non ci vuole molto per far sembrare la casa come se ci fosse passato un tornado. Aggiungiamo anche Magnus lo Sciatto alla lista di soprannomi.

    «Ho cercato di renderlo all’altezza di una regina», le dico.

    «Stronzate», impreca lei scuotendo la testa e gettandomi un’occhiata dura.

    Vi presento mia madre. Potrà anche essere la Regina, ma sa anche essere volgare e diretta tanto quanto me. Mentre mio padre è alla mano e socievole, se non addirittura un po’ eccentrico, mia madre dice ciò che vuole quando vuole. Non teme nulla.

    Per lo meno di solito è così. Per quanto il suo sguardo sia duro stasera quando mi trapassa, riesco a vedere delle scintille di paura nei suoi occhi, che a loro volta provocano paura anche in me.

    Il mio cuore inizia ad accelerare e lei indica con un movimento della testa le due poltrone vicine al caminetto, con al centro un cimelio di famiglia, un tappeto di pelliccia di orso. «Siediti. C’è una cosa di cui ti devo parlare e, per una volta, ho bisogno che tu mi stia a sentire».

    Deglutisco con fatica. «Non vuoi un caffè o…?». Guardo la cucina come se farle un espresso mi faccia guadagnare tempo.

    «Magnus», mi dice severamente. «Siediti».

    E quindi mi siedo e lei si accomoda di fronte a me. È una donna minuta, alta solo un metro e cinquantacinque, ma, persino con un tailleur giacca e pantalone di seta casual che sembra quasi un pigiama, è formidabile.

    Per un po’ non dice niente, portando la tensione della stanza alle stelle. Alla fine mi costringo a dire: «Senti, mi dispiace tanto per quello che è successo…».

    «Smettila», mi dice sollevando una mano. «Smettila e basta. Non c’è bisogno che ti scusi. Anche se mi chiedo se ti sei mai sentito davvero dispiaciuto per qualcosa».

    Questo è stato un colpo basso.

    «Quel che è stato è stato», continua. «Non c’è modo di fermarlo. Possiamo solo contenere i danni e non è detto che ci riusciremo».

    «Sono sicuro che il primo ministro capirà che…».

    «Il primo ministro», ruggisce con gli occhi neri che lanciano scintille, «non capisce! Ma porca miseria, Magnus, hai girato un video porno con sua figlia!».

    «La stavo lasciando», rispondo debolmente coprendomi il volto con le mani perché, cazzo, non voglio parlare del video porno con mia madre, anche se è su tutti i giornali.

    «È così che lasci le persone?». È incredula. Sbircio verso l’alto e la vedo scuotere la testa disgustata. «Prima di tutto, che cavolo pensavi di fare con Heidi Lundström?»

    «È una mia fan», cerco di spiegarle. «Cioè, voleva uscire con me. Ci siamo incontrati così tante volte nel corso degli anni, lo sai che era quasi inevitabile. Si era appena lasciata con il fidanzato ed eravamo a quell’evento di beneficenza per le rane e le paludi, o una roba del genere…».

    «Non hai pensato neanche per un secondo che lei fosse off-limits?».

    Scrollo le spalle. «Be’, no».

    «Certo che no. Perché non ti fermi mai a pensare a niente. Ti butti dentro qualsiasi cosa come se fossi fuori controllo. Sei fuori controllo, Magnus. Lo sei sempre stato. Io – noi – abbiamo provato di tutto per tenerti a freno durante i tuoi ventotto anni e non ha funzionato niente».

    «Ehi», le dico odiando il fatto che mi stia gettando addosso tutto questo. «Io penso. Di fatto, ho pensato che forse, per una volta, sarebbe stata una buona scelta dato che ha uno stile di vita simile al mio e sa cosa vuol dire crescere in una famiglia di potere, ma è molto più, ehm, instabile di quanto pensassi».

    «Be’, dato che anche tu sei instabile, ho capito perché avete legato», ribatte fingendo di non aver notato la mia smorfia per il suo commento sulla mia instabilità. «Ma, dai, un video porno?». Pronuncia queste parole come se fossero in una lingua straniera. «Non hai pensato neanche una volta alle possibili ripercussioni?»

    «Perché avrei dovuto?».

    «Perché questo genere di… cose esce sempre fuori. Non hai imparato niente in tutti questi anni di scandali delle celebrità?»

    «Quella è Hollywood».

    «E qui ci sono le stesse dinamiche. È chiaro che non hai imparato niente sull’essere un principe. Al contrario, provi a evitare di esserlo ogni volta che puoi. È questo quello che vuoi? Vuoi abdicare? È per questo che ti auto-saboti?»

    «Non mi sto auto-sabotando! E non voglio abdicare».

    Tuttavia, la mia voce si spegne alla fine della frase, come succede sempre quando si parla di abdicazione, quando mi viene ricordato quanto sia inadatto a fare il re, quanto sarò terribile.

    «Senti», continuo piegandomi in avanti con i gomiti sulle ginocchia e le dita intrecciate come se stessi pregando. «Ho commesso un errore con Heidi. È ovvio che non volevo umiliare né lei, né il primo ministro, anche se penso che lui mi abbia sempre odiato fin dall’inizio. Non possiamo contenere i danni? Non possiamo dire alla stampa che è tutto falso? È chiaro che qualcuno ha hackerato il cellulare di Heidi, come lei stessa ha detto. Non possiamo dire che questa persona ha creato tutto con, non so, Photoshop o una cosa del genere?».

    Mia madre espira con il naso e mi rivolge uno sguardo duro. «Non ora che Heidi ha già ammesso davanti alla stampa quello che è successo. Con un tono piuttosto orgoglioso, devo dire. Penso che quella ragazza abbia, com’è che hai detto, dei problemi con papino».

    «Tu non ne sai proprio niente», borbotto sotto voce mentre ho un flashback di alcune strane parole mormorate da Heidi durante il sesso. «Quindi che devo fare?»

    «Te lo dico io quello che devi fare, Magnus. E non ti piacerà».

    Inspiro profondamente, chiedendomi che genere di terrore regale mi aspetti. «Okay», rispondo lentamente. «Di che si tratta?».

    Sfrega le labbra prendendo tempo. Lo so che lo fa perché sono terribilmente impaziente e detesto dover aspettare. So anche che adora vedermi agitato.

    «Prima di tutto, dovrai scusarti con il primo ministro e con Heidi. Di persona. E poi di nuovo davanti alle telecamere durante una conferenza stampa».

    «Cosa!?», esclamo. «Davanti alle telecamere? Ma… il mondo se la berrà come una spugna, cazzo. Ci farà apparire deboli».

    Lei mi rivolge un sorriso amaro. «Sembriamo già deboli, grazie a te. L’intera monarchia è ai minimi storici. Siamo gli zimbelli del paese, dell’Europa, del mondo intero. Magnus, quello che hai fatto è la goccia che ha fatto traboccare quel dannatissimo vaso. Tutto il rispetto che questa famiglia reale si è guadagnata è sparito e, in un mondo in cui le monarchie non sono più in voga e non hanno un vero potere, questo avrà degli effetti duraturi».

    Be’, cazzo.

    «Okay», le dico raccogliendo il coraggio. «Lo farò».

    «Sì. Lo farai. E farai anche un’altra cosa».

    «Che cosa? Non può essere peggio di così», le dico debolmente ma, dallo sguardo dei suoi occhi, so che lo è. Mi preparo al colpo.

    «L’altra cosa è…», inizia a dire e poi sembra trasalire per quello che deve dirmi. «Magnus, ti devi sposare».

    MAGNUS

    Le sue parole aleggiano nell’aria, rifiutandosi di attecchire nel mio cervello. È come se potessi fissarle, osservarle, ma non capire veramente perché sono lì.

    «Cosa?», rispondo alla fine.

    Gli occhi di mia madre si riducono a due fessure. «Mi hai sentito. Ti devi sposare».

    Ancora non attecchiscono. Inclino la testa, non sono sicuro di aver capito bene entrambe le volte. «Scusami. Sposarmi?»

    «Sposarti».

    «A chi?»

    «Con chi», mi corregge lei. «Ho fatto una lista. Non ce l’ho con me perché ho pensato che ti servisse del tempo per abituarti all’idea ma, ti assicuro, sarà una ragazza europea e di sangue nobile, qualcuno di cui questa nazione possa andar fiera».

    Apro la bocca. La richiudo. Ho il sangue che mi pulsa nel cervello, sempre più forte, mentre realizzo quello che sta dicendo.

    Buon Dio.

    Che cosa sta dicendo?

    «Come… cosa…», mi fermo. «Vuoi che io mi sposi?».

    Alza gli occhi al cielo e sospira brevemente. «Lo so che non sei stupido, Magnus, quindi invece di ripetermelo, che ne dici di iniziare ad accettarlo?».

    «Ma… perché? Sarebbe questa la tua soluzione per un video porno?». Il respiro mi trema. «Porca miseria, non ti aspetti mica che sposi Heidi, vero?»

    «Oh, calmati. Lo sappiamo entrambi che quella ragazza è fuori di testa. E lo è anche il primo ministro. Ti sposerai con una ragazza bella, gentile, adatta e prestigiosa. Il prima possibile. È l’unico modo con cui possiamo salvarci la faccia».

    «E come può salvarci la faccia, questo?!», esclamo allargando le braccia mentre salto in piedi.

    «Siediti».

    «Siediti? Siediti?». Sento che la mia faccia sta diventando bollente e il battito cardiaco sta aumentando fuori controllo. So che dovrei provare a controllarmi, soprattutto quando mi succede questo.

    «Mi stai dicendo che devo sposare una sconosciuta solamente perché pensi che questo renderà felici il paese e il primo ministro?»

    «Sì», mi risponde semplicemente, posando le mani in grembo.

    La fisso respirando a fatica, sfidandola a fare casino, a trasalire, a mostrarmi che c’è una parte di lei che si sente ridicola per avermi suggerito una cosa del genere.

    Tuttavia, si limita a fissarmi con occhi che emettono scintille. Quelle scintille minuscole e ardenti che suggeriscono appena i draghi che ha imprigionati dentro di sé.

    Cavolo.

    Comunque, non mi siedo. Sedersi vuol dire arrendersi.

    «Ascolta, lo so che non vuoi fare questa cosa», inizia lei.

    La derido ad alta voce: «Ma non mi dire».

    «Onestamente, però, il paese ha bisogno di sapere che c’è un uomo bravo e responsabile a rappresentarlo».

    «E mio padre lo è. Tutti lo amano».

    Distoglie lo sguardo, spostandolo sulle finestre e le luci della città. «Tuo padre è molto malato».

    Durante l’estate, ho sentito dire che mio padre era malato, malridotto, di salute cagionevole, che stava così così, anche se gli era stata diagnosticata solo una pancreatite. Durante l’ultimo mese si è fatto allestire un’infermeria a palazzo, dove i medici vanno a visitarlo e a fargli delle analisi. Da quanto ho capito, la pancreatite è una malattia dalla quale si riprenderà. Questa è la prima volta che mia madre usa le parole

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