Una questione di fiducia: La Trilogia di Silicon Beach, #3
Di Jill Blake
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Info su questo ebook
Il capitalista Vlad Snezhinsky è bravissimo in due cose: fare soldi e fare il papà. Nel bel mezzo di un divorzio difficile, non ha alcun interesse per le storie d’amore… fin quando non conosce Klara Lazarev.
Klara non ha tempo per le storie d’amore. È troppo impegnata a forgiare il suo cammino nella vita: finire la tesi, fare domanda per il master, scrivere un software innovativo nel tempo libero.
Inoltre è già rimasta scottata una volta. Si rifiuta di lasciare che accada di nuovo, soprattutto con un uomo che sembra non ricordare il loro primo disastroso incontro.
Ma quando un omicidio sconvolgente getta il loro mondo – e i loro cuori – nel caos, scoprire la verità diventa più di una questione di fiducia…
___________________
Una questione di fiducia è il terzo libro della Trilogia di Silicon Beach.
Ogni libro della serie può essere letto da solo, ma hanno in comune i seguenti punti:
Ambientazione - Bassa California. Nel caso specifico, la zona costiera che comprende Santa Monica, Venice e Playa Vista, casa di più di 500 startup tecnologiche. Pubblicizzata come la nuova "Silicon Valley," questa regione a ovest di Los Angeles è stata soprannominata "Silicon Beach."
Personaggi – La serie segue le vite interconnesse di due famiglie: i Lazarev e i Kogan. Nell’ordine, i libri raccontano le storie di Anna Lazarev (Oltre la torre d’avorio, Libro 1), del suo amico d’infanzia Leo Kogan (Dolce vizio, Libro 2), e dei loro fratelli minori: Klara, la sorella di Anna, e Vlad, il fratello di Leo (A Matter of Trust, Libro 3).
Umorismo – problemi della vita di tutti i giorni, lieto fine e molte risate lungo il cammino.
Jill Blake
Jill Blake loves chocolate, leisurely walks where she doesn't break a sweat, and books with a guaranteed happy ending. A native of Philadelphia, Jill now lives in southern California with her husband and three children. During the day, she works as a physician in a busy medical practice. At night, she pens steamy romances.
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Anteprima del libro
Una questione di fiducia - Jill Blake
CAPITOLO 1
––––––––
Vlad Snezhinsky lasciò la frase a metà quando il nuovo membro di casa Talbot si mise a piangere.
«Scusa» disse Ethan. «Maya sta mettendo i dentini. Continua pure».
Vlad osservò l’uomo mentre si poggiava una tovaglietta per il ruttino sulla spalla, prese la sua bimba di sei mesi e le diede una pacca sulla schiena.
Nell’anno in cui Vlad era entrato nella Fondazione Talbot, era stato due volte nell’ufficio a casa di Ethan Talbot. Per essere un capitalista, Ethan riusciva benissimo a tenere separate la vita lavorativa e il tempo che passava con la sua famiglia. L’incontro di quel giorno era stato una rara eccezione. Non che Vlad gliene facesse una colpa: era difficile resistere al fascino della prima mossa.
«Il mercato è ormai a 500 milioni di dollari» disse Vlad riprendendo il punto dal quale aveva lasciato. «Vogliono sei milioni in cambio del sessanta per cento della ditta...»
Qualcuno bussò con aria decisa alla porta e s’interruppe. La porta si spalancò e una donna dai capelli neri infilò la testa all’interno. «Scusa, Ethan. Anna ha bisogno di te. Non riesce a piegare il lettino da campeggio e sta dando di matto».
Vlad si alzò.
La donna guardò verso di lui. Un lampo di qualcosa – riconoscimento? consapevolezza? – le attraversò il viso, ma prima che lui potesse interpretarla, la sua espressione divenne di educato disinteresse. Si voltò nuovamente verso Ethan. «Se vuoi, posso badare io a Maya mentre vai a sistemare le cose».
Ethan si alzò e girò attorno alla scrivania, lasciando la figlia alle cure della donna. «Forse ha bisogno di essere cambiata».
La bimba gorgogliò e scalciò. La donna rise, un suono morbido e roco che colò lungo la schiena di Vlad come olio caldo.
Si costrinse a restare fermo, con le ginocchia unite e le dita affondate nei palmi.
Ethan, apparentemente insensibile, si tolse la tovaglietta dalla spalla e rivolse a Vlad un sorriso di scuse. «Scusa. È il nostro primo grande viaggio con Maya, sai com’è».
Vlad annuì.
«Comunque» disse Ethan «facciamo le cose con la dovuta diligenza e se le cose vanno bene, organizzeremo una riunione preliminare. Puoi chiamarmi al telefono, se hai bisogno di me».
La porta si chiuse e cadde il silenzio.
Vlad attendeva di vedere che cosa avrebbe fatto la donna.
«Che puzza». Arricciò il naso e andò verso l’angolo dipinto a colori vivaci dove c’era tutta la roba della bambina. «Tuo papà ha ragione, piccola. Sembra proprio che tu abbia bisogno di essere cambiata».
Poggiò Maya sul materassino per cambiarla e guardò nel cassetto in cima con una mano, mentre con l’altra teneva ferma la bimba che si contorceva.
«Sembra che siamo in affari, piccola». La pulì, le mise un pannolino pulito e vestì Maya con un abitino pulito. «Adesso che facciamo?»
Vlad si schiarì la voce e la donna sobbalzò, come se avesse dimenticato che si trovava ancora nella stanza.
«Ci sono dei giocattoli» le disse. «Nello sportello alla tua destra».
Almeno era lì che li aveva visti l’ultima volta che era stato lì, subito dopo che era nata Maya.
«Sì, lo so» disse Klara. I suoi occhi – verdi, con screziature di marrone e oro – si spalancarono quando Vlad si avvicinò. Klara aprì leggermente le labbra e lui per poco non gemette.
Dannazione, che cosa stava facendo?
«Scusa». Si fermò a poca distanza da lei. «Non penso che ci conosciamo. Vladislav Snezhinsky. Gli amici mi chiamano Vlad».
Maya scelse quel momento per afferrare i capelli della donna e tirarli.
«Ahia». Fece una smorfia e cercò di liberare i capelli dalla manina della bimba. «Cerchiamo quei giocattoli, che ne dici?»
Nei pochi minuti che ci vollero per sistemare Maya su un materassino dai colori vivaci con un assortimento vario di giocattoli di peluche e sonaglietti, Vlad studiò il profilo della donna. Era alta, forse leggermente più bassa di lui, e indossava una maglietta che le stava molto più grande e jeans scoloriti. Quando si piegò per raccogliere un giocattolo, Vlad ebbe uno scorcio di quello che celavano quei vestiti così ampi: una vita stretta, fianchi generosi e un sedere rotondo che gli fece venire l’acquolina in bocca e gli fece prudere le dita.
Sperando di nascondere la reazione del suo corpo, Vlad si accovacciò accanto al bordo del materassino. «Okay, proviamo di nuovo» disse Vlad tendendole la mano. «Io mi chiamo Vlad. E tu sei...?»
«Klara. La sorella di Anna». Ritirò la mano più in fretta possibile, ma lui ne percepì comunque il vago tremore.
Nervosismo? Attrazione? Klara evitò il suo sguardo. La pulsazione alla nuca si fece più insistente.
Vlad azzardò un sorriso. «Allora, Klara, perché non ci siamo mai visti prima?»
Quel commento attirò l'attenzione di Klara. E non in modo positivo. Si accigliò e strizzò gli occhi. «Ci siamo già visti. Un paio d'anni fa, al matrimonio di tuo fratello».
«Oh». Cercò di scacciare gli spiacevoli ricordi che minacciavano di sopraffarlo. Era un peccato che avesse associato il matrimonio di Leo all'inizio della fine. Era stato allora che le cose tra Vlad e Oksana avevano cominciato a precipitare, culminando in un aspro divorzio che si trascinava avanti ancora adesso.
Studiò Klara più attentamente. Sentì qualcosa muoversi in fondo alla mente.
Un vago ricordo di spessi riccioli scuri acconciati elegantemente in cima alla testa, il corpo avvolto in un vestito che lasciava poco all'immaginazione e un sorriso rivolto a lui. E poi...
Oh, Dio.
Il rossetto rosso sfumò, gli occhi rilasciarono lacrime tinte di mascara e la guancia di Vlad cominciò a dolere per il ricordo che gli aveva lasciato la sua mano.
E poi... nulla, fin quando la mattina dopo si era svegliato con la testa che gli pulsava come se ci fosse un esercito di martelli pneumatici al lavoro.
Sembrò ritrovare la voce. «Klara, riguardo al matrimonio... non so cosa dire, tranne che mi dispiace. Non ero me stesso quel giorno. Qualunque cosa io abbia fatto...»
«Vuoi dire che non te lo ricordi?»
Vlad fece una smorfia. «Ero ubriaco. Di solito non bevo, ma quel giorno... non importa. Non è una scusa. Mi dispiace. Ti ho... fatto del male?»
Klara sollevò un sopracciglio. «Wow. Dici sul serio? Non ti ricordi davvero che cos’è successo?»
«Stavi piangendo...»
«Sì, beh, insomma, prima mi hai interrotto mentre ballavo con un altro. Poi ti sei messo a ondeggiare di lato, come se non riuscissi a stare in piedi, perciò ti ho dovuto accompagnare al tavolo. Sai, mettendo una spalla sotto il tuo braccio per impedirti di cadere e romperti qualcosa. Ti ricorda qualcosa?»
Vlad scosse la testa.
«Comunque non sei esattamente leggero. Sono riuscita a trascinarti al tuo tavolo in qualche modo e tu mi hai afferrato per non farmi cadere. La cosa successiva che ricordo è che mi stavi baciando. E tua moglie era proprio lì davanti».
Vlad gemette. «Merda».
«Esatto». Afferrò un giocattolo nelle vicinanze e lo fece ondeggiare sopra le braccia della nipote che si muovevano.
Non c’era da stupirsi che Oksana l’avesse aggredito il giorno seguente.
L’apparenza è importante, aveva inveito lei. Vuoi che sappiano tutti la verità?
Sì, certo. Come se Oksana fosse un esempio di onestà. Era stata la sua bugia che li aveva portati al casino in cui si trovavano.
Il problema era che Vlad sapeva perché lei gli aveva mentito: l’istinto di sopravvivenza era troppo forte. Che avesse o no paura per la sua incolumità era un’altra storia; forse era solo paranoica.
Tutto quello che Vlad sapeva era che avevano sparato a suo padre e che Oksana era lì in quel momento. Era stata una sparatoria in una strada buia di Mosca, da una Mercedes nera, che aveva rallentato a stento. Il lampo di una pistola attraverso il finestrino e il rumore delle gomme che stridevano sulla strada bagnata dalla pioggia.
Oksana, che era rimasta a tremare da sola, incinta di sette mesi, aveva detto alla polizia che non ricordava nulla, tranne la marca dell’auto.
Al funerale, aveva preso Vlad da parte e gli aveva confessato la sua più grande paura: che chiunque avesse ucciso il suo amante, sarebbe tornato per farla fuori. Aiutami, l’aveva scongiurato. Per il bene del figlio di tuo padre.
Vlad aveva cercato di fare la cosa giusta: aveva trascinato Oksana via dalla Russia e l’aveva portata negli Stati Uniti dove si erano sposati al volo. Due mesi dopo, aveva firmato di persona il certificato di nascita.
Aveva scoperto la verità solo durante il fine settimana del matrimonio di suo fratello. I test di paternità non mentivano.
Ecco perché aveva bevuto.
E a quanto sembrava, sotto l’influenza dell’alcol aveva dimenticato che dovevano essere discreti.
Esaminò cautamente l’espressione di Klara. Era difficile valutare quanto fosse sconvolta. Forse se lei avesse conosciuto tutta la storia, sarebbe stato più semplice.
«E dopo cos’è successo?» la spronò.
«Ti ho dato uno schiaffo. Sei caduto, hai sbattuto la testa sul tavolo e sei svenuto». Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso. «Per un attimo ho pensato che fossi morto, che ti avessi ucciso».
Stava ridendo? La guardò.
Klara sollevò lo sguardo e fece spallucce. «Ovviamente non è così».
«Ovviamente».
«Ti ho controllato il polso, per essere sicura che fossi ancora vivo, e poi hai aperto gli occhi e mi hai guardata. In quel momento è arrivato Leo e ha preso il mio posto».
Suo fratello Leo, il dottore.
«Ma certo. Vlad sospirò e si strofinò gli occhi. «È successo altro che dovrei ricordare?»
«È già abbastanza, non credi?»
Beh, almeno quella spiegazione chiariva un po’ di cose, come ad esempio il motivo per il quale era stata così distaccata prima e anche del perché non aveva dei ricordi concreti di lei prima di quella sera, oltre a qualche flash qua e là.
«Mi dispiace» disse di nuovo, sollevato di non aver fatto nulla di davvero imperdonabile. «Mi sono comportato come un idiota».
«Sì».
«Se prometto di non farlo più, possiamo ricominciare da zero?»
Gli diede una lunga occhiata. «Certo, come vuoi».
«Fantastico». Le tese la mano. «Ciao, io sono Vlad».
Klara esitò per un attimo prima di rispondere. «Klara».
«È un piacere conoscerti». Le lasciò andare la mano con riluttanza. «Stiamo avendo delle belle giornate ultimamente».
Lei alzò gli occhi al cielo. «Sì, e che ne dici dei Dodgers?»
«Aspetta... non dirmelo. Football americano, giusto?»
«Baseball» lo corresse. «Va tutto bene, non piace tanto neanche a me».
«Ah. Beh, io non sono cresciuto qui» disse lui facendo spallucce. «Tu che scusa hai?»
«Hockey».
La guardò perplesso. «Hockey?»
«Non ho tempo per gli sport che trasmettono» gli disse. «Tranne che per l’hockey. Per quello trovo sempre il tempo. Non so cosa mi dispiacerebbe di più, vivere senza hockey o vivere senza cioccolata».
«La cioccolata lo capisco». Piegò la testa di lato. «Ma l’hockey?»
«Quando avevo sette anni, mio padre mi ha portato a vedere i Flyers che giocavano contro i Pittsburgh Penguins. Questo prima che Eric Desjardins si ritirasse. Era come un dio sul ghiaccio. C’era anche John LeClair e Radovan Somik ha segnato il goal della vittoria».
«E tu ricordi tutto questo da quando avevi sette anni?»
Le sue labbra s’incurvarono in un sorriso malizioso. «Si dice che la prima volta non si dimentica mai».
Gesù, stava ancora parlando di hockey? Vlad si schiarì la voce e si spostò, poggiando il gomito sul ginocchio piegato. «Dovresti venire a vederci giocare qualche volta».
«Non ci credo. Tu giochi a hockey?»
«Non da professionista, ma sì. Una domenica sì e una no, a El Segundo. Leo è il capitano della squadra. Sono l’unico della squadra che non è un dottore, ma avevano bisogno di un altro difensore e Leo ha garantito per me».
«Wow». Klara ispezionò velocemente il corpo di Vlad, che si sentì madido di sudore, nonostante la temperatura fresca. «Immagino che essere russo sia bello quasi quanto essere canadese».
«È meglio» ruggì lui.
Klara arrossì e distolse lo sguardo.
Doveva farle un invito vero e proprio per andare a giocare a hockey... e qualunque altra cosa sarebbe venuta dopo?
No. Pessima idea. Si era già messo in ridicolo una volta, al matrimonio di Leo. Se due anni dopo Klara ricordava perfettamente la sua scenata imbarazzante, chiedere di ricominciare da capo non era sufficiente. Avrebbe dovuto riabilitare la sua immagine, redimersi ai suoi occhi.
E questo significava rallentare.
Cercò di contenere le proprie frustrazioni e si concentrò sulle buffonate della bimba. E questo gli ricordò