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Oltre la nebbia il cielo (eLit): eLit
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E-book353 pagine4 ore

Oltre la nebbia il cielo (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Il momento sbagliato. L'uomo sbagliato. Joelle ha desiderato un figlio per anni. E ora che si scopre incinta, il mondo le crolla addosso. Un groviglio di sensi di colpa e sofferenza e una moglie, Mara, che è la sua migliore amica, la separano dal padre del bambino, Liam. Con lui Joelle condivide il dolore e la preoccupazione per la sorte di Mara, costretta in una casa di cura, per mesi si sono alternati accanto al suo letto, per cogliere le ultime tracce di un sorriso ormai spento. Ogni giorno. Tranne uno. Poi, dopo tanto dolore, una donna che viene dal passato, un'anziana guaritrice dai poteri straordinari, il miracolo nel quale tutti hanno ormai smesso di sperare.
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2018
ISBN9788858981498
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    Anteprima del libro

    Oltre la nebbia il cielo (eLit) - Diane Chamberlain

    successivo.

    Prologo

    Big Sur, California, 1967

    La nebbia, un'ovatta bianca e corposa, avvolgeva la costa e si muoveva lenta e pigra nell'aria. Chi non conosceva Big Sur, difficilmente avrebbe individuato i dodici piccoli capanni della Comune di Cabrial che punteggiavano la scogliera a picco sull'oceano. La nebbia non era un fenomeno straordinario per quella zona, ma negli ultimi sette giorni non si era mai diradata. Per tornare a casa, i venti adulti e i dodici ragazzini della Comune dovevano indovinare quale fosse la strada che portava alle loro abitazioni; e solo una volta entrati potevano essere sicuri di averla trovata. I genitori raccomandavano ai figli di non giocare vicino all'orlo della scogliera e le madri più ansiose li costringevano a restare in casa al mattino, quando la foschia era più densa. Gli uomini che lavoravano negli orti erano costretti a chinarsi fino a terra, per non strappare i germogli di lattuga e dei cavolini di Bruxelles invece delle erbacce. Qualcuno, di notte, ne approfittava per infilarsi in un letto diverso dal proprio, per quanto non occorressero pretesti: nella Comune l'amore era libero ed era bandita ogni forma di gelosia.

    In quella terza settimana d'estate, gli abitanti della Comune di Big Sur avevano l'impressione di essere ciechi: i rumori giungevano soffocati, la sirena delle navi si riduceva a un lamento di cui non si percepiva la provenienza, e non capivano neppure se il mare si apriva di fronte a loro oppure alle spalle.

    Un suono, tuttavia, riuscì a fendere la nebbia. Le grida giungevano da uno dei capanni e i bambini, alcuni nudi, smisero di giocare a nascondino e cercarono di capire da dove provenissero quei lamenti. I più sensibili, o i più paurosi, rabbrividirono. Alla fine realizzarono ciò che stava accadendo. A Cabrial non esistevano segreti, neppure per i più piccoli. Nella casetta numero quattro, il capanno Arcobaleno, Ellen Liszt stava partorendo.

    Nella piccola radura di fianco al capanno, Johnny Angel era impegnato a spaccare legna. Si era levato il giubbotto e la felpa e li aveva appoggiati sulla balaustra traballante del portico, rimanendo a petto nudo. Malgrado la nebbia, era una giornata afosa.

    Felicia, la levatrice, all'interno del capanno sterilizzava i ferri e le forbici su una minuscola stufa. Johnny intuì che ci sarebbe stato bisogno di altra legna, sebbene ne avesse già tagliata molta. Sollevò di nuovo l'ascia e la fece ricadere più volte, quasi ipnotizzato dalla violenza con cui infieriva sui ceppi. Ogni tanto s'interrompeva per aspirare una boccata di fumo dalla sigaretta appoggiata sulla balaustra, e nei momenti di pausa sentiva il cuore battere all'impazzata. Gli tremava la mano per la fatica, ma non era solo quello il motivo, lo sapeva. Trasaliva a ogni grido di dolore che proveniva dalla camera da letto, e non smetteva di vibrare colpi d'ascia, nella speranza assurda di far tacere le grida.

    Non sarebbero durate ancora per molto, si disse. Le doglie erano iniziate di notte. Come aveva stabilito con Ellen, Johnny si era precipitato al capanno Raggio di luna, avanzando a tentoni nella nebbia e nel buio. Aveva svegliato Felicia e lei, afferrata la borsa con gli strumenti, si era diretta al capanno Arcobaleno. Quando aveva visto Ellen alla luce della lanterna, Johnny si era spaventato: sembrava molto più giovane e più piccola dei suoi diciott'anni, una ragazzina piena di paura. Johnny non riusciva ad avvicinarsi, non sapeva cosa dire, come toccarla, come aiutarla. Ellen aveva il viso sudato, respirava a fatica. Johnny temeva che potesse vomitare, e lui odiava vedere qualcuno vomitare, lo faceva star male.

    Aveva lasciato sole le due donne ed era uscito dal capanno per andare alla catasta di legna. Non si aspettava che ci volesse tanto tempo. Quante ore erano passate? Sapeva soltanto che aveva fumato due pacchetti di Kools e il mentolo era sul punto di incendiargli la gola.

    Felicia gli aveva chiesto se desiderava assistere al parto e Johnny era rimasto immobile, con gli occhi sbarrati. Non voleva restare in quella stanza. Ora però si sentiva un vigliacco. Sapeva di uomini che si erano battuti per il diritto di entrare in sala parto con le proprie donne, e due abitanti di Cabrial avevano assistito le compagne mentre davano alla luce i loro bambini. Ma Johnny aveva diciannove anni e non era come quegli uomini. E poi Ellen non si trovava in una sala parto, era sdraiata sul vecchio materasso matrimoniale steso sul pavimento, nella piccola stanza che avevano condiviso negli ultimi sei mesi. Al posto delle lenzuola c'erano fogli di giornale, perché, a sentire Felicia, il processo di stampa era garanzia di sterilizzazione. Felicia non era un'ostetrica e neppure una levatrice, era soltanto la mamma di quattro bambini che in quel preciso istante giocavano a nascondino nella nebbia.

    Quando ne avevano parlato, a Johnny era sembrata una buona idea che fosse Felicia a far nascere il loro bambino: le donne, dopotutto, da sempre aiutavano altre donne a partorire. Ma adesso che stava accadendo, adesso che le urla di Ellen gli facevano rizzare i capelli, molte delle abitudini di Cabrial, che prima reputava convincenti, gli parevano grottesche.

    I suoi genitori non avevano nascosto il disappunto quando lui aveva manifestato l'intenzione di trasferirsi nella Comune di Big Sur con Ellen. Johnny aveva descritto la vasta costruzione di pietra, la sala in cui la comunità si riuniva a mangiare; tutti gli ospiti erano tenuti ad alternarsi in cucina e nei turni di pulizia, aveva spiegato con entusiasmo. E sua madre, pronta, gli aveva chiesto perché in passato non si fosse mai degnato di aiutarla nelle faccende domestiche. Per un po' i suoi genitori avevano scherzato sui nomi dei capanni – Arcobaleno, Raggio di luna, Polvere di stelle – ma quando avevano saputo che alla Comune non esisteva il telefono si erano preoccupati. Alla fine, lo avevano minacciato: se si fosse ritirato da Berkeley per trasferirsi a Big Sur non gli avrebbero mai più allungato un centesimo, né per la scuola né per altro. Johnny aveva risposto che andava bene così. Non c'era bisogno di molto denaro per vivere nella Comune. Lui e Ellen avrebbero coltivato la terra e si sarebbero presi cura l'uno dell'altra.

    Eppure, in quel momento, Johnny avrebbe dato qualsiasi cosa perché sua madre fosse lì, con lui. Lei non immaginava neppure che suo figlio stava per diventare padre. E l'avrebbe mortificata sapere che il suo primo nipote nasceva in quel modo, senza assistenza medica, e al di fuori del matrimonio. Johnny riusciva a stento a immaginare le reazioni dei suoi genitori di fronte al rituale che sarebbe seguito alla nascita. Felicia avrebbe sotterrato la placenta, piantandovi sopra un albero perché l'anima del bambino rimanesse legata a quella terra di pace.

    Il tredicesimo bambino. Di colpo, mentre aggiungeva altri pezzi di legna alla catasta, a Johnny venne in mente che suo figlio, o sua figlia, sarebbe stato il tredicesimo nato nella Comune. Di solito non era superstizioso, ma il pensiero lo riempì di timori. Non voleva che il suo bambino nascesse con una maledizione sulla testa. Si chiese se lui e Ellen non avessero preso quella gravidanza troppo alla leggera. Accese un'altra sigaretta. Si erano già immaginati il loro bambino. Non gli avrebbero mai tagliato i capelli e, se l'avesse desiderato, gli avrebbero permesso di andarsene in giro nudo, per non provare imbarazzo verso il proprio corpo. Quel bambino, o quella bambina, sarebbe cresciuto nella Comune di Cabrial senza le regole e le costrizioni imposte dalla società. Quanto all'educazione, lo avrebbero istruito adulti che condividevano i medesimi valori. Avevano discusso sui nomi possibili: Shanti Joy, se fosse nata una femmina, e Sky Blue, se avessero avuto un maschio. Johnny si era prospettato una vita idilliaca, ma ora temeva che lui e Ellen avessero scherzato col fuoco.

    Con le braccia doloranti e l'ennesima sigaretta fra le dita, si sedette su un gradino del portico. In quel momento Ellen ricominciò con i lamenti. Johnny strinse gli occhi per non sentirla. Amava Ellen? Prima, quando aveva accompagnato Felicia nel capanno, gli era sembrata un'estranea, la pelle che luccicava di sudore, le ciocche di capelli scuri appiccicate al viso. Ellen occupava più della metà del materasso: aveva messo su un bel po' di chili durante la gravidanza. Avrebbe fatto la fine di Felicia, che era l'immagine della Madre Terra. Una donna grassa, dai capelli lunghi, ricci e grigi. Si vergognò di quei pensieri. Non conta niente, si disse, l'aspetto non conta. Nelle condizioni di Ellen, anche lui sarebbe sembrato un mostro. Schiacciò il mozzicone sotto il sandalo, poi scattò in piedi e, accarezzandosi la barba nera e rada, la barba di un ragazzo, guardò fisso davanti a sé, oltre la nebbia. Se la giornata fosse stata limpida avrebbe potuto scorgere l'oceano al di là dei capanni e della scogliera a strapiombo sul mare. Ma lo sguardo era costretto a fermarsi sulle nuvole di nebbia.

    All'improvviso si rese conto del silenzio. I lamenti e le grida erano cessati. Johnny si girò verso la porta. Era tutto finito? Perché il bambino non piangeva? Sentì un rumore di passi sul pavimento di legno, poi Felicia si affacciò dalla zanzariera, il viso paonazzo, l'aspetto selvatico.

    «Aiutami, Johnny» disse. «È una bambina e non respira. Porta qui subito quella donna arrivata ieri notte, l'amica di Penny, Carlynn. Lei è medico.»

    Johnny annuì e corse in direzione del capanno Fiordaliso, dove abitava Penny. Si augurò di riconoscerlo nella nebbia. C'era stato diverse volte, di notte, nei due mesi precedenti. Era stata Ellen a incoraggiarlo, a spingerlo nelle braccia di Penny per fare sesso. In quei mesi lei non aveva voglia di fare l'amore.

    Le gambe riconobbero la strada che portava al capanno. Aveva visto quella donna in soggiorno, la sera prima, ma non conosceva il suo nome. Sapeva soltanto che era una vecchia amica di Penny e che era lì di passaggio. Una ragazza minuta e sottile, dai grandi occhi blu. I capelli biondi e spettinati, lunghi fino alle spalle, le incorniciavano il viso in maniera molto attraente. Doveva avere circa trentacinque anni, come la madre di Johnny, ma non aveva un aspetto materno, e neppure quello di un medico.

    Quando Johnny irruppe in soggiorno, Penny e Carlynn erano sedute alle due estremità del divano, intente a cucire. Trasalirono per l'intrusione.

    «La bambina non respira...» riuscì a dire Johnny.

    Carlynn abbandonò ago e filo e si precipitò verso la porta. Lui e Penny la seguirono.

    «Da che parte?» chiese Carlynn mentre si faceva strada nella nebbia.

    Johnny le afferrò un braccio e la trascinò in direzione del capanno Arcobaleno. Si fermò soltanto quando furono sugli scalini dell'ingresso.

    «È qui» disse indicando la porta.

    Carlynn gli prese il polso e lo tenne stretto: «La tua ragazza ha bisogno di te». Johnny capì di non avere scelta.

    L'interno del capanno era soffocante, l'umidità toglieva il fiato, Ellen piangeva e tremava come se avesse la febbre. Quando vide Johnny, allungò una mano verso di lui. Johnny si chinò a baciarle la fronte bagnata di sudore e fu sul punto di piangere. Era stato debole e stupido, pensò mentre l'abbracciava, aveva lasciato che sopportasse tutto da sola. Avrebbe dovuto rimanere lì, accanto a lei, durante il travaglio. Vide Felicia e Carlynn affaccendarsi attorno a sua figlia. Il tredicesimo bambino.

    «Il cordone era avvolto intorno al collo» spiegò Felicia.

    Carlynn annuì. Si protese sulla neonata e le soffiò nel naso e nella bocca. Una respirazione d'emergenza. Johnny si aspettava che seguissero pianti e strilli, invece sentì solo il lamento di Ellen che riempiva la stanza.

    Carlynn fece un altro tentativo, mentre Felicia si sedeva, con gli occhi umidi. «Se n'è andata» mormorò. «Se n'è andata.»

    «Non è possibile, non voglio» gemette Ellen. Johnny la strinse a sé e appoggiò le guance umide contro le sue.

    Poi Carlynn sollevò la bambina e Johnny vide le piccole braccia cadere senza vita lungo i fianchi. La pelle era quasi grigia. Carlynn abbracciava la piccola in modo strano, i palmi appoggiati sul petto e sulla schiena, le labbra contro le tempie bluastre. Teneva gli occhi chiusi e le ciglia sfregavano rapide le guance; il respiro era lento, profondo.

    Nella stanza cadde il silenzio. Johnny dubitava che Carlynn si comportasse da medico e non capiva quali fossero le sue intenzioni.

    Lei fece un altro respiro profondo, che si trasformò in un lento flusso di calore contro la tempia della bambina. Dopo qualche istante, si udì un mugolio. Carlynn le alitò ancora sulla fronte e all'improvviso nella stanza esplose un pianto. La bambina riprese colore, Carlynn la avvolse in una vecchia coperta di lana e la porse a Ellen.

    Johnny abbracciò la sua compagna e sua figlia: un senso d'amore e di gratitudine gli riempiva il cuore. Fuori del capanno la nebbia si stava diradando e per la prima volta in quella settimana Big Sur fu abbagliata dalla luce del sole.

    1

    Penisola di Monterey, California, 2001

    A metà della notte, Joelle guardava la nebbia galleggiare fuori della finestra, una nebbia calata all'improvviso che la separava dal resto del mondo. Non riusciva a dormire. L'insonnia si faceva sentire soprattutto in estate. Si svegliava ogni mattina nell'appartamento in penombra, in un condominio dalle tapparelle bianche. Due anni prima, subito dopo il divorzio, si era trasferita alla marina di Carmel, attratta dalla bellezza di una cittadina così quieta.

    In realtà, non era soltanto la nebbia a tenerla sveglia in quella notte di inizio giugno. Joelle si rigirava nel letto, tormentava in continuazione il cuscino. Da due settimane si chiedeva se le fitte pungenti che le attraversavano la pancia fossero dovute all'arrivo del ciclo. Non era mai stata regolare. A volte passavano mesi senza che avesse le mestruazioni; altre volte si manifestavano a distanza di una o due settimane. Proprio la loro imprevedibilità aveva reso problematico, se non impossibile, il concepimento durante gli otto anni di matrimonio con Rusty. L'assenza del ciclo dava a entrambi un'illusione, che si infrangeva non appena il test di gravidanza aveva esito negativo. Forse era stata proprio la mancanza di un figlio la causa del fallimento del loro matrimonio. Due anni prima, quando gli esami medici non avevano dato risultati chiari, Rusty era stato molto diretto: aveva incontrato un'altra e le aveva chiesto il divorzio. Joelle si sarebbe aspettata di soffrire, invece si era sentita sollevata. La loro unione, ormai, si era ridotta a un unico obiettivo, e Joelle era stanca di controllare la temperatura, di ripetere il test delle urine, di farsi visitare da nuovi medici. Una vita troppo pianificata aveva sciupato l'amore. Le supposizioni su chi dei due fosse sterile trovarono conferma quando la nuova moglie di Rusty rimase incinta. Adesso lui era diventato il padre orgoglioso di un maschietto e Joelle invece sapeva che non avrebbe mai avuto figli.

    Dalla strada salirono voci di persone che ridevano e schiamazzavano. Il letto di Joelle era nel mezzo della stanza, tra le finestre aperte, e per un attimo le sembrò che tutta quella confusione provenisse dalla sua stessa casa, o da se stessa. Il palazzo dove abitava era a una certa distanza da Ocean Avenue, la via principale di Carmel, ma i turisti a volte erano costretti a parcheggiare lontano dal centro. Joelle immaginava di chi fossero le voci: villeggianti che non dovevano svegliarsi presto per andare al lavoro, gente che aveva trascorso la serata dentro e fuori i negozi e le gallerie d'arte, per concluderla a cena in ristoranti suggestivi. Si premette il cuscino sulla testa e chiuse gli occhi.

    Il suo era uno dei due appartamenti di una casa d'epoca che, un tempo, era stata la residenza di un'unica famiglia. Si trovava a soli tre isolati dall'oceano e dalla spiaggia di sabbia bianca di Carmel. La sera, dalle finestre della camera da letto e del soggiorno, quando la nebbia non era troppo fitta, poteva guardare il sole che calava nel Pacifico. I suoi vicini, Tony e Gary, erano una coppia gay che viveva nell'appartamento al piano terra. I rapporti con loro erano cordiali, a volte pranzavano insieme, oppure guardavano un film sul televisore gigante di Tony e Gary. Avevano vent'anni e sembravano felici insieme. Quando sentiva le loro risate provenire dall'appartamento di sotto, Joelle aveva l'impressione di essere ancora più sola.

    I turisti salirono in macchina, Joelle sentì i colpi delle portiere che sbattevano. Nascose la testa sotto il cuscino. Non riusciva a prendere sonno.

    Gettò di lato le coperte e andò in bagno. Dall'armadietto sopra il lavandino prese un vecchio sacchetto di plastica, lo portò con sé in camera e sparse il contenuto sul copriletto. Un termometro per misurare la temperatura basale, l'occorrente per calcolare il periodo dell'ovulazione e i test di gravidanza: risalivano ai tempi del matrimonio con Rusty. Non sapeva nemmeno perché li avesse portati con sé. Guardò la confezione di un test, prese la scatola e l'aprì con calma. Gettò le istruzioni nel cestino della spazzatura: non ne aveva bisogno, le aveva già lette decine di volte. Tornò in bagno e si sedette sul wc: tenne il bastoncino sotto il getto dell'urina e contò fino a dieci.

    Finse indifferenza quando rimise il cappuccio sul tester e lo capovolse. Poi, davanti allo specchio, si sistemò i capelli arruffati, lunghi e neri. Attese tre minuti, quindi guardò la striscia assorbente. Due linee rosa, una in ciascun riquadro. Le guardò con stupore. Per otto anni aveva sperato che comparisse la seconda lineetta e non era mai accaduto. L'intensità del colore era evidente. Il momento sbagliato per un miracolo.

    Cercò di restare calma e controllò la data di scadenza sulla scatola: valida per un anno. Aprì un'altra confezione, di una marca differente. Aveva sempre voluto sperimentare tutte le marche, nel caso i test mostrassero esiti discordanti. Un modo per regalarsi una speranza. Questa volta lesse le istruzioni e le seguì scrupolosamente. Il risultato fu lo stesso. Il test prevedeva un colore diverso, e apparve una linea blu.

    «Cerca di essere razionale» si disse mentre usciva dal bagno. «Mantieni la calma.» Quando si fu stesa sul letto, con delicatezza posò le mani sulla pancia e fissò il soffitto avvolto nella penombra.

    «Non può succedere» pensò. «È solo un brutto scherzo. Momento sbagliato, uomo sbagliato.»

    Era ancora all'inizio, abbastanza per un aborto. Conosceva la data esatta del concepimento: otto settimane prima. Scacciò dalla mente l'immagine di quella notte, per impedire che potesse ossessionarla di nuovo. Non le serviva una gravidanza per ricordare ciò che aveva fatto.

    Si girò su un fianco: poteva rivolgersi a una clinica specializzata fuori città. Conosceva molte ostetriche, dal momento che lavorava come assistente sociale nel reparto maternità del Silas Memorial Hospital di Monterey, ma non osava rivolgersi a qualcuno che conosceva. Otto settimane soltanto, sarebbe stato facile, avrebbero risolto tutto in fretta. Si chiese se avrebbe avuto il coraggio di abortire, di ignorare il desiderio di avere un bambino. E desiderava tanto averne uno.

    Saltò giù dal letto e raggiunse la finestra, con lo sguardo fisso sulla notte nebbiosa. Doveva valutare le diverse possibilità. Tutte implicavano complicazioni e l'eventualità di dispiacere agli altri, oltre che a se stessa. Incinta da otto settimane. Premette la fronte contro il vetro gelido. Il sonno non sarebbe comparso quella notte. Eppure, malgrado tutto, un vago e perfino piacevole senso di gioia si nascondeva tra la preoccupazione, la paura e l'incertezza.

    Il giorno successivo, quando Joelle entrò al Silas Memorial, il reparto maternità le apparve diverso dal solito. Quella mattina, le convalescenti che camminavano lente per i corridoi e il pianto dei neonati assunsero un nuovo significato. Qualche mese più tardi, lei stessa avrebbe potuto essere una di quelle donne e suo figlio uno di quei bambini che strillavano affamati. Erano bellissimi.

    Trovò Serena Marquez, la caposala, in infermeria.

    «Sei tornata» disse Joelle, e la strinse in un abbraccio. «Hai portato le foto?»

    «Certo che ha le foto» s'intromise Lydia, un'altra infermiera. «Penso che abbia passato tutto il periodo della maternità con gli occhi dietro una macchina fotografica. Spero tu abbia la mattinata libera.»

    Joelle posò il raccoglitore con le cartelle cliniche. «Posso vederle?» chiese a Serena.

    «Dobbiamo prima parlare dei referti.» La neomamma era raggiante e non vedeva l'ora di mostrare le foto del suo piccolo, ma si trattenne e indicò le cartelle nelle mani della collega.

    Joelle si sedette su uno sgabello, lesse a voce alta i nomi delle pazienti e studiò i casi: due richieste di aiuto a domicilio inoltrate da un paio di ragazze madri, una difficile questione di rapporti equivoci tra mamma e figlio, un bambino nato da una cocainomane, un uomo che negava la paternità, un bambino nato morto. La normale casistica di un reparto maternità.

    Trattare situazioni problematiche faceva parte del suo lavoro, ma occuparsi dei familiari di un bambino nato morto era una delle situazioni peggiori che potessero capitare. Era la seconda volta che succedeva a quella donna. Joelle, più colpita e partecipe del solito, guardò Serena.

    «Come sta?» si informò.

    «Non molto bene» rispose Serena. «Una donna simpatica, di trentacinque anni. Dopo aver perso il primo bambino, pare abbiano lottato molto per avere questo.»

    Trentacinque. Se avesse deciso di tenere il bambino anche Joelle avrebbe avuto trentacinque anni al momento della nascita.

    «Perché è successo?»

    Serena scosse la testa. «Cause ignote.»

    «Che tragedia» commentò. «Tutte e due le volte, e senza sapere il motivo.» Fece a Serena qualche domanda sulla donna e la sua famiglia, quindi prese in mano le fotografie del bambino di Serena. Gettò una rapida occhiata alla mamma: aveva le guance colorite e, sebbene non avesse ancora smaltito tutti i chili presi in gravidanza, esibiva un aspetto radioso, che Joelle le invidiò. Aveva ventotto anni, era al primo figlio. Si domandò se il reparto maternità avesse assunto un aspetto diverso anche per lei, quando era incinta. Ma non osò chiederlo.

    Joelle scelse di incontrare per prima la madre del bambino nato morto e notò subito, mentre varcava la soglia della camera, che la paziente le assomigliava. Aveva i capelli lunghi e scuri, con una folta frangia, ed era graziosa, se non proprio bella. Il marito, seduto accanto a lei, le teneva la mano, mentre la madre era in piedi all'estremità del letto. L'atmosfera della stanza lasciava trasparire l'amore che li legava, era una sensazione quasi palpabile. Ecco la differenza tra lei e quella paziente, pensò. Quella donna era sposata, con un marito che, senza dubbio, l'amava.

    «Com'è potuto accadere di nuovo?» domandò la madre della ragazza, ma era una domanda a cui Joelle non poteva rispondere. Tutto ciò che aveva da offrire era un po' di conforto e di solidarietà. Si intrattenne con loro, lasciando che piangessero e si sfogassero, quindi chiese se volevano vedere il bambino.

    «No» disse la donna con decisione. «Abbiamo già visto l'altro e...» Singhiozzò e strinse i pugni. «Non posso sopportarlo ancora. Non voglio vederlo.»

    Joelle era d'accordo. Di solito tentava di persuadere i genitori, ma in questo caso condivideva la loro decisione. Sapeva che erano consapevoli di ciò che rifiutavano. Non li biasimava e comunque sarebbe tornata più tardi, nel caso avessero cambiato idea. Lasciò la stanza mezz'ora dopo. Era sicura che quella donna che le assomigliava tanto, che aveva lottato per rimanere incinta, adesso desiderava rimanere sola con il suo dolore. Due bambini, amati e persi. Joelle pensò alla piccola vita che le cresceva dentro. L'aveva già capito la notte passata e ora non aveva più dubbi. No, non avrebbe abortito.

    La caffetteria dell'ospedale era stata ristrutturata l'anno precedente con pareti color malva e ampie vetrate che guardavano sul cortile del Silas Memorial. Joelle si fermò all'ingresso della zona pranzo con il vassoio. Cercava di convincersi che il profumo del suo piatto fosse invitante. Aveva scelto fegato, spinaci e un bicchiere di latte. Ora doveva mangiare anche per il suo bambino: il bambino che avrebbe avuto a qualsiasi prezzo.

    Cercò tra i tavoli i due colleghi. Li vide vicino alla finestra e li raggiunse.

    «Ciao ragazzi» li salutò, mentre appoggiava il vassoio sul tavolo. Prese posto accanto a Paul, di fronte a Liam. Pranzavano sempre tutti e tre insieme, quando i turni lo consentivano.

    «Come mai il fegato?» fece Paul con una smorfia.

    «Così, tanto per cambiare.»

    Paul Garland si occupava dell'unità pediatrica e dei malati di AIDS. Lavorava al Silas Memorial da un anno soltanto, ma, grazie alla precedente esperienza ospedaliera, si era inserito bene. Sulle prime, Joelle e Liam avevano pensato che fosse gay. Era un uomo attraente, sempre vestito con eleganza, i capelli scuri corti e ben tagliati e gli occhi verdi che accompagnavano un sorriso seducente. Non c'era da stupirsi che avesse fatto il modello per una catena di negozi d'abbigliamento. Poi però Liam e Joelle avevano conosciuto la fidanzata di Paul e avevano capito che la sua attenzione per i malati di AIDS non aveva niente a che vedere con l'omosessualità.

    Liam prestava servizio al pronto soccorso, in cardiologia e nel reparto oncologico. Era l'opposto di Paul, almeno sul piano fisico. I capelli castano chiaro, piuttosto lunghi e ondulati, gli sfioravano la

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