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Crooked City
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E-book495 pagine5 ore

Crooked City

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Info su questo ebook

Dal fallito tentativo di uccisione di un cavallo da corsa, commissionata da un misterioso personaggio, deriva una serie di eventi che coinvolge persone che neanche si conoscono, ma la cui concatenazione avrà poi ripercussioni essenziali e fondamentali nella vita di ognuno di loro, facendoli convergere nel finale comune.
In questo romanzo hard boiled non ci sono eroi positivi o negativi, non ci sono vincitori né vinti, ma soltanto la vita: cinica, crudele, spietata, incomprensibile. Unica chance dei personaggi è quella di decidere come affrontare le proposte del fato e, sulla loro sopravvivenza, influiscono anche le scelte degli altri, come nella realtà.
Lo stile sincopato, volutamente frammentato e aritmico, è lo stile della vita quotidiana: che ti dà e ti toglie senza preavviso, senza spiegazioni.
E senza alcun motivo i buoni diventano cattivi e viceversa.
Perché in ognuno di noi c’è buono e cattivo.
Sta a noi miscelare la nostra esistenza.
LinguaItaliano
Data di uscita24 nov 2021
ISBN9788855391863
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    Anteprima del libro

    Crooked City - Francesco Orrù

    CAPITOLO 1

    Era stata una notte ventosa.

    Quel dannato fottuto vento.

    Lo amava.

    Gli piaceva sentire i fischi mentre passava fra le ante delle finestre.

    Le lasciava aperte apposta.

    Gli venivano in mente i pomeriggi trascorsi in estate in Italia, in Sardegna, precisamente.

    Amava affacciarsi dal balcone per guardare fuori, col cielo plumbeo che sovrastava il mare agitato, ad ammirare le onde che si rincorrevano incessantemente con ritmo ipnotico, con quel colore grigio argentato cupo dato dai riflessi di luce degli schizzi sugli scogli.

    Era stato un bambino fortunato: la casa sulla collina antistante il mare era il suo luogo di vacanza estiva.

    Poi era cresciuto.

    Era diventato ormai un professionista stimato e molto impegnato.

    Ma non perdeva occasione di andarci appena fosse possibile, anche se significava attraversare l’oceano.

    Il profumo del mirto che si levava dalla macchia circostante, rigogliosa e folta, era il segnale che era arrivato a casa.

    In realtà, già da quando arrivava a una casa cantoniera, durante il percorso dall’aeroporto, e le imponenti e maestose rocce di granito sostituivano l’orizzonte di insignificanti pendii collinosi, già da lì, si sentiva a casa.

    Lungo la strada tortuosa si intravedeva il mare, e si poteva capire dove andare a pescare in base alla direzione delle onde; vi erano così tante cale in quella zona frastagliata che era possibile trovare un posto ridossato qualunque fosse il vento.

    Che non mancava mai.

    I suoi pensieri al risveglio corsero a quei momenti, rimpiangendo le tante volte che avrebbe potuto andare al mare in bicicletta attraverso il sentiero scosceso dove, solo col fuoristrada, si poteva passare.

    Oggi non poteva più farlo.

    Ron Logan aveva 52 anni.

    In un attimo ripensò alla sua vita.

    Cazzo, 52 anni.

    Di occasioni, rinunce, scelte sbagliate e qualche colpo di culo.

    I colpi di culo gli fecero venire in mente Dio.

    Credeva in Dio, a modo suo.

    Dio lo ripagava con un aiuto, di tanto in tanto.

    Lui la chiamava provvidenza, un altro le avrebbe definite fortunate coincidenze.

    Mentre si faceva la doccia pensava alla giornata che lo attendeva.

    Doveva lavorare fino al tardo pomeriggio probabilmente.

    Poi… non si poteva prevedere.

    Il poi dipendeva dalle urgenze del suo mestiere.

    Uno schifo di mestiere che adorava.

    Aveva rinunciato a se stesso per la sua professione.

    Fare il veterinario era stato naturale: adorava i gatti.

    Ma ogni animale lo attraeva e incuriosiva: li amava per l’animo puro, l’assenza di malizia.

    Gli studi erano stati semplici, da un punto di vista didattico.

    Ma logisticamente erano stati una sofferenza, in una città che era una giungla.

    Poi si era trasferito in quella città sul mare.

    Non era la stessa cosa, ma almeno gli ricordava la casa sulla collina.

    Perché dal balcone si godeva il vento, ammirando le onde.

    Squillò il cellulare.

    Uscì grondante dalla doccia ancora insaponato.

    Riconobbe il numero sul display.

    «Ehi, che c’è di così grave da disturbare il tuo capo così presto?» disse in scherzosa antitesi col suo tono divertito.

    Una voce per nulla allegra all’altro capo.

    «Quanto impieghi ad arrivare dai Ferguson?»

    Era Guy. Il suo assistente, Guy Dover.

    Volenteroso e preparato, era anche un bel ragazzo.

    Se non fosse stato timido, si sarebbe potuto scopare Miss America.

    Magari ci stava lavorando, sulla timidezza.

    «Dipende da cosa succede. Se serve anche 15 minuti...»

    «Ok, ci vediamo lì tra 10 minuti, allora.»

    E chiuse.

    Forse la timidezza di Guy stava migliorando.

    Durante il tragitto verso la tenuta dei Ferguson pensava ai vari scenari che avrebbe potuto trovare.

    Di solito Guy era molto scrupoloso nelle anamnesi, fosse stata anche la stitichezza di un cardellino. Stavolta aveva avuto fretta.

    Brutto segno.

    Frank Ferguson era un allevatore di campioni.

    Cavalli, tori.

    Basta che fossero bestie selezionate, con pedigree.

    Voleva solo animali da competizione. Vincenti.

    Qualche bestia doveva aver avuto qualche casino grosso.

    Se no Guy non sarebbe stato sbrigativo.

    Magari lo stava già assistendo.

    La guardia all’ingresso riconobbe il suo pick-up da quando ancora era distante.

    Sfrecciò attraverso le barriere sollevate dirigendosi verso le stalle.

    Già da lontano si intravedeva un trafelato movimento di inservienti.

    Parcheggiò sollevando un polverone, ma nessuno fece caso a lui.

    Facendosi largo fra la gente che occupava l’ingresso alle stalle, avvertì una sensazione di angoscia diffusa.

    Il cavallo era disteso per terra, con delle coperte inzuppate attorno alle zampe.

    Circondato da sangue per terra, sulle pareti, in parte coagulato, in parte fresco.

    «Da quanto è così?»

    Anche se capì che ormai non aveva molta importanza, osservando il tremore dell’animale, massiccio e muscoloso.

    Il tempo era quasi scaduto.

    Discostò i teli e uno zampillo di sangue lo sfiorò, andando a ravvivare le fresche macchie purpuree sulla parete.

    Guy, in affanno, cercava di posizionare un ago in vena per idratarlo.

    Il cavallo, oramai allo stremo, non aveva quasi più pressione.

    Incannulò la vena ed emise un gemito di soddisfazione.

    «Bravo, buttagli dentro liquidi con anestetico. Qualcuno prenda la bombola di ossigeno dal furgone: non c’è tempo per intubarlo, lo facciamo con la maschera.»

    Contemporaneamente Ron tirò fuori dalla borsa un grosso bisturi, con cui raggiunse la ferita profonda dell’arteria, sotto i poderosi muscoli di Ramses.

    Era il purosangue vincitore degli ultimi due Gran Premi nazionali.

    Gli ultimi ormai che avrebbe vinto nella sua carriera.

    A mani nude posizionò il divaricatore, incurante dei lamenti e dei movimenti, ormai poco efficaci, del robusto animale.

    Raggiunse l’arteria carotide attraverso lo squarcio tra i muscoli.

    Ciò che vide gli fece capire che non era stato un incidente.

    Era stato un professionista a ferire Ramses.

    Il vaso sanguigno era stato tagliato in lungo, per rendere ancora più irrefrenabile l’emorragia e più complicato e difficile un eventuale intervento disperato.

    Goffamente e istintivamente provò a stringere il grosso vaso, ma l’estensione del taglio rendeva inutile quel tentativo.

    «Guy, passami un portaaghi medio e un prolene 4/0.»

    Il filo di sutura era relativamente grosso ma doveva fare in fretta.

    I punti dovevano essere pochi e regolarmente distanziati, per contenere l’emorragia.

    Con la bocca arsa dall’emozione, si umettava le labbra assaporando il sudore salato che grondava dalla fronte.

    Era concentrato su ogni punto che passava sulla parete della grossa arteria.

    Non aveva una seconda occasione.

    Buona la prima.

    O addio Ramses.

    Il sangue continuava a fluire, con schizzi regolari, sempre più lenti.

    «Chef, la pressione scende.»

    «Ancora un paio di punti e vedrai che sale.»

    «Butto dentro soluzione idrosalina?»

    «Butta dentro qualunque liquido hai a disposizione.»

    La lingua era arida.

    Schioccava tra i denti.

    Terminò la sutura e tirò delicatamente i capi del filo.

    Legò in apnea: annodando, pregava.

    L’emorragia si arrestò.

    Attraverso le lenti degli occhiali inumidite dal suo stesso sudore, guardò Guy che gli fece un cenno di assenso col capo.

    Mentre valutava le condizioni generali dell’animale, nemmeno percepì il brusio di ossequiosa ammirazione della piccola folla che si accalcava all’ingresso della stalla.

    «Che ne pensi, Chef?» disse Guy.

    «Non mi piace, aspettiamo qualche minuto.»

    L’animale continuava a tremare, nonostante il sangue fluisse regolarmente all’interno del suo corpo.

    Ma ne aveva perso troppo.

    Ebbe una serie di convulsioni.

    Poi si calmò, ansimante.

    «Bisogna fargli una trasfusione, altrimenti morirà.»

    Guy stava diventando meno timido. Decisamente.

    Ron si guardò attorno.

    Nella folla vide Frank.

    Frank Ferguson era l’allevatore, il padrone di Ramses.

    «Frank, possiamo salvarlo solo tentando una carta disperata, che potrebbe anche non funzionare. E che comunque non servirebbe a farlo tornare a correre come prima, ma solo a salvargli la vita.»

    «Che cazzo dici? La ferita è suturata, perché non potrebbe più correre?»

    «Senti, tu sei il padrone del cavallo e devi decidere tu. Per quello te lo sto chiedendo. Non posso perdere tempo a spiegarti perché non potrà più correre come prima, posso solo dirti che devi darmi il permesso di fare ciò che ho già deciso di fare.»

    Una strana ombra di panico apparve nel viso di Frank.

    Non era uno che aveva dimestichezza con l’indecisione.

    «Cristo, fai quello che devi, salvalo, fanculo se non correrà più, gli voglio bene come a un figlio a questo figlio di puttana.»

    Si guardarono intensamente per un lungo istante, l’uno grato all’altro per quello che stava facendo.

    «Portatemi il padre di Ramses» gridò agli inservienti.

    Quelli indugiarono giusto il tempo di cogliere il definitivo assenso di Frank.

    Con le lacrime agli occhi, sembrava un bimbo fragile in balia di un incubo.

    Stanley Rowe, il factotum di Frank, condusse Neige, il padre di Ramses, nella stalla.

    Masticando tabacco, biascicò qualcosa.

    Non sfuggì alle orecchie di Guy.

    «Se lei non ritiene che stiamo operando bene, può anche uscire e lasciarci lavorare in pace.»

    Cristo, dov’era la timidezza di Guy?

    Aveva sentito che se hai un tumore al cervello perdi i freni inibitori: sperò che non fosse il suo caso.

    Non si sarebbe mai aspettato che potesse rivolgersi così a Stan.

    Forse Stan aveva permesso solo alla madre di parlargli così. Forse.

    Stan si scusò.

    «Ecco, ho solo paura che possa succedere qualcosa a Neige, è il mio cavallo preferito.»

    «Non preoccuparti, Stan» intervenne Ron. «Siamo qui per tentare di salvare Ramses, non per fare fuori anche il padre.»

    Inserì due grossi aghi nelle vene dei due cavalli.

    Ramses ancora respirava, ma non ne aveva per molto.

    Ricevette da Guy un capo di un deflussore, che nel frattempo aveva collegato alle vene di Neige.

    Li connetté.

    «Ok Stan, fai marciare Neige avanti e indietro… Guy, attento che l’ago non fuoriesca.»

    «Tranquillo Chef, ci sono io a tenerlo» disse Guy che, salito in groppa a Neige, premeva forte sul cerotto che copriva l’ago inserito nella grossa giugulare.

    Neige aveva una pressione superiore a quella del figlio: il sangue del padre iniziò a fluire all’interno del corpo di Ramses.

    Ramses ebbe una serie di convulsioni.

    La bava gli usciva abbondante dalla bocca.

    La lingua enorme era impastata di paglia e terra.

    «Non basta, non basta!»

    «Cazzo Chef, dobbiamo aumentare la frequenza cardiaca del padre.»

    «Spronalo, fallo andare più veloce.»

    «Tutti fuori dalle palle!» urlò Frank disperato, rivolgendosi ai curiosi presenti che invadendo l’atrio delle stalle impedivano ampi movimenti circolatori del cavallo.

    Stan si parò davanti a tutti con le braccia aperte e a grossi passi spinse fuori dalla stalla la piccola folla.

    «Fuori dai coglioni tutti, su, forza, perdio.»

    La frequenza cardiaca di Neige divenne oltre il doppio di quella di Ramses.

    Finalmente il sangue paterno iniziò prepotentemente a scorrere anche nelle vene di Ramses, che iniziò a diminuire progressivamente di tremare.

    «Credi che funzionerà?» la voce di Frank denotava speranza e incredulità.

    «È l’unica cosa che possiamo fare al momento. Non c’è tempo di portarlo in una qualunque clinica» rispose Ron, sperando in cuor suo che il sangue del padre fosse compatibile con quello del povero Ramses.

    CAPITOLO 2

    La serata era fresca.

    L’odore dell’erba bagnata fortunatamente ci stava bene col suo dopobarba: doveva stare attento anche ai particolari.

    Del resto, la serata di gala era stata organizzata per lui.

    Frank era stato di parola.

    «Se ne esce, ti organizzo la festa più sfarzosa a cui tu abbia mai partecipato.»

    Quando aveva sentito queste parole, Ron non era tanto convinto che la festa avrebbe avuto luogo.

    Invece Ramses, dopo l’iniziale trasfusione dal padre, reagì positivamente, per cui fu condotto nella clinica veterinaria del dottor Fred Stoppard, dove ricevette le successive cure necessarie.

    Lo stesso Stoppard enfatizzò l’arguzia e l’ingegno di Ron, sottolineando che senza quel gesto estremo il cavallo sarebbe sicuramente morto.

    Ron non era un tipo mondano: non gli piacevano i salamelecchi o i discorsi di circostanza.

    Era estremamente pratico, crepuscolare e introverso.

    Un orso.

    Trovava sempre una scusa dell’ultimo minuto, per schivare le feste.

    Iniziava a pensare a cosa inventarsi già da quando lo invitavano.

    Ma stavolta non poteva esimersi dal partecipare: Frank aveva insistito parecchio per celebrare il salvataggio di Ramses.

    Ron si era arreso alla volontà di Frank, ma aveva tentato fino alla fine.

    Il giorno era arrivato.

    Si dirigeva, colla sua giacca di lino beige, verso il patio della villa di Frank, dopo aver lasciato le chiavi dell’auto a un ragazzotto coi capelli rossi e le lentiggini che sosteneva di essere il parcheggiatore.

    Mentre l’orchestra suonava Fumblin’ with the Blues di Tom Waits, salì le scale che conducevano al grande atrio attraverso cui si accedeva al giardino, posteriore alla casa, creato e curato dalla signora Ferguson.

    «Ron buonasera, che piacere vederla.»

    Le parole erano in contrasto con l’espressione di Rosemarie Ferguson.

    Il disappunto per l’abbigliamento di Ron era tangibile.

    Ma a lui andava bene così: non si sentiva a suo agio tutto impomatato in un qualche cazzo di smoking. Nel suo armadio c’erano solo jeans.

    E qualche giacca per le occasioni eleganti.

    «Signora Ferguson, lei è sempre incantevole.»

    Glielo disse fissandola negli occhi.

    Con notevole sforzo e concentrazione.

    L’istinto gli consigliava di perdersi nel profondo décolleté che quasi arrivava all’ombelico.

    Miss Arizona 2003 poteva permetterselo.

    Gli occhi azzurri di Rosemarie si spostarono verso l’ingresso.

    Congedò Ron con un sorriso da trentacinquemila dollari vedendo arrivare il sindaco Sean.

    Valse la pena stare a guardarla raggiungere il sindaco: il vestito bianco era aderente nei punti giusti.

    «Signore, un drink?»

    Una paffuta ragazzina con l’apparecchio gli offriva un bicchiere con dentro un liquido rosastro e qualche bacca sconosciuta.

    «Grazie, è alcolico o analcolico?»

    La paffutella esitò, non capendo se Ron la stesse prendendo in giro.

    «Ehm, per disposizione del signor Ferguson, tutti i drink sono alcolici.»

    «Ah ok, allora passo, grazie.»

    Anche se era alla festa, il telefono era sempre acceso in tasca. Per una eventuale urgenza.

    «Ron, non bevi?»

    Guy, in una mano uno di quei drink rosastri con qualche bacca dentro e nell’altra la mano di una ragazza con due tette enormi, era molto elegante in un abito gessato blu, con cravatta celeste.

    Squadrò Ron.

    «E poi, perché sei vestito così?»

    Cosa stava succedendo a Guy?

    Lo stava prendendo per il culo, era mezzo ubriaco, in compagnia di una tettona…

    Ma non era timido?

    «Da quanto mi conosci, Guy? Questo è il massimo della mia eleganza. Del resto sai come la penso.»

    «Sì, lo so che ritieni che sia la persona che rende l’abito elegante e non viceversa, ma questo vale se sei Rosemarie Ferguson, non Ron Logan.»

    La tettona rise sguaiatamente.

    Che cazzo rideva questa scema?

    Ron si guardò intorno.

    Erano tutti nei loro abiti eleganti, blu o neri.

    Effettivamente in giacca beige e jeans c’era solo lui.

    Ma nessuno di quei pinguini impomatati aveva salvato Ramses.

    Fanculo, pensò.

    A tutti, e in particolare alla tettona.

    «Che cazzo hai da dire sul mio aspetto fisico?» disse passandosi la mano piatta sull’addome.

    La pancetta era appena accennata.

    Era sempre in movimento tutti i giorni, non aveva bisogno di frequentare palestre.

    Quelle erano per fighetti sfaccendati.

    Lui sicuramente non aveva il tempo di andarci.

    Guy capì che era andato oltre.

    «Scusa Chef, l’ho detto solo per mandarti un messaggio per il tuo bene, lo sai che ci tengo a te.»

    «Tranquillo, le critiche sono sempre ben accette» disse strizzando l’occhio al ragazzo, rosso in faccia più per l’imbarazzo che per l’alcol.

    Vide che lo sguardo dei due si spostava dietro al suo viso.

    «Lei è il dottor Logan? L’ospite d’onore?»

    Si girò, sentendo una fragranza di gelsomino, una sensazione di pulito.

    Immediatamente sprofondò negli occhi color nocciola della brunetta che aveva alle sue spalle qualche attimo prima.

    Venne assorbito da lei.

    Si dimenticò anche che l’orchestra aveva appena attaccato con Harlem Nocturne nella versione di Johnny Otis.

    «Sono Ron Logan, lei è?»

    Il sorriso furbetto gli ricordava qualcuno.

    La brunetta tese la mano.

    «Carter Hawkins, piacere.»

    Cristo, ecco chi era.

    Ron si accorse di sorridere.

    «Dal vivo devo dire che è molto meglio che in foto, anche se essendo molto fotogenica, anche in foto è bellissima.»

    Che cazzo stava dicendo?

    Sembrava un imbranato. Come lui pensava che fosse Guy.

    Carter sorrise, abituata alle lusinghe degli uomini da quando a 14 anni era stata nominata reginetta della sua scuola.

    Che poi fosse diventata una top model internazionale era stata solo una normale evoluzione della forte immaginazione che suscitava negli uomini.

    «Ho saputo che il motivo di questa festa è il suo intervento su Ramses, gli ha salvato la vita.»

    Sembrava che parlasse di una persona, tanto era il rispetto per l’azione descritta.

    «È stata solo fortuna… per le condizioni in cui era, ormai dissanguato, tecnicamente non ho fatto niente di speciale, solo una piccola sutura e una trasfusione.»

    «Beh, che sappia io, e non è molto, per fare una trasfusione ci vuole il sangue, che al momento non c’era… con un metodo originale ha risolto brillantemente una situazione disperata.»

    «La ringrazio, Carter.»

    «Apprezzo la sua umiltà, dottore, è una dote poco comune, soprattutto fra le persone presenti in questa festa.»

    Non ci credeva che stava parlando con lei.

    L’aveva vista poco prima in costume da bagno su un cartellone gigante lungo la strada verso la tenuta di Frank Ferguson.

    Carter continuava a parlare e lui si chiedeva cosa stesse dicendo. Non voleva che finisse.

    Stava già pensando al dopo.

    Il dopo era la parte più difficile.

    Lei gli si era avvicinata e... dopo?

    Ron non voleva perdere l’occasione che ci fosse, un dopo.

    Ma non ascoltarla non avrebbe reso le cose più facili.

    Decise di concentrarsi.

    Non sapendo cosa avesse detto, iniziò un nuovo discorso.

    «Secondo lei, dove posso trovare un cocktail analcolico?»

    Lo guardò perplessa.

    Poi si coprì la bocca, per nascondere un iniziale sorriso.

    «A casa di Frank?»

    Risero entrambi, anche perché lei percepì l’imbarazzo di Ron che, nonostante fosse l’ospite d’onore della festa, sembrava un pesce fuor d’acqua.

    «Se ha piacere, quando finisce la festa, la potrei accompagnare in un cocktail bar, a poche miglia da qui, dove fanno drink di tutti i tipi.»

    Cristo, si stava profilando un dopo.

    Lui finse disinvoltura, ma era in un subbuglio di tachicardia e lingua impastata.

    Non riusciva a credere che lei avesse detto se ha piacere.

    Cazzo, si sentiva l’uomo più fortunato del mondo.

    Riuscì comunque a fingere una calma composta.

    «Direi che sarebbe meglio se ci dessimo del tu, visto che dobbiamo fare una cosa così intima, che ne dici?»

    Lei rise, con una raffinatezza che la tettona non immaginava neanche che esistesse, assecondando la richiesta del tu.

    «Ecco Frank» disse lei. «Lo sapevi che è il mio padrino?»

    Avvicinatosi con discrezione, sottobraccio alla moglie, il padrone di casa strinse la mano a entrambi.

    «Conosci una delle creature più belle del mondo e me lo tieni nascosto?» disse Ron.

    Frank sorrise.

    In realtà sorrise di più, perché quando era abbracciato a Rosemarie aveva un sorriso permanente.

    «Le presento solo ai più meritevoli, ecco perché oggi siete entrambi qui.»

    Si guardarono compiaciuti.

    Carter aveva un’aria radiosa di serenità, lo fece subito sentire come una persona che conosceva da anni.

    Guy e la tettona si avvicinarono.

    «Posso avere il suo autografo?»

    Ron pensò che la tettona avesse elaborato il massimo di un discorso che era in grado di fare, almeno per la stima che aveva di lei.

    Gli era stata subito sulle palle.

    «Jen, forse la signorina Hawkins in questo momento non è disponibile per le pubbliche relazioni.»

    Ron capì due cose: che la tettona si chiamava Jenna o Jennifer e, soprattutto, che probabilmente Carter era single.

    Il suo sorriso divenne ancora più ampio.

    Alla fine anche la tettona aveva dato il suo contributo.

    Guadagnò punti.

    Carter fece uno scarabocchio su uno scontrino che tirò fuori casualmente da una tasca interna.

    La tettona fece un saltello di gioia, guardando avidamente il suo prezioso cimelio.

    Guy la osservava, ed ebbe l’ennesima riprova che le tette non sono tutto in una donna.

    Ron e Frank si guardarono ridendo sotto i baffi.

    Affiorarono ricordi di gioventù, anche loro avevano dato la precedenza alle tette.

    «Dovrebbe chiedere l’autografo al dottor Logan, in realtà. È lui l’ospite d’onore.»

    Anche modesta, pensò Ron.

    «L’unica volta che ho fatto un autografo è quando mi hanno scambiato per un’altra persona. Ero in spiaggia e sentivo dire da tutti che c’era in zona Peter Gabriel, sapete, quello dei Genesis. Beh, mi guardavo attorno, ma proprio non lo vedevo, anche se la gente guardava verso di me. Cazzo, mi dicevo, è vicino a me, e sono l’unico stronzo che non lo vede? Fatto sta che mi si avvicina una donna e mi chiede se posso farle l’autografo. Io la guardo e le chiedo perché. Lei mi dice che ha comprato tutti i miei dischi fin dal primo e che ama le mie canzoni. Cazzo, Peter Gabriel ero io.»

    Tutti accolsero con una risata il racconto di Ron.

    Tranne la tettona.

    Lei voleva l’autografo, fanculo le storie.

    Porse penna e un pezzetto di carta all’illustre, per lei, sconosciuto.

    Ron scrisse Peter Gabriel.

    CAPITOLO 3

    «No dai, quando ti ha dato il foglietto per firmarlo, dovevi vedere la tua faccia!»

    Nella folla del Davidson Café, i Foo Fighters cantavano Breakout.

    C’era voluto solo qualche minuto perché il proprietario del locale trovasse un tavolino per loro due.

    Aveva subito riconosciuto Carter.

    Li aveva pregati di attendere un attimo.

    Come potevano vedere, il locale era pieno.

    Ma avrebbe trovato un posto per loro. Per lei, in realtà.

    Aveva parlato col buttafuori.

    Questo si era avvicinato a due ragazzi, che occupavano un tavolo con la scusa di una birra, solo per importunare le cameriere.

    Avevano discusso.

    Il primo ragazzo era volato fuori dal locale.

    Il secondo, più ragionevole, aveva anche trovato il tempo di pagare il conto, prima di uscire coi suoi piedi.

    Intanto il padrone aveva preparato un cartello con la scritta Carter Hawkins è stata qui.

    Con lo spazio per la foto.

    «Sai che non ci credevo che veramente me lo stesse chiedendo?»

    Erano anni che non rideva così.

    Soprattutto perché era felice di essere con lei.

    Ma anche per la faccia di Guy.

    Arrivò il padrone del locale, con un sorriso estasiato.

    E col cartellone.

    Dietro di lui una ragazzetta annoiata masticava rumorosamente un chewing gum come se fosse il suo unico motivo di vita, con in mano una Nikon con mega obiettivo.

    «Potrebbe essere così gentile da regalarci una foto, per immortalare la sua presenza nel mio locale?»

    Carter acconsentì sorridente, con un minimo cenno del capo.

    Attrasse a sé Ron, cingendogli il collo.

    La ragazzetta fece la foto, Carter al centro fra Ron e il tizio estasiato.

    Ron non aveva mai avuto la sensazione che una foto potesse durare così tanto.

    In quella frazione di secondo, in cui percepì il contatto col fianco di Carter, il suo profumo, il suo calore, si risvegliarono in lui sensazioni sopite, ibernate.

    Pregò Dio di non doversi mettere in piedi.

    Sarebbe stato imbarazzante.

    Arrivò alla conclusione che aveva trascurato lati ancora interessanti del vivere.

    Che cazzo stava succedendo?

    Era in un locale per ragazzini a bere e divertirsi con una delle donne più belle del mondo.

    Lui, un cinquantenne squattrinato, anonimo, con la pancetta.

    Squattrinato per gli standard di Carter, abituata a frequentare gente che per noia elargisce donazioni mentre fa colazione sullo yacht.

    Sorseggiava un cocktail di frutti esotici, in uno di quei momenti che speri che non passi mai.

    La temperatura era ideale, con quel piacevole caldo secco e le luci della sera all’imbrunire, quando anche il posto più merdoso del mondo sembra un presepe illuminato, in un contrasto di cielo blu-grigio con l’illuminazione stradale infarcita dai variopinti neon delle insegne e il rosso bianco delle vetture incolonnate.

    «Cosa fa un veterinario, quando non fa il veterinario?»

    «Sono single, mi arrangio a sopravvivere. E lavoro.»

    Così, tanto per chiarire.

    «Ah, come le top model, quindi.»

    Bene, ci aveva tenuto a sottolineare che anche lei era libera.

    «Ma come? Con tutti i corteggiatori che avrai, sei single?»

    «Sì, ma il nostro ambiente non è così come lo si descrive. Nel senso che non ci sono tutte quelle occasioni per… avere relazioni, diciamo. Cioè, non più di quelle che si possono avere in una vita normale, ecco.»

    «Davvero? Forse si crede così perché siete tutti giovani e belli e quindi…»

    «La bellezza fisica ti attrae all’inizio ma poi quello che ti tiene legato a una persona è la complicità di coppia, lo stare bene insieme, il voler condividere i piaceri della vita, lo stare abbracciati nei momenti difficili. Cose che capitano a tutti, no?»

    Ron la guardava incantato.

    Bella fuori e ancora più bella dentro.

    «Il mondo della moda poi è visto come un fast food del sesso, ma ti assicuro che non è così per tutti. Forse all’inizio ti lasci trasportare dai facili guadagni che, associati alla giovane età, possono condurre a comportamenti dissoluti. Ma poi ti guardi intorno e vedi solo persone che lavorano sodo, fanno sacrifici per curare il proprio corpo per attenersi a certi requisiti, persone che hanno un’anima che non viene considerata: per chi ti paga è importante solo il tuo corpo. Poi puoi essere una stronza, una santa, quello che vuoi… non importa a nessuno come sei dentro, ma solo l’aspetto esteriore. E ti assicuro che questo ti fa crescere psicologicamente e ti fa apprezzare ancora di più il lato nascosto, interiore, delle persone.»

    «Sì, effettivamente avevo una visione più serena e spensierata del mondo delle modelle. Sembrano tutte felici e bellissime.»

    «Dietro quella bellezza ci sono rinunce pesanti, privazioni di ogni tipo. Dietro quella felicità apparente ci sono persone che hanno preoccupazioni, che hanno una vita normale con tutti i problemi che questa comporta.»

    «Cristo» Ron si portò la mano alla bocca. «Scusami Carter, ma è stata un’esclamazione spontanea.»

    Lei rise.

    «Non preoccuparti, ho sentito di peggio» piegò la testa di lato.

    I capelli si discostarono dal viso, scoprendo un orecchio.

    Era bellissimo anche quello.

    Si accorse che lui era distratto.

    «Tutto ok, Ron?» gli sfiorò la mano.

    Lui si riprese dall’imbambolamento.

    «Sì, perdonami, sono stato distratto dal tuo orecchio.»

    Lei assunse un’espressione perplessa.

    «Eh?»

    «Sì, sai stavo pensando» arrossì «che è perfetto anche l’orecchio».

    Risero entrambi.

    Carter si sorprese a stare bene con lui.

    Decise che la prima impressione che aveva avuto, vedendolo nella stalla, era assolutamente fondata.

    «Parlami di te.»

    «Svolgo una vita normale, nel senso che faccio di tutto, curo i miei hobby, la musica, la pesca, qualche uscita con gli amici, la spesa, leggo libri thriller e noir… ho un ambulatorio privato e mi programmo le visite come mi pare. Se mi chiamano per le urgenze, devo correre e mollare tutto. Lavoro molto, in realtà, il mio lavoro assorbe gran parte della mia giornata.»

    «Una specie di schiavitù.»

    «In un certo senso sì, ma è peggio, nel senso che sono consenziente e consapevole.»

    «Sei proprio appassionato. Si vede da come ne parli.»

    «Sì, mi piace tutto del mio lavoro» affermò lui. «Mi piace occuparmi delle faccende burocratiche come degli interventi, in egual misura. Ma se proprio dovessi scegliere, la parte più bella è l’emergenza. Quando il paziente sta per morire e tu devi prendere decisioni che hanno punti di non ritorno. Devi decidere in fretta e bene. L’adrenalina è al massimo, le sinapsi rischiano il cortocircuito per la velocità delle possibilità e delle opzioni. Senti il sudore che ti bagna la spina dorsale anche se stai lavorando in una cella frigo. Non c’è tempo per il mondo esterno. Sei tu da solo col problema morte e lo devi risolvere. Questo è quello che più mi piace. L’emergenza.»

    Lo guardava ammirata.

    «Tutto bene, Carter?»

    «Sì, sì, certo, è impressionante quanto ti lasci coinvolgere dal tuo lavoro. Anche solo a descriverlo, trasmetti passione e interesse. E poi mi ha colpito che li chiami pazienti. Sono animali. I pazienti per me sono gli esseri umani.»

    «Sono esseri viventi che soffrono. Che patiscono. Quindi pazienti. In più penso che gli animali siano senza peccato. Vivono istintivamente, senza malanimo. Non c’è cattiveria in loro. Meritano di vivere.»

    «Più di certe persone» disse Carter sorridendo.

    «Beh, conosco alcune persone cattive, fortunatamente molto poche, veramente, ma anche a loro non auguro la morte.»

    Lei gli strinse la mano.

    Ron rabbrividì.

    «Mi piaci, Ron. Se sei veramente come dici, sei proprio una bella persona.»

    Il telefono di Ron vibrò.

    Lui lo ignorò.

    Non voleva perdersi quelle sensazioni.

    Il telefono continuò a vibrare.

    Lei distolse lo sguardo, indicando il telefono.

    «Magari è importante.»

    «Già» disse lui leggendo rapidamente i messaggi.

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