Vero fascino inglese: Harmony Collezione
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Info su questo ebook
Una cameriera tra le lenzuola?
Cade Grant è un uomo forte e molto affascinante, ma dal cuore di pietra.
La dolce e innocente Liv Tate è alla disperata ricerca di un lavoro e farebbe qualunque cosa pur di guadagnare qualche soldo, anche lavorare per il tenebroso ufficiale.
Basta un istante perché tra loro scocchi la scintilla e Cade si dimostri più interessato ad avere la nuova e bellissima domestica tra le braccia piuttosto che a pulire pavimenti. Ma Liv è irrequieta: le sue mansioni sono notevolmente cambiate. Ora il posto vacante è nel letto di Cade, dove lui ha intenzione di insegnarle tutte le cose che conosce.
Susan Stephens
Autrice di origine inglese, è un ex cantante professionista oltre che un'esperta pianista.
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Anteprima del libro
Vero fascino inglese - Susan Stephens
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
Housekeeper at His Beck and Call
Harlequin Mills & Boon Modern Heat
© 2008 Susan Stephens
Traduzione di Silvana Mancuso
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
Harlequin Mondadori S.p.A. All Rights Reserved.
© 2009 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-5892-201-9
www.eHarmony.it
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1
Era irrequieto. Non riusciva a stare seduto a lungo senza fare nulla. «Basta» disse, alzandosi.
«Ma, tenente colonnello Grant... Ma, Cade.» La reporter dall’aria zelante credette di addolcirlo chiamandolo per nome. Era destinata a fallire. «Non ha finito di intervistare i candidati per il posto di...» Si fermò e cercò di dare un effetto drammatico a quello che stava per dire. «... governante per un eroe.»
«Se intende dire le comparse...»
Le brillarono gli occhi. «Non si è fatto vivo nessuno... e quindi, per evitare che l’intervista fosse un completo disastro, ho procurato...»
«Comparse dalla sua troupe? Sì, lo so.» Cade allontanò la sedia. «E adesso potete mettere via tutto e tornarvene a casa. L’intervista è finita.»
Avrebbe dovuto prevedere che permettere a qualcuno di entrare nella sua vita privata sarebbe stato un errore: era divenuto un alibi per ficcanasare. Sperava solo di poter promuovere attraverso la televisione la trasformazione di Featherstone Hall in un centro di riabilitazione per reduci, servizio che intendeva estendere a tutto il paese. Ma alla reporter interessavano solo storie eroiche con spargimento di sangue. Così gli aveva detto. Lui era trasalito e, quando lei aveva proseguito dicendo che certe cose facevano miracoli per l’audience, era stato tentato di dirle di ritenersi fortunata di non essere un uomo, perché in tal caso l’avrebbe aspettata fuori. Digrignando i denti mentre aspettava che la troupe raccogliesse l’attrezzatura, si disse poi che in fondo non doveva biasimarla.
Doveva rallegrarsi che lei non avesse idea di ciò che aveva passato e che la cruda realtà le fosse stata risparmiata dietro lo scorrere delle immagini televisive.
Appena l’ultimo di loro se ne fu andato, si mise a riordinare e, non appena mise le tazze del caffè nel lavello stracolmo, l’intera pila si rovesciò. Imprecò tagliandosi con un pezzo di porcellana. Ora il taglio non smetteva di sanguinare...
Urtò qua e là, alla disperata ricerca di un cerotto. Come aveva potuto la sua casa trasformarsi in quel caos, mentre era via? La prima governante che aveva assunto, una donna dura e intransigente, cintura di karatè e più barbuta di lui, se n’era andata sbattendo la porta.
Nessuno aveva risposto al suo annuncio per rimpiazzarla. Secondo la reporter, la sua reputazione doveva aver scoraggiato chiunque. E il suo aspetto aveva fatto il resto, immaginò Cade, a giudicare dal modo in cui avevano guardato le sue cicatrici. Probabilmente avrebbero preferito puntare sui primi piani per sconvolgere i telespettatori. Toccandosi la barba, si guardò allo specchio. Avevano ragione.
E di certo non aveva il temperamento di un santo, ammise cupo, imprecando di nuovo quando si scottò la mano ferita mentre tentava di recuperare un’altra scheggia nel lavello. Ora il suo umore era proprio nero.
E peggiorò quando bussarono alla porta: qualcuno della troupe doveva aver dimenticato qualcosa.
«Sì?» Spalancò la porta. E fu costretto ad abbassare lo sguardo su una povera sciagurata in disordine con addosso una sorta di costume.
«Posso entrare?» chiese.
Cade la squadrò da capo a piedi. Represse una strana sensazione, ricordando che le apparenze possono ingannare. La ragazza era giovane, aveva capelli color miele sparpagliati in ciocche bagnate intorno a un viso a forma di cuore. Indossava un diadema, un po’ precario sulla testa, e scarpe di raso rovinate. Quelli che sembravano un abito da sposa e un velo erano lacerati e infangati... Guardandola, si rese conto che aveva pianto... Di pena o di sollievo, chissà. Ma di una cosa era certo: quello non era un costume. «Che cosa cerca?» chiese, sospettoso.
«L’annuncio di lavoro... Quello sul cancello...»
Ritraendosi, Cade si toccò la barba. Aveva bisogno di qualcuno, e presto. Prima, però, doveva assicurarsi di aver capito bene. «Intende candidarsi per il lavoro di governante?»
«So che non è un bel modo di presentarsi» rispose la ragazza, serrando le labbra nel tentativo di convincerlo. «Avrei preferito presentarmi con un abbigliamento più appropriato...»
«Ma?»
«Ma sono stata travolta dagli eventi.»
A dir poco. La ragazza sosteneva il suo sguardo con fermezza, e di certo quella non era una situazione rischiosa. «Va bene, può entrare.»
«Le dispiace se mi riscaldo?» chiese, dirigendosi dritta verso i ceppi accesi.
«Prego.» Era una richiesta ragionevole, stava tremando per il freddo. O per lo shock, non avrebbe potuto dirlo. Cade chiuse la porta e, quando si girò, la trovò intenta a togliersi il velo. Le braccia pallide brillarono rosee alla luce del fuoco, conferendole un aspetto più vulnerabile. L’ira, l’impazienza e la frustrazione cedettero il posto alla curiosità e a qualcosa di più di un fremito di desiderio inopportuno.
Tra la fuga dal matrimonio e l’arrivo lì, nella cucina di Featherstone Hall, tutto era stato orribilmente confuso, fino a quel momento, quando ogni cosa le era apparsa chiara. Aveva i sensi in allerta. E questo grazie all’uomo che la osservava appoggiato alla porta con le braccia piegate e la testa rovesciata indietro. La forza dello sguardo, l’ampiezza delle spalle, perfino l’immobilità, catturavano l’attenzione. Quando, scesa dall’autobus, aveva visto l’annuncio sul cancello, aveva immaginato di trovare un anziano in pensione, non un fusto in jeans e maglietta aderente. Non poteva essere più diverso dal povero Horace, il quasi marito che aveva abbandonato all’altare. Soffocando un singhiozzo al pensiero dello sguardo di Horace quando lei era scappata, Liv cominciò a togliersi l’abito da sposa che non meritava di indossare.
«Che cosa crede di fare?»
«Togliermelo...»
La voce dell’uomo, bassa e rauca, le procurò sensazioni che avrebbero dovuto essere vietate per legge; sensazioni che aumentarono il suo senso di colpa al punto che dovette confessare: «Ho fatto una cosa orribile».
«Rapina in banca? Omicidio?»
«Peggio.»
«Peggio?»
«Davvero, ho... fatto una cosa orribile e adesso non posso tornare indietro.»
«Così orribile?» Cade si sfregò la barba con il pollice.
«Posso rimanere qui?»
Vedendo le labbra tremanti e gli occhi pieni di lacrime, Cade seppe che doveva dimenticare l’elemento attrazione fatale e concentrarsi unicamente sulla questione. «Penso che dovremmo cominciare col presentarci, non crede?»
«Liv Tate» mormorò. Esitò un po’, poi si ricompose abbastanza da porgere una mano liscia e dalla manicure perfetta e aggiunse: «Il mio nome è Olivia, ma gli amici mi chiamano Liv».
Cade si avvicinò per stringerle la mano. Considerata l’evidente angoscia, la forza della stretta di Liv lo sorprese. La lasciò andare prima che qualsiasi altra sensazione potesse avere presa su di lui.
«Le ho detto il mio nome» gli ricordò, «ma non so ancora il suo...»
«Mi scuso.» Fece un leggero inchino. «Tenente colonnello Cade Grant... ma può chiamarmi Cade.»
«Cade...»
Quando le loro mani si toccarono, Cade avvertì una scossa indesiderata che gli ricordò perché stava alla larga dalla gente e, soprattutto, dalle donne come lei. Rifuggiva dai sentimenti. Tutti. Continuamente. «Qualcosa non va?» le chiese, vedendo che continuava a guardarlo.
«Tocca a me scusarmi. Ero solo sorpresa di sentire il suo nome. Non me ne sono resa conto subito quando ho visto lo stemma di famiglia sull’annuncio perché diceva Grant Featherstone Carew.»
«Immagini solo di firmare la ricevuta di un pacco.»
Il suo sguardo ironico la fece ridere. Le accese dentro anche un bisogno primitivo che l’agitò, riconoscendolo come desiderio immediato, potente e accecante.
Si ritrovò ancora più furiosa con se stessa per aver perduto la concentrazione. Si riebbe e rispose, compassata. «Sì, è perfettamente comprensibile che voglia accorciarlo.»
Tenente colonnello Cade Grant, eroe di guerra locale? Che tonta! Fuggire dal proprio matrimonio doveva averle annebbiato il cervello. Era difficile non imbattersi in qualche articolo di giornale o in qualche trasmissione televisiva che non parlasse del coraggio di Cade Grant sotto il fuoco nemico. Le ragioni del suo prolungato congedo potevano anche risultare un po’ vaghe, ma nessuno metteva in dubbio il diritto di un eroe a un po’ di riposo. «Certo, ho sentito parlare di lei, chi non lo ha fatto? E so che non dovrei stare a guardare...»
«Guardare che cosa?» chiese lui. «Le cicatrici?» L’umore crollò mentre si toccava la faccia.
«Cicatrici?» Si accigliò, poi gli occhi si rischiararono non appena le notò. «Mi scuso di nuovo, non le avevo notate. Stavo solo pensando che è meglio di presenza che sullo schermo...» Deglutì, arrossì e strinse le labbra come se non si fidasse ad aggiungere altro.
Sorpreso, Cade ebbe una gran voglia di sorridere.
Cominciando a darsi da fare con i bottoncini sulla parte anteriore dell’abito, Liv inarcò la schiena verso di lui. «Può aiutarmi, per favore?»
Cade esitò, e poi pensò: perché no?
Liv lo sentì muoversi dietro di lei con il passo felpato di un grosso gatto. Fu circondata dal suo calore, che le inviò dei formicolii lungo la schiena. Ne sentì l’odore, pulito e muschiato con un accenno di dentifricio. Trattenne il respiro quando le si avvicinò e la toccò.
«Questa cosa terribile che ha fatto... è pronta a dirmi di che si tratta?»
Tra un attimo, quando riuscirò a respirare di nuovo! Per la verità, aveva sperato che non glielo chiedesse. Provava una tale vergogna. Aveva deluso tutti, soprattutto sua madre: quello, in realtà, era il suo giorno. Per non parlare di entrambe le famiglie. E Horace. Il senso di colpa la tramortì, pensando a Horace.
«Allora?» la incitò Cade.
Arrossì per la vergogna. Per essere un uomo così imponente e duro, la voce poteva diventare incredibilmente gentile. Le fece desiderare di parlare. «Ho abbandonato il mio fidanzato all’altare...»
Aspettò la reazione, ma Cade mugugnò appena, e cominciò a sbottonarle l’abito. Il tocco di quelle dita sulla pelle nuda rese impossibile parlare per un po’.
«Vada avanti» la incoraggiò. «Ha cominciato, tanto vale finire tutto il racconto.»
Liv spalancò gli occhi per il suggerimento, finché non ridiede alle cellule cerebrali una sorta di ordine. «Horace era buono... era davvero un bravo ragazzo. Non meritava tanto...»
«Deve aver fatto qualcosa di sbagliato.»
Si lambiccò il cervello. «No... è solo andata così...»
«Stia ferma, vuole? Altrimenti non posso sbottonare questo qui.»
Liv si irrigidì, poi si rilassò con le sensazioni esplosive create dal tocco leggero di Cade. «Il reato peggiore di Horace...» riuscì a dire, scoprendo che era difficile trovare un equilibrio tra il bisogno di sentire di più e il bisogno di tirar fuori le cose.
«Il reato peggiore di Horace?» la incoraggiò Cade.
Batté forte gli occhi appena Cade slacciò un bottone vicino alla vita e lei sentì il riverbero del suo tocco verso il basso. «Era troppo gentile» sbottò, spostandosi in avanti fuori dalla portata di Cade.
«Troppo gentile? E sarebbe?»
«Ma così immaturo... capisce...» Cercò di fare un tiepido tentativo di spiegargli che cosa voleva dire. «Ogni volta che Horace vedeva una ragazza carina al golf club, lui...» Si morse un labbro. Non poteva arrivare a essere sleale a tal punto, non adesso, per giunta.
«Capisco.»
No, non capiva. O almeno, Liv sperava di no. Horace