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La mia ora di vento
La mia ora di vento
La mia ora di vento
E-book147 pagine1 ora

La mia ora di vento

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Info su questo ebook

"Poche cose colpiscono immediatamente un lettore quanto l'autorevolezza di una voce, e la forza e solidità di un fraseggio. La voce di Cassino è, fin dalle prime righe, intimamante autorevole. Così, grazie al suo controllo stilistico, la semplice passeggiata di un bambino in compagnia di genitori che sembrano essersi dimenticati di lui, diventa una scena madre, un'istantanea di sicura efficacia, l'architrave di una storia. La mia ora di vento, da subito, si rivela un romanzo ambizioso, nel suo articolarsi su piani temporali diversi e lontani, lungo direttrici che soltanto in apparenza divergono. Le ferite nascoste sotto la superficie ordinaria della quotidianità emergono con forza in una narrazione autentica, quella di Cassino, che esplora il tema della memoria, della memoria, della perdita e della capacità di ritrovare se stessi."
Scuola Holden

Presentato al Premio Strega 2014
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2021
ISBN9788832940282
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    Anteprima del libro

    La mia ora di vento - Gerardo Pepe

    Gerardo Pepe

    La mia ora di vento

    ISBN: 978-88-3294-028-2

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    STEFANO

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    STEFANO

    VECCHIO SCARPONE

    NINO

    VECCHIO SCARPONE

    È vietata la riproduzione

    Con qualsiasi mezzo

    Di questo volume o di parte di esso

    Senza l’autorizzazione della Casa Editrice

    © Copyright 2014 by E DIZIONI I L P APAVERO

    I Edizione marzo 2014

    ISBN e-book 978-88-3294-028-2

    Copertina a cura di Vincenzo Pinto

    A mio padre che ora vive nel vento.

    NINO

    Un giorno di sole. Marzo. Ho freddo. Hanno detto che mi farà bene passeggiare. Sono un bambino gracile. Ma appena fuori la porta di casa ho avuto l’impressione che mi avessero dimenticato dentro e fossero usciti da soli per continuare a parlare. Discutere e poi alzare il tono della voce. Litigare.

    Sono certo che non mi abbiano vestito adeguatamente. Soffia il maestrale. Lo sento infilarsi dentro gli abiti. Come me dentro alle loro parole. Di tanto in tanto sento il mio nome, Nino. È per questo motivo che ho freddo? Non so. Il vento mi sembra meno cattivo del loro parlare. Li detesto quando si guardano negli occhi e vorrebbero dilaniarsi. Sono una parola fredda in questo mattino di primavera.

    Cammino davanti a loro. Potrei iniziare a correre e loro non si accorgerebbero di nulla. Soldati feroci del loro odio. Ma resto quieto a precedere i passi di quei due. Non si rendono conto che io decido l’itinerario della passeggiata. Sono concentrati nel loro discutere. Io sono il padrone di due mastini. Li porto a guinzaglio davanti al mare. Tanto non sanno dove andare e un posto vale l’altro.

    Io non mi stanco di vedere il mare. Posso non ascoltarli se mi fermo con lo sguardo tra le onde.

    Mi siedo su di un muretto grigio. Sotto c’è una piccola spiaggia di pietre scure. Il mare poco più in là. I miei stanno seduti su di una panchina. Ogni tanto recuperano dei brevi silenzi. Si alza più deciso il vento. Viene dal mare. Il sole è freddo.

    Adesso non so cosa stanno facendo. Volto loro le spalle. M’incanto. Le loro parole dure non mi arrivano più. Il mare è davvero bello.

    Giorgio mi tocca la spalla. Non mi sono accorto che si era avvicinato.

    Vuoi un gelato?, mi domanda.

    La mamma è d’accordo, così lui si allontana per comprarmi un cono. Io sento freddo. Non volevo un gelato. Non ha atteso la mia risposta. Si è trovato subito d’accordo con la mamma. Sono solidali nel disinteressarsi di me. Forse è la sola cosa che li unisce. E li divide da me.

    Indosso una camicia azzurra a righe e una maglietta di lana marrone. Il colore si è un po’ stinto. Mi sono dimenticato di pettinarmi. Non credo di avere l’aspetto di un bambino florido.

    Vorrei che il rumore del mare diventasse la voce di un mostro marino e inghiottisse Giorgio e Olga. Sono un bambino cattivo se desidero queste cose?

    Vorrei che nella pancia del mostro smettessero di agitarsi e magari, dopo digeriti, venissero evacuate due persone silenziose, pronte ad ascoltare il vento freddo di marzo.

    La mamma non si avvicina, resta sola sulla panchina, si gode un po’ di sole, di silenzio. Porta quel misero tailleur grigio come fosse un capo all’ultima moda. Quella spilla d’oro non impreziosisce la stoffa di un vestito ormai fuori mercato. Ora mi sembra un’estranea. È sola. Una donna che combatte una battaglia persa.

    Giorgio avanza, i suoi capelli biondi, lisci gli ingombrano la fronte alta e spaziosa. È per metà ungherese. La mamma gli rinfaccia le sue origini. Deve esserci qualche zingaro tra i suoi antenati che non ha lasciato in eredità alcuna caratteristica fisica ma solo l’incapacità di fermarsi in un luogo per molto tempo. Ma noi non siamo un luogo. Siamo persone. Facciamo parte del suo carrozzone. Non può lasciarci per strada. Almeno la mamma. La mamma dice che è matto. Da quando il padre era scomparso tragicamente deve essergli saltata qualche rotella. Non si è saputo che fine abbia fatto. Faceva parte della resistenza contro il partito nazista. Giorgio una volta le rinfacciò che mentre suo padre era stato un lurido fascista, il suo era morto in quella che a Budapest chiamavano la Casa del Terrore. Una villa in Andrassy utca, nel pieno centro della città.

    Io mi sentivo completamente estraneo al nonno eroe. Ma anche il fascista mi era indifferente. I nonni non sono necessari. Almeno per me. Io mi governo da solo.

    Giorgio mi porge un cono alla nocciola e pistacchio. Si porta via il fazzoletto di carta. Si pulisce le dita. Ritorna alla panchina. Non mi piace la nocciola, né il pistacchio. Non conosce i miei gusti. Eppure mi compra sempre gelati. Sceglie lui i gusti. Decide per tutti. Anche per la mamma. Lei si ribella. Io no.

    Ritorno con lo sguardo verso il mare. Chiedo il permesso di camminare sul molo. La mamma non vorrebbe. Giorgio invece mi accorda la richiesta a patto di non allontanarmi troppo. Il gelato comincia a colare. Non lo voglio. Lascio cadere la nocciola nel mare. In un istante scompare inghiottita dall’acqua scura. Ora tocca al pistacchio. È più difficile buttarlo. È scivolato nella cavità del cono. Non mi resta che una scelta. Spezzo la cialda. Pluff. Anche il pistacchio si liquefa nel mare. Diventa mare. Diventa rumore. Ora posso gustare il rumore gelato. Ritorno verso di loro. La mia vendetta è compiuta. Non è stato un bel pomeriggio. La discussione riprende forza. Io sono stanco. Vorrei tornare a casa. Mi fanno cenno di sedermi. Lontano da loro. Mio padre è rosso in viso. Olga, mia madre, vorrebbe schiaffeggiarlo come fa con me. Lo so, riconosco il fremito alle mani e l’espressione degli occhi che precede un ceffone.

    Se mi avvicino prende a schiaffi me. Ne sono sicuro.

    Il sole sta calando. Un vecchio mi passa davanti. Mi osserva incuriosito. Poi mi posa una moneta in mano e prosegue.

    Mi ha scambiato per un mendicante. Forse per uno zingaro. Sarà vera quella storia dell’antenato che racconta la mamma. Per un momento mi viene voglia di gettare in mare quel soldo. Poi mi trattengo. Ritornerebbe come un rumore sordo, troppo metallico. Brucia tra le mie dita. Decido di lasciarlo sulla balaustra. Mi vergogno. E vorrei anche piangere. Eppure ostento felicità. Sorrido come un equilibrista sul filo. Può morire eppure sorride a tutti.

    Forse il vecchio ha capito. Ha compreso che sono solo. Mio padre è già partito. La mamma non se ne rende conto. È partito quando ha deciso di partire. Ci ha già lasciati. Vive già in America. Cammina già per Boston. La mamma si è lanciata in mare per raggiungerlo. Io resto sulla banchina. Non agito fazzoletti bianchi. Spero che almeno Olga ritorni. Giorgio è perso.

    A un tratto anche il mare mi sembra piccolo. Forse perché lo costringo nell’ampiezza di una lacrima che indugia, non vuole raccogliere la mia infelicità. Devo sorridere. Anche se vorrei partire per un luogo che non conosco. Dove il mare non sa di essere mare. Dove i bambini non hanno bisogno di essere felici.

    Da grande voglio essere solo, libero. Non m’interessa nessuno. Nemmeno quei due che fanno cenno di tornare da loro.

    STEFANO

    Nella camera di quest’appartamento, di proprietà dei genitori di Bianca, un vuoto siderale. Mi sento estraneo. Lei canticchia il mio nome nel bagno. Non posso escludere che queste mura non sopportino la mia presenza. Io sono venuto dopo. Sono un intruso nel dolore che si è cementato in essa. Anche le cose possono ribellarsi. Quel lume, come lo scrittoio, pensa. Forse non basta cambiare tappezzeria per distruggere il passato. Nulla può essere cancellato del tutto. L’eloquente sconfitta dell’azione.

    Bianca è sotto la doccia. Sento l’acqua scorrerle addosso. Io rimango a letto. Il letto dei suoi genitori. Un pomeriggio di caldo afoso. Le lenzuola sono fresche al primo passaggio. Poi il corpo le arroventa. Devi muoverti per non sudare. Il letto è in piena ribellione. Non sopporta più il corpo. Mi alzo. Raggiungo Bianca.

    Stefano… vuoi rinfrescarti? il tono di voce è accondiscendente, complice.

    M’infilo sotto la doccia. L’acqua è fresca. Bianca si avvicina. I suoi seni premono sul mio petto. Mi bacia sul collo. Sento la lingua muoversi lentamente. Asciuga e bagna la pelle. Io resto a godere dell’acqua. Lei gode del mio contatto. È un semplice baratto. Io ho bisogno di una casa e lei di un corpo.

    Bianca esce dalla doccia. Mi lascia solo. Con un’erezione senza via di scampo. Ma dura poco. Mi lavo in fretta. Bianca deve uscire. Io devo lavorare tra poco.

    È quasi sera. Abbiamo fatto l’amore per tutto il pomeriggio. La casa ci ha visto. Anche i ritratti di Giovanni e Letizia. Mi sento i loro occhi addosso. Forse anche Bianca. Ma per lei è una sfida. Per me un semplice fastidio. Il padre di Bianca, Giovanni, trascorreva le sue giornate immobile in questo letto. Letizia si consumava sulla poltrona accanto. Maledicendo la sorte che era capitata loro.

    Su quella poltrona Bianca ama farsi penetrare da dietro. Abbraccia la spalliera facendo aderire il seno alla tappezzeria rossa. Io in piedi dietro di lei. È un oltraggio. Calpesta le immagini che non riesce a cancellare.

    Bianca, sorta all’improvviso dalla nebbia di un mattino d’autunno. Entrò nel bar dove lavoravo. Indossava una gonna grigia lunga fino alle caviglie. Mi chiese un caffè a voce bassa, quasi roca. Un cappello di lana le nascondeva il viso minuto. Lei bevve il caffè senza aggiungere zucchero. Mi disse il suo nome. Come mancia. Il suo sguardo, azzurro gelo, si posò attento e fermo su di me. Poi ritornò nella nebbia. Senza lasciare traccia.

    Me ne dimenticai completamente. Passa

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