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Gabbie per cani
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E-book795 pagine9 ore

Gabbie per cani

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Info su questo ebook

C’è chi preferisce essere fedele a qualcuno o a qualcosa e chi invece rifugge, cercando altre possibilità. Chi sceglie la gabbia e chi rincorre la libertà. Senza dimenticare chi cerca giustizia. Tutto si muove in fretta nella metropoli, bisogna saper cogliere l’attimo oppure si perde la corsa e forse anche la vita.
Chicago fine anni ’70. La mafia italiana si contende le strade della città mentre una determinata coppia di poliziotti cerca di decapitarne la testa colpendo i suoi boss più in vista e far crollare la rete di corruzione che si insinua nel corpo di polizia e nelle aule di tribunale.
Gabbie per cani è un cocktail d’azione, sesso e giochi di potere, da cui difficilmente riuscirete a separarvi. Preparatevi dunque allo squallore metropolitano, ai regolamenti di conti e alle avventure on the road, ma anche a imprevedibili amori che sbocciano e pregiudizi che crollano.
LinguaItaliano
Data di uscita24 ott 2022
ISBN9788855392556
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    Anteprima del libro

    Gabbie per cani - Francesco Orrù

    Gabbie per cani

    EEE - Edizioni Tripla E

    Francesco Orrù, Gabbie per cani

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2022

    ISBN: 9788855392556

    Collana Giallo, Thriller & Noir, n. 44

    EEE -Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Cover: credits to Unsplash.com.

    PROLOGO

    I cani erano ancora nelle loro gabbie.

    L’eccitazione era contagiosa.

    Ogni cane la trasmetteva all’altro accanto.

    La folla negli spalti aspettava con ansia che lo starter mettesse fine all’attesa.

    Alcuni erano lì per divertirsi.

    Altri per lavoro.

    Altri ancora per sopravvivere.

    Lo sparo risuonò come una liberazione.

    Le porticine si sollevarono all’unisono.

    I cani scattarono sfrenatamente, alla rincorsa l’uno dell’altro.

    E di quel maledetto coniglio.

    Alla prima curva c’era già un gruppetto di cinque, ben distanziato dagli inseguitori.

    Quelli davanti sollevavano polvere e sabbia.

    Quelli dietro respiravano polvere e sabbia.

    Il favorito era Jumpin’ Jack.

    Il padrone lo aveva chiamato così perché gli piacevano i Rolling Stones.

    Non aveva aggiunto Flash, nel nome, per scaramanzia.

    Finora sembrava avere funzionato.

    In quell’ambiente, erano tutti maledettamente superstiziosi.

    Jumpin’ Jack era veloce come un lampo.

    Guidava il gruppo dei cinque davanti.

    Gli occhi fissi sul dannato coniglietto di pezza.

    Non era mai riuscito a prenderlo.

    Nonostante arrivasse sempre prima degli altri.

    Anche oggi quel fottuto coniglio andava più veloce di lui.

    Si sentiva bene oggi, Jumpin’ Jack.

    Non lo sapeva, ma quelle iniezioni fatte la sera prima gli davano la carica per essere sempre il più veloce.

    Il coniglietto davanti lo stava distanziando.

    Accelerò ancora, ma quel maledetto era sempre lì, a qualche metro dal suo muso.

    Se l’avesse preso l’avrebbe smembrato.

    La rabbia e la frustrazione gli diedero un ulteriore impulso.

    Eccolo, eccolo, sempre più vicino… no maledizione, si allontanava di nuovo.

    Accelerò di più.

    Sentì un fischio. Quel fischio.

    Voleva dire che si doveva fermare.

    Rallentò.

    I cani dietro lo travolsero.

    Gli passarono sopra, leggeri, eterei.

    Come lui, sfioravano la terra.

    Lo calpestarono solo per quel breve momento del contatto per la spinta in avanti.

    Un millesimo di secondo.

    Ma fu una sensazione dolorosa e amara.

    Franato a terra, ingoiava terra e sabbia con rabbia e sorpresa.

    Si rialzò frastornato e disorientato.

    Si guardò attorno e vide che ormai il coniglio e i suoi inseguitori erano lontani.

    Anche quelli lontani dal coniglio.

    Fuori dalla sua portata.

    Fanculo tutti, pensò.

    Si diresse scodinzolando verso la palizzata.

    Sentì di nuovo un fischio.

    Era diverso dal primo: ma, anche in questo caso, sapeva cosa doveva fare.

    Gli arbusti bassi, delimitanti la pista, erano invitanti.

    Sollevò la zampetta e si concesse una pisciata liberatoria.

    L’urina aveva un odore particolare, non sembrava roba naturale.

    Ma lui che ne sapeva?

    Lo trattavano bene solo perché rincorreva quel dannato coniglio.

    E lui quello faceva.

    Gli davano da mangiare roba buona, dormiva al caldo, c’era un tizio che lo lavava tutti i giorni.

    Certo, quelle iniezioni reiterate non erano piacevoli.

    Ma erano l’unica nota stonata della sua vita.

    Anzi no, anche il fatto che non riusciva a prendere il maledetto coniglio.

    Anche oggi era andata male, ma prima o poi lo avrebbe acchiappato, quel figlio di puttana.

    CAPITOLO 1.

    Jumpin’ Jack stava ancora pisciando sulla staccionata, quando si era alzato dal suo posto per andare a ritirare la vincita.

    Non era necessario che la gara finisse.

    L’evento su cui aveva scommesso si era realizzato.

    Doveva attendere la conferma dall’annuncio del direttore di gara, ma sapeva già che era solo questione di qualche minuto.

    Aveva con sé lo zaino per contenere il denaro.

    Lo aveva acquistato il giorno stesso che aveva ideato il piano.

    Un azzardo molto pericoloso: doveva curare ogni dettaglio.

    La cosa più difficile non era stata insegnare al cane a fermarsi quando avesse sentito un fischio, con gli ultrasuoni.

    Quello era stato relativamente semplice.

    Il difficile era stato insegnarli a pisciare a comando.

    Si era inventato un sistema con una sequenza di fischi a ultrasuoni a cui seguiva una leccornia.

    Mentre scendeva la scalinata, gli dispiaceva non gratificarlo, per l’ultima volta.

    Ma non aveva tempo.

    Doveva raccattare il malloppo e darsela a gambe. Sparire. Per sempre.

    Consapevole che i Guccese lo avrebbero braccato senza tregua.

    Non si era neanche voltato a guardare Jumpin’ Jack per l’ultima volta.

    Eppure era cresciuto insieme a lui.

    E grazie a lui avrebbe svoltato la sua vita merdosa.

    Aveva preparato i documenti falsi con molto anticipo, chiedendo a un cugino che aveva un giro d’affari in Colorado.

    Quello era venuto apposta da Denver a portarglieli.

    «Certe cose non si possono spedire per posta» gli aveva detto.

    Si presentò al baracchino delle scommesse, brandendo il cedolino della scommessa. In quello stesso momento, il commentatore del cinodromo sancì ufficialmente che Jumpin’ Jack era stato eliminato dalla corsa.

    «Jumpin’ Jack squalificato. Ho vinto.»

    I due impiegati si guardarono, chiedendosi il da farsi.

    Uno prese l’iniziativa.

    «Mi faccia vedere.»

    Il cedolino appariva assolutamente regolare.

    Anche la vincita lo era.

    Non poteva farci nulla.

    Ma si chiedeva chi fosse stato tanto incosciente da accettare una scommessa simile.

    Iniziò a contare i soldi.

    Ogni tanto guardava il monitor in bassa frequenza per avere conferma di ciò che aveva già verificato.

    Finì di contare quando arrivò a due milioni di dollari.

    L’altro impiegato conversava concitatamente al telefono.

    Probabilmente era la vincita più alta mai realizzata in quel cinodromo.

    Ma a Nick importava poco.

    A lui importava solo che gli dessero i suoi soldi.

    Prima di abbandonare il baracchino, diede un ultimo sguardo al monitor.

    Le telecamere 4 e 5 inquadravano ancora Jumpin’ Jack, che trotterellava spensierato, incurante della gara davanti a lui.

    Sarebbe stata l’ultima volta che lo vedeva.

    Addio Jumpin’ Jack. E grazie di tutto.

    Ora mancava solo di abbandonare la città.

    Aveva lasciato il cinodromo con una moto, diretto verso l’aeroporto.

    Poi, a qualche chilometro di distanza, le aveva dato fuoco, e aveva atteso, con aria tranquilla, l’autobus.

    Aveva fatto tappa in un ufficio postale, prima di risalire su un secondo autobus.

    Che l’avrebbe condotto alle banchine del porto.

    Dove i Guccese smerciavano la loro roba.

    Lo attendeva una barca, in cui aveva programmato di stare nascosto per un po’.

    Nessuno si sarebbe aspettato che si infilasse nella bocca del leone.

    Il suo socio lo aspettava impaziente.

    Quando lo vide arrivare camminando seraficamente, con lo zaino in spalla, pensò che fosse impazzito.

    «Vuoi anche prenderti un aperitivo o andare a fare shopping?»

    «Che c’è? Che cazzo stai dicendo?»

    «Dovresti vederti, sembra che sei la persona più rilassata della terra.»

    «È proprio quello che voglio trasmettere. Devo forse far vedere che sono cagato sotto?»

    «Andiamo, infilati in cabina, cristo.»

    «Mi ha visto qualcuno?»

    «Non lo so Nick, c’è un sacco di gente in giro, ma non mi pare che nessuno abbia fatto particolarmente caso a te.»

    «Hai sentito niente in giro? Qualcuno ha fatto domande?»

    «Mi sembra un po’ precoce come preoccupazione. La gara sarà finita da mezz’ora.»

    «Hank, sei il solito ottimista. Ti ricordo che abbiamo fottuto due milioni di dollari a uno dei peggiori clan mafiosi di Chicago. Non stanno a perdere tempo se devono sistemare uno sgarbo.»

    «Maledizione, non ricordarmelo. Non ho lo stesso tuo sangue freddo. Sei sicuro che dobbiamo starcene qui?»

    «Stai tranquillo. Tu fai la tua vita di pescatore per un altro paio di giorni, esci e rientri come ogni giorno, vendi il tuo pesce puzzolente e poi tra qualche giorno non torniamo. Qualcuno si farà qualche domanda, finché troveranno il relitto. E poi concluderanno che sei morto nel lago. Amen.»

    «Detto così sembra facile.»

    «Già, ma se stiamo calmi vedrai che andrà bene. Sono fiducioso. Intanto la prima fase si è svolta come avevamo previsto.»

    «Sì, ma non avevamo questi cani bastardi alle calcagna. Sai di cosa sono capaci.»

    «Metteranno una taglia, sicuramente. L’unico che mi può tradire sei tu, Hank.»

    «Sai che ti puoi fidare, amico. Siamo soci da quanto?»

    Nick sorrise.

    «Il primo ricordo che ho di te è su una bici con le rotelle. E da allora ne abbiamo fatte. Ti ricordi quando andavamo a rubare nel negozietto di articoli per la pesca? Io compravo e tu mettevi in tasca ami, lenze, galleggianti. Che poi rivendevamo ai pescatori sul molo.»

    «Già, bei tempi. Ma stavolta l’abbiamo combinata grossa. Non sono così tranquillo.»

    «Se ci trovano puoi sempre dire che ti ho minacciato e costretto a tenermi nascosto: l’accordo è questo e lo rispetto. Per questo tu ti becchi 250mila e io il grosso del malloppo.»

    Hank ebbe un sobbalzo.

    «250mila? Mi avevi detto 500mila, un quarto della cifra, Nick.»

    «Sì, è vero, ma ho cambiato idea. In fondo tu te la puoi cavare, se ci trovano. Io no. Sono fottuto. E ho perso pure il cane. Addio altri guadagni dalle sue vittorie. Tu hai pur sempre la barca.»

    «No, no, un attimo. Gli accordi vanno rispettati. Ok che tu non hai più il cane, ma io dovrò far affondare la barca e sparire anche io. Quindi, che avrò la barca, è una cazzata. E 250mila non mi bastano, per i miei progetti.» Fissò l’amico e sorrise. «Mi stai prendendo in giro, vero? È uno scherzo. Beh, non mi piace, chiudiamola qui.»

    Nick rimase in silenzio qualche secondo.

    «Hank, sono serio. Per te ci sono 250mila. E ti devono bastare.»

    Una pistola apparve nella mano di Nick.

    «Cristo, Nick, stai rovinando tutto.»

    «Non dal mio punto di vista. La faccia sui manifesti sarà la mia, il culo che sta rischiando è il mio. Tu devi solo tenermi fuori dal giro per qualche giorno, poi avrai i tuoi soldi puliti puliti. E potrai comprarti una bagnarola per ripartire da capo, se vorrai. Con 250mila ti compri una barca coi controcazzi, altro che questa schifezza. E te ne avanzeranno per vivere bene. Il discorso è chiuso, Hank, non costringermi a sparire con qualche rincrescimento.»

    Hank sbuffò contrariato.

    «Ok, vada per 250mila. Ma non un centesimo di meno.»

    Nick gli fece un cenno di assenso.

    Poi chiuse la porta della cabina.

    Aveva avuto una giornata pesante, voleva riposare.

    CAPITOLO 2.

    Il detective Rodney Connors era avvezzo al freddo.

    In Illinois, o ti adegui al clima o emigri.

    Non ci sono alternative.

    Puoi aspettare l’estate, ma solo per provare meno freddo.

    Si era abituato anche a rispondere alle chiamate alle tre di notte.

    Quello era stato meno difficile.

    Bastava riuscire a dormire ovunque, in qualunque condizione, quando fosse possibile.

    Si dirigeva, percorrendo Clark Street, verso Evanston.

    Alla radio, Otis Redding cantava una struggente I’ve Been Loving You too Long.

    Nella spiaggia, una coppietta aveva trovato quello che sembrava un corpo.

    Gli mancavano le gambe e parte della testa, e la parte distale delle dita era stata amputata in entrambe le mani.

    Inizialmente, nell’oscurità, avevano pensato a un manichino.

    Ma quando avevano notato che insetti, uccelli e qualche topo stavano girando attorno a quell’ammasso indefinito, si erano avvicinati e avevano scoperto che erano resti umani.

    Connors doveva passare a prendere il tenente White.

    Abitava sulla strada dalla centrale verso Evanston.

    Lo trovò ad attenderlo sul marciapiede.

    Come entrò in macchina, emanò un invitante profumo di caffè.

    «Ciao, Terence, tua moglie ti prepara il caffè anche alle tre di notte?»

    «A qualunque ora mi chiamino mi prepara qualcosa da mangiare prima di uscire.»

    «Non lo sa che hai un socio?»

    «Hai ragione. Vuoi salire un attimo a casa? Ne è avanzato un bel po’.»

    «Quasi quasi. Ma ci sono i ragazzi che ci stanno aspettando, anche loro non vedranno l’ora di tornarsene al caldo. Fa un freddo fottuto stanotte.»

    «Come vuoi, tanto quello che hanno trovato non va da nessuna parte prima che lo vediamo noi.»

    Rodney premette l’acceleratore sognando una ricca colazione appena avessero terminato.

    Nella spiaggia di Evanston c’erano tanti bei bar.

    D’estate.

    In autunno inoltrato bisognava girare un po’ prima di trovarne uno aperto.

    A quell’ora poi.

    «Che sappiamo di questa faccenda, Rod?»

    «Dai primi riscontri, pare che si tratti del busto di un uomo, bianco, probabilmente ricco o comunque molto fortunato.»

    «Sul molto fortunato avrei dei dubbi. Credo che oggi abbia avuto una giornataccia.»

    Rod rise.

    «Certo, intendevo che siccome hanno riscontrato una dentatura perfetta, potrebbe essere stato un uomo facoltoso. O uno che non essendo mai andato dal dentista, era naturalmente sano. Almeno nei denti.»

    «Niente altro?»

    «Il coroner stava arrivando quando hanno chiamato noi. Avrà già terminato, adesso che arriviamo.»

    «Chi troveremo?»

    «Dei ragazzi ci sono George Langford e Adrian Wright. Il coroner è la dottoressa Marva King.»

    Terence fece un gesto di assenso.

    «Mi spieghi perché questi negri si chiamano tutti King?»

    Rodney inarcò le sopracciglia.

    «Io conosco solo i chitarristi, B.B., Freddie e Albert. E poi la dottoressa Marva. Non ne conosco altri. Ah no aspetta. C’è quello della scientifica, Elmore King.»

    «Ecco, sì, appunto loro. Conosci qualche bianco che si chiama King di cognome? Secondo me deriva da King Kong, la scimmia. Che ne dici?»

    Rodney era indeciso se mandarlo affanculo o fare finta di nulla.

    Optò per soprassedere.

    Per questa volta.

    «Inoltre non mi spiego come faccia una donna a fare il coroner», continuò a stuzzicarlo Terence.

    Rodney premette sull’acceleratore.

    Non vedeva l’ora di togliersi di mezzo White quando faceva quei discorsi. A volte era anche una persona gradevole.

    «Come fa? Si laurea e si specializza, come farebbe un maschio.»

    «Volevo dire come fa a sopportare la puzza e le cose che si vedono. Sono dure per un maschio, figuriamoci per una donna.»

    «Non credo che sia un problema per loro, più di quanto lo sia per noi. Sei un pochino retrogrado, Terence.»

    La differenza di grado gli suggeriva di essere prudente, con gli aggettivi.

    «Forse do quell’impressione, ma io rispetto molto le donne. Per quello le terrei a casa, al sicuro, a occuparsi dei figli e del marito quando torna dal lavoro.»

    «Sei serio? Siamo nel 1979, le donne fortunatamente sono emancipate e vogliono la loro indipendenza dagli uomini. Tu davvero vorresti che tua moglie fosse come le nostre madri? Dipendente dal marito?»

    Terence lo guardò incuriosito.

    «Per mia moglie è così. Che c’è di strano? Lei fa la casalinga, lavora per me e i nostri figli.»

    «Ti dico una cosa: tienitela stretta, perché una così è in via di estinzione.»

    Arrivarono nel parcheggio, illuminato a giorno dalle fotocellule.

    Salutarono da lontano, con un gesto, i due ragazzi che piantonavano il cadavere.

    Marva gli andò incontro.

    Tese la mano a Rodney. Con Terence si limitò a un freddo cenno del capo.

    Lui la guardò con sufficienza.

    «Marva, che ci dici?» chiese Rodney, per spezzare la tensione.

    «Si tratta di un uomo bianco, di età indefinita, morto da almeno due giorni, a cui sono stati amputati gli arti inferiori e il resto che penzolava dal busto. Gli hanno sparato in faccia da distanza ravvicinata, per cui gli manca mezza faccia. Le dita delle mani sono prive, tutte quante, delle falangette. Per cui addio polpastrelli. Per cui addio impronte digitali. Ha un tatuaggio sul braccio destro e uno sul braccio sinistro. La dentatura rimasta è perfetta: se si tratta del lavoro di un dentista potremmo risalire al riconoscimento. Quando avrete finito lo faccio portare all’obitorio e domani saprò darvi altre notizie.»

    «Direi che per adesso ci hai detto tanto. Grazie Marva.»

    Si diressero verso il cadavere.

    «Cosa abbiamo trovato, ragazzi?»

    I due piantoni, intirizziti dal freddo, si guardarono senza sapere cosa dire.

    «Dico a voi, minchioni.»

    Terence sapeva farsi voler bene.

    George, il più anziano fra i due, si sentì in dovere di esigere rispetto.

    Parlò risoluto, per chiarire la situazione.

    «Tenente, eravamo di pattuglia in zona, quando dalla centrale ci hanno detto di venire qui perché due persone che, secondo me, cercavano un posticino per una scopata, hanno trovato questo tizio. Siamo arrivati qui mezz’ora fa, dieci minuti prima del coroner. Non abbiamo fatto un bel niente, se non chiuderci il naso per la puzza e controllare che nessuno toccasse questo tipo.»

    «I due pomiciatori che dicono? Sono ancora qui?» chiese Rodney.

    George indicò una macchina, una Buick Riviera del ’49, coi finestrini appannati.

    Diffondeva una languida musica jazz.

    «Sono lì dentro. Gli ho detto di aspettarvi.»

    «Se non sono vestiti, li arresto per atti osceni.»

    «Penso che lui ce l’abbia come una nocciolina, dopo quello che ha visto.»

    Bussarono al finestrino, dal lato guidatore.

    Si affacciò un uomo sui cinquant’anni, con i baffetti sottili e grigi.

    A fianco aveva una donna sui trentacinque anni, mora, formosa.

    La camicetta aveva i bottoni in estrema trazione.

    «Sono il detective Connors, lui è il tenente White. Ci dite che facevate qui e cosa avete visto?»

    «Buonasera detective. Ecco, vorrei che la nostra presenza qui fosse ritenuta una cosa riservata. Mi spiego: io e la signora non siamo sposati. Fra di noi, intendo. Ma abbiamo entrambi dei consorti. Che al momento non sanno della nostra presenza contemporanea qui e potrebbero farsi idee equivoche sulla situazione.»

    Connors sollevò gli occhi al cielo.

    «Stia tranquillo, signor…?»

    «Mi chiamo Alfred Bertrand, lei è la signora Karen Reilly. Siamo colleghi e stavamo facendo una passeggiata prima di tornare a casa. Lo facciamo spesso, sa? Ci pia…»

    «Senta, signor Bertrand, non mi interessa delle sue passeggiate notturne e con chi le fa. Mi dica di stasera. Poi vi potrete levare di mezzo.»

    «Abbiamo parcheggiato e siamo andati in spiaggia. Per fumare un po’ di erba. Ci rilassa. Siccome c’è umido, sono tornato in macchina a prendere un plaid. Poi ci siamo messi vicino alla muraglia e c’è sembrato di vedere un movimento di animali attorno a un ammasso di qualcosa. Che emanava un odore nauseabondo. Prima abbiamo pensato che fosse l’effetto dell’erba, poi invece ci siamo incuriositi e ci siamo avvicinati e abbiamo visto quel… coso. La puzza era insopportabile. Da lontano ci sembrava un manichino, invece…»

    «Non avete notato altro? Qualcuno che si allontanava? Una macchina? Niente?»

    «Nulla. Quando siamo arrivati c’eravamo soltanto noi. Come avrà capito, per non dare adito a malintesi, cerchiamo posti molto appartati.»

    «Certo, se no poi uno pensa male. Pensa a cose che non sono.»

    «Proprio così» sottolineò il signor Bertrand, rinfrancato.

    «Bene, allora potete andare. Ovviamente lei e la signora siete testimoni, per cui dovrete andare in centrale domani mattina a rilasciare una deposizione firmata.»

    «Ma come? Quindi risulterà in qualche verbale che eravamo insieme?»

    «Senta signor Bertrand, noi non andremo a spifferare ai quattro venti cosa facevate voi due qui alle tre di notte.»

    «Erano le due» lo interruppe la signora Reilly.

    Terence si incurvò per osservarla meglio, dentro l’abitacolo scuro.

    Era un gran pezzo di figa, effettivamente.

    Lei sostenne il suo sguardo e gli fece un occhiolino malizioso.

    Non aveva trucco e le curve prorompenti sprizzavano femminilità.

    Così come la necessità di puntualizzare sulle cazzate.

    «Certo, signora, erano le due. Comunque non diremo nulla della vostra presenza, ma è evidente che, se ci sarà un processo, sarete chiamati a deporre. Per cui preparatevi una scusa plausibile.»

    I due si guardarono preoccupati.

    Connors e White si allontanarono che ancora discutevano su quali scuse appoggiarsi.

    «Se trovassi mia moglie in una simile situazione, farei fuori prima lei e poi lui.»

    Rodney fu incuriosito.

    «Perché lei per prima?»

    «Non vorrei farla soffrire, in fondo ci sono affezionato. Se l’ammazzassi dopo, soffrirebbe di più, non credi?»

    Rodney scosse la testa.

    «Andiamo a fare un sopralluogo attorno al corpo, prima che lo portino via.»

    «Adesso? Cazzo Rod, è buio e siamo in una spiaggia. Cosa vuoi trovare? Impronte?»

    «Ho una torcia potente. Se non hai voglia, lo faccio io. Non preoccuparti. Vai in macchina e aspettami.»

    «Al diavolo» disse White seguendolo.

    Attorno al busto c’erano impronte.

    Più o meno una decina di migliaia, come in una spiaggia.

    «Non si vede nulla, Rod. È meglio se facciamo fare a quelli della scientifica, domani mattina.»

    «Vieni a vedere, qui, invece di lamentarti. Cosa ti sembrano queste impronte?»

    «Impronte di cane. E allora? La gente viene coi cani in spiaggia.»

    «Non qui, è vietato. La zona dell’arenile in cui possono andare i cani è almeno un chilometro più in là. Conosco questa zona.»

    «Magari sono impronte di qualche cane randagio che non lo sa. E viene lo stesso qui.»

    «Vaffanculo, Terence. Tu e la tua logica.»

    «Andiamo Rod, ti offro un caffè con bacon e uova strapazzate» disse prendendolo sottobraccio.

    Rodney tirò lontano la sigaretta ancora accesa con le dita, dirigendosi verso la macchina.

    CAPITOLO 3.

    John Guccese non aveva dormito quella notte.

    Aveva fatto radunare tutti gli allibratori del cinodromo, alle 7,30 del mattino.

    Jumpin’ Jack gli aveva fatto perdere un sacco di soldi.

    Ma il problema non era quello.

    Era il capofamiglia della zona sud di Chicago, subentrato da poco meno di tre mesi al padre, Sal.

    Sal aveva insegnato a John che era meglio non esporsi se non si era sicuri del risultato positivo.

    Un capofamiglia non può permettersi di commettere errori.

    Minano la credibilità e solidità della figura che rappresenti.

    John aveva esagerato, confidando nella fama di Jumpin’ Jack, ostentando estrema sicurezza nella scommessa di un milione di dollari.

    E aveva anche preso le sue precauzioni, facendo condire il pasto degli altri cani in gara con una lieve dose di ipnotico.

    Ma qualcuno era stato più furbo di lui. E lo aveva fregato.

    John Guccese era lo zimbello del giorno.

    Voleva dare dimostrazione di forza e controllo e ne era uscito con le ossa rotte.

    Accomodato su una poltrona di pelle, al centro di una tavola rotonda, guardava in cagnesco ognuno della piccola folla presente nella stanza.

    Attendevano in piedi, in rigoroso silenzio e con occhi bassi, che John rivelasse il motivo della riunione.

    «Siete qui perché qualcuno di voi ha venduto la corsa. Mi sono già fatto un’idea di chi possa essere, e sto raccogliendo le prove. Perché io sono diverso da mio padre. A lui bastava il sospetto. E agiva. Sapete come, non c’è bisogno di dirvelo. Io voglio le prove, invece. E sarò molto generoso con chi mi aiuterà a confermare i miei sospetti. Ma se scopro che vengo ingannato, allora anche chi tenta di fottermi la pagherà cara. Voglio sapere chi di voi ha preso la scommessa con il padrone di Jumpin’ Jack. Uno che scommette contro il proprio cane sa già che quello perderà. Infatti sapete il risultato.»

    Si guardò intorno per osservare le facce dei presenti.

    Nessuno cambiò l’espressione seria e preoccupata.

    «Non ha aspettato neanche la fine della gara per andare a prendersi i soldi. I miei ragazzi gli hanno dovuto dare tutta la vincita prima ancora che si sapesse che aveva fatto quella fottuta scommessa.»

    Si alzò in piedi battendo la mano sul tavolo.

    Sollevò il tono della voce, accentuando la calata italiana che si manifestava quando era furibondo.

    «Qualcuno è venuto a dirmi che si è trattato di un caso. A me! Ho truccato più gare di cani che fatto scoregge, in vita mia. E mi si parla del caso. Qualcuno di voi gli ha fatto puntare centomila dollari contro il suo maledetto cane, scommettendo uno a venti che non sarebbe arrivato alla fine. Una scommessa sulla sua squalifica. Quel cazzo di cane ha pisciato in pista! E quel bastardo di Nick Conlan si è portato a casa due milioni di dollari. Cristo!»

    La voce gli si strozzò in gola. Bevve un bicchiere d’acqua, poi si guardò intorno.

    «Ora il signor padrone di Jumpin’ Jack non si occuperà più del suo cane. È sparito. E gli conviene che sia sparito per sempre» aggiunse.

    Un mormorio fievole arrivò fino a Guccese, dal fondo della stanza.

    Batté la mano sul tavolo con tutta la forza che aveva.

    La bottiglia d’acqua si rovesciò, andando a inondare la moquette.

    Prese un cedolino dalla tasca e lo agitò davanti a tutti.

    «Fate silenzio, brutti figli di puttana. Voglio sapere chi ha aiutato quel gran bastardo a fottermi. Voglio sapere di chi è questa firma sul cedolino. Voglio sapere se qualcuno sa dove quel grandissimo pezzo di merda è andato a nascondersi coi miei soldi. E se qualcuno lo sa e non me lo dice, lo considero come un suo complice. Farà la stessa fine.»

    Nessuno si mosse, qualcuno evitava anche di respirare.

    Irritato per non aver ottenuto risultati, con un cenno fece sgomberare la sala dai suoi sgherri.

    Prese il telefono e compose il numero di Sonny, il fratello minore.

    «Lo avete trovato? Dimmi di sì, per favore.»

    «No, John, niente. Abbiamo cercato nella zona sud, sud-ovest e ora stiamo rastrellando anche la zona del lago. Niente. Nessuno lo ha visto, né sentito.»

    «Porca puttana! Manda tutti gli uomini a cercarlo, Cristo!»

    Sonny esitò prima di rispondere.

    «Non perdiamo la calma, eh John? Se destiniamo tutti alla ricerca di questo stronzo, rischiamo grosso con le altre attività. La droga, le troie… rimane scoperto tutto. Ne vale la pena per soli due milioni di dollari? Ce li rifacciamo la prossima settimana con la droga, John.»

    «Sentimi bene, testa di minchia. Dei due milioni me ne fotto altamente. Ma qui è la mia figura che va nella merda. Nostro padre non avrebbe mai permesso una cosa del genere. Hai mai sentito di qualcuno che ha preso per il culo nostro padre? No, mai successo. Devo dare una lezione esemplare a quel figlio di puttana. Subito!»

    «Va bene John, metto più gente per cercare questo tizio, ma non tutti, sarebbe pericoloso.»

    John esitò solo un secondo.

    «Hai ragione, fratello. E senti un po’: il cane come sta? Si è ripreso? Almeno quello lo abbiamo guadagnato.»

    «Il dottore ha detto che ha solo una storta, lui ha detto distorsione o qualcosa di simile, a una zampa di davanti. Effettivamente è gonfia. Ma ha assicurato che si riprenderà presto, basta solo farlo riposare e tenergli la zampa fasciata. Quando ha saputo che il cane era diventato nostro, non ha voluto essere pagato. Ha detto che ci rispetta molto.»

    «Ah bene, è italiano d’origine? Come si chiama?»

    «Italiano è. Si chiama Alfred Coppola. Coppola, come il cappello, hai capito?»

    Risero entrambi.

    «Bene ringrazialo, e digli che abbiamo apprezzato. Se lo fa guarire bene, possiamo chiamarlo anche per gli altri cani.»

    «Quali altri cani, John?»

    «Gli altri che avremo. È un settore interessante, Sonny. La gente scommette e noi facciamo i soldi se controlliamo tutti i cani che corrono. Alla fine vinceremo sempre.»

    «Credo che ci siano delle leggi su questo.»

    John rise.

    «Stai parlando seriamente? Leggi? Da quando in qua ti preoccupano?»

    «Nel senso che c’è un regolamento che impedisce che gli stessi padroni abbiano due o più cani nella stessa corsa. Oltre le leggi, è anche una questione di buonsenso.»

    «Sonny, stai bene? Mi preoccupo per te, se mi dici queste cose. Chi se ne fotte, ci sono i prestanome. E comunque sarebbe solo un divertimento per noi, un altro piccolo business, che comunque non inciderebbe minimamente sulle nostre attività principali.»

    «Beh, visto come te la sei presa, non mi sembra.»

    «Ora sono incazzato solo per una questione di principio. Voglio dimostrare che a John Guccese non lo può prendere per il culo nessuno.»

    Sonny fece una smorfia, come quando erano bambini.

    «Sei il più forte adesso, John. Non devi dimostrare niente a nessuno. Se perdi la testa, rischiamo più di quello che vale questa cazzata.»

    «Sono il più forte e lo voglio dimostrare. Tutti devono sapere che mi devono portare rispetto. Si devono cacare sotto quando sentono il mio nome. Tutti.»

    Sonny chiuse la comunicazione e rimase a riflettere, seduto nella sua poltrona.

    Il fratello aveva idee di onnipotenza.

    Lui sapeva che prima o poi avrebbe pagato caro quel suo delirio.

    Lui avrebbe aspettato.

    Lui non era cacato sotto.

    Lui aveva capito bene gli insegnamenti del padre.

    Il vecchio Sal gli diceva sempre:

    «Figlio, il segreto per comandare non è fare paura agli altri, ma è non avere paura degli altri.»

    Forse a John non lo aveva mai svelato.

    CAPITOLO 4.

    Marva King si era alzata presto.

    Aveva preparato la colazione per sé e la sua compagna.

    Denise faceva l’autista della metro, avrebbe attaccato al lavoro verso le 10, per cui si sarebbe alzata con calma.

    A Marva piaceva coccolarla e le lasciò, sul tavolo apparecchiato, i pancake con la marmellata e il burro di arachidi, col succo di mela.

    Uscì di casa stando attenta a non fare rumore.

    L’autunno era già inoltrato.

    Alle 8.30 era immersa nel traffico dei genitori che portano i bambini a scuola, ma con la sua moto si muoveva agilmente.

    Anche se era tornata tardi, per via del cadavere ritrovato nella spiaggia, non vedeva l’ora di esaminare quei resti.

    Ripensò a Rodney: se le fossero piaciuti gli uomini, lui sarebbe stato uno dei suoi obiettivi.

    Era cortese, rispettoso e, allo stesso tempo, determinato e risoluto.

    Le ragazze della centrale si chiedevano come mai non si desse da fare con loro.

    Eppure c’erano tante belle donne.

    Le ipotesi principali erano due: che fosse gay o che non volesse invischiarsi con colleghe.

    Secondo Marva era gay: se lo fosse stato, gli sarebbe stato ancora più simpatico.

    Odiava invece quel bifolco razzista di Terence.

    Tutti si chiedevano come mai Rodney lo sopportasse: i sostenitori della tesi gay dicevano che aveva un debole per lui.

    Effettivamente Terence poteva piacere per il bell’aspetto e per i suoi modi estremamente mascolini: non disdegnava di apparire macho tutte le volte che poteva esternarlo.

    Ma lei non lo tollerava per le sue idee.

    Inoltre reputava che fosse mediocre anche come poliziotto: a parte che alla sua età era ancora tenente, secondo lei il merito dei suoi successi professionali era dovuto maggiormente a circostanze fortunate che a capacità investigative.

    E faceva pesare il suo grado coi subordinati.

    Arrivò nel cortile dell’istituto e parcheggiò la moto davanti all’entrata.

    L’edificio di mattoni rossi aveva un qualcosa di inquietante, al di là del fatto stesso che fosse l’obitorio.

    L’ingresso unico era dato da un ampio portone blindato, scuro, da cui accedevano anche i furgoni del coroner, con una porticina per il passaggio esclusivo delle persone e le finestre erano sottili e munite di inferriate.

    Non sarebbe mai scappato nessuno da lì, ma le grate erano state messe qualche anno prima perché vi era stato un furto di cadaveri: si era scoperto che studenti in medicina adoperavano gli organi ancora utilizzabili dei cadaveri per simulare interventi chirurgici.

    Marva salutò la guardia all’ingresso ed estrasse il badge dal taschino, con cui fece aprire il portoncino.

    Raggiunse gli spogliatoi e aprì il suo armadietto.

    Qualcuno bussò alla porta, lasciata semiaperta.

    «Ci sono io, Marva, mi sto cambiando, chi è?»

    «Allora posso entrare» disse una voce cavernosa.

    «Sei proprio stupido, Artis Fillmore.»

    «Lo sai che sei la mia sorellina, non succede nulla se mi vedi nudo.»

    «Entra e smettila di fare il cretino. Ci sei tu ad aiutarmi stamattina? O cosa devi fare?»

    «Sono venuto perché un uccellino mi ha detto che stanotte hanno trovato un cadavere in spiaggia. E sempre lo stesso uccellino mi ha detto che ci saresti stata tu.»

    «Ok, va bene, quando lo vedrò, ringrazierò George per averti informato. Quando gli ho lasciato il cadavere, qui stanotte, mi sono quasi pentita, tornando a casa, di non avergli detto di avvisarti. Ma evidentemente ormai ci conosce e sa come ci piace lavorare.»

    «Da quanto ci conosciamo noi tre? Tu ed io poi, non se ne parla. Da quando facevamo la scuola elementare? E poi il liceo, l’università. E non dimenticare che sei la mia testimone di nozze.»

    «Ah davvero? E quando hai intenzione di sposarti?»

    «Quando sarà, tu sarai sull’altare con me. Visto che non puoi essere la sposa, almeno sarai la testimone.»

    Marva rise, finendo di cambiarsi.

    Occhieggiò verso Artis, che era ancora in mutande.

    Curava il fisico con la corsa e l’alimentazione, e i muscoli definiti e tonici lo facevano sembrare più un giocatore di football che un coroner.

    «Sai, se non avessimo avuto la passione per la stessa cosa, magari ci avrei fatto un pensierino, su di te.»

    Artis rise.

    Finì di cambiarsi gli abiti e andò verso l’amica, che l’attendeva appoggiata all’uscio degli spogliatoi.

    Prima d’iniziare, sostarono alla macchinetta del caffè.

    «Un bel casino questo di stanotte, non credo che ne ricaveremo granché dall’esame.»

    «Per me togli lo zucchero, Marva. Davvero è messo così male?»

    «Ecco il tuo caffè ristretto bollente. Sì, è uno smembrato senza faccia, praticamente. Vediamo se riusciamo a risalire all’identità dal calco dentario.»

    «Mi ricorda il caso di quel senzatetto di qualche anno fa. Quel tizio che avevano trovato fuori da quello Strip Club.»

    «Ah ho capito, anche se lì fummo fortunati perché un’amica riconobbe i tatuaggi. Anche questo tizio ne ha due sulle braccia; in caso estremo ripeteremo la procedura.»

    «Già» disse Artis seguendo Marva all’interno della sala settoria.

    Il cadavere era già sistemato sul tavolo.

    Il tagliandino col codice era attaccato al polso sinistro.

    Individuo 41717.

    «Wow, ne hanno lasciato ben poco.»

    Marva indossava i guanti mentre lasciava esaminare il corpo ad Artis.

    «Le sezioni sembrano fatte da uno che se ne intende. Un macellaio. O un pescatore. O un patologo.»

    Entrambi risero.

    «Dove eri ieri a quest’ora, eh?»

    Continuarono a ridere.

    «Le gambe sono state tagliate di netto e le ossa della gamba rimosse accuratamente dall’articolazione. I genitali amputati. I polpastrelli delle mani sono stati tutti amputati. Per tutti, un taglio netto. Con una tronchesina o una mannaia, direi. E poi hanno tentato di abradere i tatuaggi ma senza esito definitivo. Forse sono stati disturbati mentre tentavano di farli sparire. A giudicare dai contorni, devono avere provato prima con una fonte di calore, poi con una grattugia o qualcosa di simile. I tatuaggi sono disegni normali, non tribali. Il volto di una donna incastonato in un cuore stilizzato, con una scritta sotto. Ecco, si sono accaniti proprio sul nome sotto. Macroscopicamente sembra proprio un’ustione, questa sul nome. Si intravedono ancora le lettere M, R, Y, L. Forse il nome era MaryLou. O Marylin. O MaryEllen. O mille altri nomi, Cristo. L’altro tatuaggio sembra una nave, un veliero tra le onde precisamente. Magari era un marinaio.»

    «Ehi Artis, lasciane un po’ anche per me.»

    «A te toccherà la parte più simpatica, sai che non mi piace aprire la pancia dei cadaveri.»

    Marva lo guardò con superiorità.

    «E tu saresti un patologo?» disse con falsa derisione.

    Artis continuò l’esame senza farsi demoralizzare.

    «Decidere la causa della morte non è facile, Marva. Dobbiamo capire se gli hanno sparato in faccia dopo che lo avevano già smembrato, solo per renderlo irriconoscibile, o viceversa.» Aprì la bocca del cadavere, esaminandola. «I denti rimasti sono sani, non c’è lavoro di dentista, per cui addio calco dentario.»

    «Chiedi a George se ci procura la lista delle persone scomparse. Magari abbiamo una botta di culo.»

    «Credo che stesse andando via, ma provo a chiamarlo» disse Artis.

    Marva iniziò a ispezionare il cadavere.

    Il lavoro era stato fatto minuziosamente bene.

    I tagli perfetti, con i monconi delle arteriole ben serrati naturalmente.

    Le ustioni sui tatuaggi sembravano fatte con un cannello a gas, per la profondità al centro e i margini rilevati.

    Lo sparo sul viso era stato fatto da distanza molto ravvicinata, a giudicare dalle ustioni sui bordi.

    I suoi pensieri vennero interrotti dalla voce di George.

    «Ragazzi, vi ricordo che la schiavitù è stata abolita qualche centinaio di anni fa. E comunque, non me lo aspettavo da dei fratelli neri.»

    Tutti risero.

    «Scusa George» intervenne Artis «ma me lo ha chiesto lei» disse indicando Marva.

    «Sì, certo, comunque ecco qui la lista degli scomparsi dell’ultima settimana, con nome, cognome e dati salienti per un eventuale riconoscimento.» Si soffermò sul cadavere. «Cristo, questo deve aver fatto incazzare veramente qualcuno.»

    «Dai George, come finiamo qui ti offriamo la colazione, ci stai?»

    Automaticamente tirò su le mani.

    «George Waters ora si cambia e si leva dai coglioni. Dopo dodici ore qui me lo merito, no? A parte che vedere questa roba mi ha fatto passare l’appetito.»

    Li lasciò nella fredda sala settoria, presi dai loro dubbi.

    «Sto pensando a quello che ha detto George. E credo che abbia ragione.»

    Artis interruppe impaziente Marva.

    «Vuoi dirmi cosa pensi o devo fare richiesta scritta?»

    Marva lo guardò cercando di concentrarsi.

    «Credo proprio che questo tizio sia stato torturato e poi ucciso. Da gente abituata a tagliare ma non a sparare. Credo che siano stati disturbati e abbiano finito in fretta sparandogli in faccia. Ma l’amputazione delle gambe, dei genitali e delle dita gli è stata fatta da vivo. Poi gli stavano bruciando i tatuaggi e deve essere successo qualcosa per cui gli hanno sparato in faccia. Vediamo ora dal tossicologico se aveva sostanze in circolo o se ha sentito tutto.»

    Artis la guardava incredulo.

    «Caspita, se è stato veramente così, non deve aver passato una bella serata.»

    «Potrebbe trattarsi di un omicidio mafioso. O forse un regolamento di conti. Ma questo ce lo diranno i nostri detective» disse mentre aveva iniziato a esaminare i visceri, dopo avere aperto torace e addome.

    «Chi se ne occupa?»

    «Credo Rodney Connors con quel coglione di White. Stanotte c’erano loro due.»

    Artis fece cenno di aver capito, guardando incuriosito Marva che esaminava il cuore, con un fazzoletto premuto contro il naso.

    «Come fa uno come Connors a stare in coppia con quel razzista di White?»

    «I colleghi non te li scegli, Art. Probabilmente Rod lo tollera per quanto può durante il turno insieme. E poi è il suo superiore. Mica può dirgli nulla» disse mentre metteva in acqua un piccolo pezzo di un polmone.

    «Dicono che Connors sia gay, magari gli piace» disse Artis ridacchiando.

    Marva lo guardò gelidamente.

    «E se anche fosse gay? Professionalmente non ha mai dato adito a chiacchiere per il suo comportamento, non ci trovo niente di ridicolo, sai.»

    «Ehi sorella, non te la prendere, era solo un pettegolezzo. Sai che a me non importa, ognuno può fare ciò che vuole del suo culo.»

    «Sei veramente uno stronzo» disse Marva ridacchiando. «Devi ringraziare che ti voglio bene e ti conosco da anni. Se no adesso ci saresti anche tu a fianco al nostro signor X» disse indicando il cadavere.

    Artis andò ad abbracciarla da dietro, dandole un bacio sul collo.

    Marva ebbe un fremito. Un pezzo di milza le cadde dalle mani, in terra.

    «Ehi, va bene che mi piace la fica, ma attento a non sollecitarmi troppo.»

    Risero entrambi.

    «Gli organi interni sono normali. Secondo me questo è un uomo sui quarant’anni, sano, a parte un po’ di antracosi polmonare, per cui potrebbe essere stato un fumatore. Dalla muscolatura che aveva, uno abituato a lavorare, a sollevare pesi.» Sollevò lo sguardo su Artis: «Togliti quel fazzoletto dal naso, per favore».

    «Quindi è stata una vera e propria esecuzione.»

    «Andiamo a dirlo a Rod» disse Marva togliendosi i guanti.

    CAPITOLO 5.

    La Seagull Friend stava lasciando il molo, di prima mattina.

    Come ogni mattina.

    Nick ancora dormiva nella sua cabina.

    Il vento increspava il lago e, appena si discostò dalla banchina, la piccola imbarcazione iniziò a ondeggiare.

    Hank, al timone, aveva aperto i finestrini della cabina di pilotaggio.

    Gli piaceva sentire il vento fresco sul viso, che gli attraversava la barba e i capelli lunghi e folti.

    Si accese una sigaretta, pensando a dove dirigersi.

    Di solito pianificava le giornate di pesca dalla sera precedente, in base alle previsioni meteorologiche.

    Ma da ieri era tutto cambiato.

    Ora la sua unica preoccupazione era sopravvivere fino al giorno in cui Nick gli avesse detto che dovevano sparire.

    Aveva avuto già a che fare con la mafia, in passato.

    Gli avevano imposto di fare un trasporto.

    Si erano presentati due tizi, uno rasato col cappello e uno coi capelli impomatati all’indietro, dicendogli che la sua barca serviva al loro padrino.

    Hank li aveva guardati come se stessero parlando una lingua sconosciuta.

    Prima cortesemente, poi con decisione, aveva detto loro di levarsi di mezzo.

    Quelli si erano guardati e avevano tirato fuori una mazzetta di soldi arrotolati e una pistola.

    Quello coi capelli impomatati gli chiese quale preferiva.

    Lui indicò i soldi.

    Il tizio col cappello armò il cane della pistola e gliela mise in bocca.

    Hank iniziò a tremare e a pregare.

    Gli disse che aveva scelto la cosa giusta, ma doveva fare una cosa per loro: gli avrebbero portato una cassa e lui doveva trasportarla da Chicago a South Haven, con la sua piccola, anonima, imbarcazione.

    Non doveva fare domande.

    Se lo avessero fermato sarebbero stati cazzi suoi.

    Perché se avesse raccontato di quell’incontro, oltre ai soldi avrebbe rivisto anche la pistola.

    Chiese se poteva scegliere.

    Non risero neanche.

    «No» fu l’unica breve lapidaria risposta.

    Si presentarono dopo tre giorni gli stessi individui, al tramonto.

    Senza ulteriori discussioni, caricarono la cassa e gli dissero che doveva consegnarla a chi si fosse presentato con un biglietto con su scritto pace e bene agli uomini di buona volontà.

    Doveva partire subito.

    «C’è vento forte, può essere un problema» provò a tergiversare.

    «Ognuno ha i suoi problemi, amico. Vuol dire che sei vivo. Solo i morti non ne hanno» gli disse quello coi capelli impomatati, mentre il tizio pelato lo guardava severamente.

    Impiegò circa cinque ore per la traversata.

    Ebbe l’impressione di non essere mai solo, come se ci fosse un piccolo motoscafo che lo seguisse.

    Ma non riuscì mai a vederlo bene, tra oscurità e foschia.

    Arrivò al porto di South Haven in piena notte.

    Uno vestito da prete arrivò accompagnato da due tizi robusti.

    Gli presentò il biglietto, mentre quelli scaricavano la cassa.

    Se ne stava andando anche lui e Hank chiese timidamente

    «E i soldi per me?»

    Il prete, già sulla passerella, si girò.

    Con un grande sorriso, estrasse un rotolo di banconote dal lungo saio nero.

    Glieli agitò sotto il naso.

    «Grazie per l’offerta dei tuoi soldi alla mia parrocchia.»

    Quel bastardo ruotò su se stesso e sparì assieme ai suoi compari.

    Un’onda più forte delle altre lo riportò al suo presente.

    Chiuse il finestrino di destra, da dove aveva preso un po’ di acqua.

    Sentì dei passi all’esterno.

    Bloccò il timone e si diresse sul ponte, a poppa.

    Sulle scale, incontrò Nick.

    «C’è qualcosa da mangiare? Queste maledette onde mi stanno facendo vomitare, cristo.»

    «Ho del pane in cambusa. Non bere però, se no è peggio.»

    Tornò a sistemare il timone per la rotta prescelta, quindi raggiunse Nick in coperta.

    Stava cucinando uova con bacon, sorseggiando aranciata.

    «Meno male che ti avevo detto di non bere, sei proprio uno stronzo.»

    «Ho sete. Cosa dovrei fare?»

    Hank sollevò le mani in segno di resa.

    «Andiamo un po’ al largo, gettiamo le reti per qualche ora e poi torniamo. Ho appuntamento coi miei clienti per le quattro di questo pomeriggio.»

    «No, Hank, cambiamo programma. Da oggi noi non esistiamo più.»

    «Ma come? Non sono questi i piani.»

    «Lo so amico ma, scusami se te lo dico, non mi fido neanche di te.»

    «Pezzo di stronzo, come non ti fidi? Io sto rischiando il culo per te. E tu non mi dici cosa vuoi fare?»

    «Vacci piano Hank. Tu stai rischiando per i soldi, non per me. Di Nick Conlan non te ne frega un cazzo. A te come a nessuno al mondo. Quindi si fa come dico io senza se e senza ma.»

    «Questa storia ti ha dato alla testa, Nick. Come puoi dire che non ti fidi di me e non ci tengo a te? Siamo amici da una vita.»

    «Per due milioni di buoni motivi, amico. I soldi sono una scusa sufficiente per uccidere chiunque. E in ogni caso, se davvero vuoi stare dalla mia parte, allora fai ciò che ti dico. Vedrai che ne trarremo vantaggio entrambi.»

    Hank sospirò.

    «Dimmi che cosa vuoi fare.»

    «Ci dirigiamo a Milwaukee, tu mi scarichi al porto e da lì ci salutiamo. Tu ti prendi i tuoi centocinquantamila dollari e io me ne vado dove dico io.» Fissò negli occhi l’amico, agitando la mano destra: «Addio Hank, addio Nick».

    «Centocinquantamila? Come centocinquantamila? Erano duecentocinquantamila, cristo, e prima ancora cinquecentomila.»

    «Sì Hank stai tranquillo, avrai duecentocinquantamila dollari, in totale. Ma non penserai che sono così fesso da portarmi appresso due milioni di dollari?»

    «Non hai i soldi con te?»

    «No certamente. Ho solo duecentomila dollari. Di cui centocinquanta per te, e cinquanta per me, per le prime spese. Poi, una volta che mi sarò sistemato, e che sarò sicuro che tu avrai tenuto il becco chiuso, avrai il resto del tuo denaro.»

    «Tutte queste sorprese non mi piacciono. Io volevo subito tutti i soldi. Anche io adesso non voglio più tornare a Chicago. Quelli lo sapranno che ti conosco e ci metteranno poco a capire.»

    «Stai dicendo solo stronzate. Come possono sapere che ci conosciamo?»

    «Nick, apri gli occhi. Quelli sanno tutto di tutti. Prima o poi ci arrivano alla nostra amicizia. Perché credi che avessi fretta di sparire?»

    «Maledizione, ma tu hai contatti con questi mafiosi? Cosa ne sanno che tu esisti?»

    «Sei serio? Loro controllano il porto. Sanno quanti peli nel culo ha ognuno di noi. Se stasera non vedono che torno magari non si insospettiscono, ma già domani mattina ci saranno domande su Hank Wayne e la sua vita di merda.»

    Nick si mise le mani sulla fronte

    «Non avevo considerato questa faccenda. Potevi essere più chiaro quando mi hai detto che potevano esserci problemi, ma avresti gestito tu la cosa. Se ti riferivi a questo, è un casino. Io ho bisogno di qualche giorno per dileguarmi, volevo un margine di vantaggio maggiore.»

    «Da come mi avevi parlato c’era tutto il margine che volevi. Ma ora sei tu che stai cambiando le cose, cazzo.»

    «Fammi pensare. I soldi sono sistemati al sicuro, ma se mi cercano, da domani devo cambiare alcune cose.»

    «Potrei lasciarti a Milwaukee e poi tornare a Chicago. Arriverei in nottata e non ci sarebbe nulla di strano.»

    «In più, non ci sarei neanche io.» Guardò Hank per un attimo. «Sì amico, si può fare.»

    «Ok allora vado a dare gas, altrimenti col vento contro, arriviamo troppo tardi» disse dirigendosi verso la plancia.

    «C’è un problema, Hank.»

    Hank si fermò sulla soglia della cabina e si girò, sconfortato.

    «A queste condizioni, ho bisogno di più soldi contanti. Ti posso dare solo cinquantamila dollari, al momento.»

    Hank sbatté la porta della cambusa, stizzito.

    «Mi stai prendendo in giro? Ti trovo una soluzione accettabile e tu mi ripaghi togliendomi altri soldi?»

    «Ti devi fidare di me. Avrai tutti i tuoi soldi. Tutti i tuoi duecentocinquantamila bigliettoni. Ma non ora.»

    Puntandogli il dito contro, Hank disse «Se parliamo di fiducia, non sono io quello da convincere. Ma non tentare di fottermi o potrei diventare cattivo», concluse dirigendosi al timone.

    Nick spense i fornelli e si gustò serenamente la colazione.

    Le minacce di Hank non gli avevano mai fatto paura.

    CAPITOLO 6.

    Vicky Benton era sempre stata una con molta pazienza.

    Era la secondogenita di una famiglia di operai, per cui doveva sempre accontentarsi delle briciole che piovevano dal fratello maggiore.

    A scuola non aveva mai avuto un libro nuovo, proprio suo, così come i giocattoli: sempre ereditati da lui.

    Quando si acquistava qualcosa, lei doveva attendere che finisse di usarlo Donovan.

    Poi arrivava il suo turno.

    Intanto che lui viveva materialmente gli oggetti, lei li idealizzava e, con la fantasia, gli dava delle accezioni e delle capacità che poi, al lato pratico, non avevano riscontro.

    Questo le aveva permesso di sviluppare un’intelligenza vivida, attiva, perspicace che l’aveva poi condotta a essere una studentessa brillante: a 23 anni si era laureata in matematica, col massimo dei voti.

    Era l’orgoglio della famiglia.

    Al contrario di Donovan.

    A sedici anni lui aveva deciso di mollare gli studi e di arruolarsi in marina.

    Voleva dimostrare ai genitori che aveva capacità diverse dallo studio, che loro sottovalutavano.

    Partì una mattina di ottobre per andare al campo di addestramento militare di Pensacola, in Florida.

    Dopo due giorni di autobus, venne scaricato davanti a una ringhiera che delimitava il campo.

    All’ingresso, la guardia gli chiese cosa voleva.

    «Devo iniziare a fare il soldato» fu la risposta secca.

    Quello spense la sigaretta e ridendo gli disse di andare prima all’ufficio richieste di arruolamento.

    Riconobbe l’ufficio dalla lunga fila di ragazzini all’esterno.

    Dopo due ore arrivò il suo turno e venne visitato e valutato.

    Fu dichiarato inidoneo per requisiti fisici e culturali.

    Gli diedero un calcio nel culo e gli dissero di arrangiarsi.

    Si guardò in tasca: decise di spendere i pochi dollari che aveva in troie e alcool.

    Si diresse a un bordello che aveva adocchiato arrivando in autobus.

    La bella Marylin, più grande di lui di almeno dieci anni, gli fece dimenticare l’esercito, la delusione, la famiglia, il futuro.

    Almeno per un’ora.

    Poi venne sbattuto fuori dal bordello: senza soldi, lì

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