Interferenza d'amore: Serie La Famiglia Prescott. Vol.1, #1
Di Mignon Mykel
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SINOSSI
Caleb Prescott si è ritrovato a partecipare a un dating show per caso.
Cosa succede quando si uniscono una rossa delle dimensioni di un folletto, un giocatore della NHL e le bellissime Hawaii?
La violazione del contratto.
Essendo cresciuto in una famiglia di giocatori di hockey, Caleb Prescott conosce meglio di chiunque altro i pro e i contro di una stagione. Se c'è una cosa che ha giurato di rispettare, è che è lì per giocare, non per essere il volto dei media.
Sydney Meadows è una laureanda che decide di fare uno stage presso una società di casting. Divertente, vero? Fino a quando non le viene assegnato un compito impossibile: convincere un noto giocatore di hockey, poco presente sui media, ad accettare di partecipare a un dating show.
Ciò che comincia come una sfida, prende decisamente un’altra piega...
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Anteprima del libro
Interferenza d'amore - Mignon Mykel
Interferenza d’amore
di
Mignon Mykel
Serie La Famiglia Prescott. Vol 1
––––––––
Traduzione di Stefy Ma
Quest’opera è protetta dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale non autorizzata.
Interferenza d’amore
Scritto da Mignon Mykel
Copyright 2021 Mignon Mykel
Tutti i diritti riservati
Distribuito da Babelcube,Inc.
www.babelcube.com
Tradotto da Stefy Ma
INDICE
––––––––
Titolo
Diritto d’autore
Interferenza d’amore. Serie La Famiglia Prescott. Vol.1
Nota dell’autore
Dedica
Prologo
Prima Parte. Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Caitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Seconda parte. Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Capitolo 21
Capitolo 22
Capitolo 23
Capitolo 24
Capitolo 25
Capitolo 26
Capitolo 27
Capitolo 28
Capitolo 29
Capitolo 30
Capitolo 31
Capitolo 32
Epilogo
––––––––
Beauty. Novella della serie La Famiglia Prescott
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Nota sulle squadre Enforcers:
Quando ho iniziato questo viaggio con i Prescott, non c’era la Pacific Division League nell’American Hockey League. La nuova divisione è stata annunciata nel gennaio del 2015, sette anni dopo che i Prescott e la loro affiliazione con San Diego e Beloit erano stati creati nella mia mente, perciò quando finalmente mi sono seduta a scrivere le storie di questi uomini, facendole uscire da un posto sicuro come la mia mente per trasformarle in parole scritte, non sono riuscita a trovare un modo per spostare le squadre. La serie Prescott è diventata enorme con l’aggiunta di sottoserie, e tutte le città e le connessioni funzionavano solo nel luogo in cui le avevo inserite. Nella mia mente gli Enforcers della NHL e dell’AHL erano legati a quei posti così come le scene, le case e le attività svolte dai personaggi, per cui non potevo cambiare le città.
La NHL e l’AHL sono riuscite a collocare le loro squadre affiliate AHL sulla costa occidentale, più vicine alle loro controparti NHL, e ora c’è una squadra AHL con sede a San Diego, così come alcune squadre AHL sparse lungo la costa, ma io ho scelto di far restare le mie
nelle città di origine.
A tutti quelli che pensano di non essere abbastanza bravi.
Qualcuno lì fuori vive per il vostro sorriso.
Prologo
FINE APRILE,14 ANNI PRIMA
Avere dieci anni faceva schifo.
Era una vera rottura di palle.
Noah Caleb Prescott, Caleb quando non era in guai seri, era seduto sugli spalti nel posto riservato alla sua famiglia alla Beloit Arena e si stava sporgendo in avanti con le braccia incrociate. Solo il muretto di cemento lo separava dalla fila di sedili sotto la sezione dei box. Il suo compleanno era stato un paio di settimane prima e di solito faceva una festa con i suoi amici, a tema hockey, ovviamente. Ma si erano trasferiti in Wisconsin solo da un paio di mesi e sua madre non si fidava ancora dei bambini della sua classe.
Qualunque cosa significasse.
Suo padre era il grande Noah Prescott della NHL; e no, non era un’esagerazione. Era stato lui a riportare la famiglia in Wisconsin. Caleb immaginava che fosse il posto in cui avevano vissuto prima di trasferirsi a San Diego, subito dopo la nascita di Myke per allenare i Beloit, una squadra di hockey in cui aveva giocato suo padre tempo prima.
Era contento del suo lavoro di allenatore, ma era costretto a stare seduto in quello stupido box mentre suo fratello e le sue sorelle trotterellavano in giro. Lui voleva giocare solo a hockey, ma sua madre aveva stabilito una regola secondo la quale quando lui e i suoi fratelli non giocavano né si allenavano, dovevano presenziare alle partite del padre.
Non ci si divertiva nel box.
Accanto a lui era seduta Myke, sua sorella che aveva undici anni, o forse sarebbe stato meglio dire che era accasciata sul sedile accanto al suo.
«Come va?» gli chiese. Myke era cool per essere una femmina. Anche lei giocava a hockey, ed era quasi migliore di lui.
Quasi.
Con il mento appoggiato sulle braccia conserte, scrollò a malapena le spalle, accasciandole immediatamente.
«Sei eccitato per il bambino?» chiese con un sorriso.
Quella era un’altra cosa fastidiosa. La loro mamma stava per avere un altro bambino. Probabilmente un’altra femmina. Lui e Jonny erano gli unici maschi, e anche se suo fratello era divertente e tutto il resto, Caleb temeva che non sarebbe riuscito a sopportare un’altra femmina. Ce n’erano già quattro nella sua vita, compresa sua madre. Semplicemente non c’era spazio nella famiglia Prescott per un’altra persona. Nessuno spazio. Quattro erano già troppi.
Continuò a tenere lo sguardo sulla zona neutrale; il disco stava per essere messo in gioco. Forse se la avesse ignorata, Myke lo avrebbe lasciato in pace.
Quando sarebbe diventato un giocatore professionista di hockey, perché sarebbe successo, non avrebbe avuto tempo per le ragazze, per fare l’allenatore o per traslocare. Avrebbe giocato solamente a hockey.
Ci sarebbe stato solo quello.
Niente... roba extra.
Quando Avery urlò per far capire alla loro madre nel tipico modo dei bambini che aveva bisogno di qualcosa, forse del suo succo, Caleb alzò gli occhi al cielo.
Niente roba extra.
Prima Parte
Capitolo 1
Aprile, Presente
Sydney
Dopo una giornata stressante di esami, ero pronta per un bicchiere di vino aromatizzato al cioccolato. Chiunque avesse deciso di unire cioccolato e vino era un fottuto genio.
Aprii la porta del mio appartamento accogliente, che qualcuno avrebbe definito antiquato, e gettai le chiavi in uno svuotatasche che tenevo sulla tavola. Chiusi rapidamente la porta, inserendo il lucchetto e la catena, e mi sfilai dalla spalla la borsa a tracolla gettandola casualmente a terra.
La avrei recuperata più tardi. Conteneva solo appunti su appunti, perciò avrebbero potuto anche prendere fuoco. Quel corso era terminato, finito. Sayonara, adios, ultimo anno di marketing, e ormai c’erano solo un paio di voti tra me e la laurea.
I corsi erano un gioco da ragazzi. Semplicemente non avevo ancora preso la decisione finale. Avevo sempre avuto le mani in pasta dappertutto: dall’organizzazione di matrimoni alla pubblicità, passando per la gestione di un teatro.
Non sapevo come recitare, ma adoravo tutto ciò che c’era dietro le quinte.
L’estate prima, avevo fatto uno stage presso un’organizzatrice locale di matrimoni e mi ero divertita. Riuscivo a vedermi in quell’ambito lavorativo. Fortunatamente, non avevo conosciuto nessuna bridezillas, anche se di certo avevo sentito qualche storia al riguardo. Tuttavia, nonostante pensassi che quella fosse la mia strada, un compagno di classe mi aveva parlato di uno stage retribuito che lui stava facendo con una compagnia di produzione di medie dimensioni, ed ero rimasta un bel po’ incuriosita.
Forse qualcuno mi avrebbe definito una persona ambiziosa, ma io gli avrei semplicemente risposto che amavo tenermi occupata.
E poiché i corsi dell’ultimo anno e la laurea non mi tenevano già abbastanza occupata, oltre al mio lavoro presso la biblioteca del college, avevo chiesto maggiori informazioni. E ora venivo pagata in modo inadeguato per studiare sotto le direttive di un regista di Los Angeles. Niente male, vero?
Ho già detto che abitavo nello Utah? Sì, Utah. Non in California, dove risiedeva la logistica di questo lavoro, ma nell’epoca di Internet e degli incontri su Skype, sembrava funzionare relativamente bene.
In sostanza, facevo delle ricerche per David, il tizio per il quale lavoravo. Lui mi dava un nome e io cercavo quella persona su Google. Lui stabiliva un luogo e io trovavo il modo per farlo prendere vita in un’area adiacente a uno studio secondario in cui non ero mai stata.
Ero sicura che lui cestinasse tutto ciò che gli mandavo tramite e-mail, e ogni volta che sembrava prendere appunti durante i nostri incontri su Skype, in realtà stava solo scarabocchiando... forse auto o altro. Ma a me piaceva scavare a fondo delle cose. Forse avrei dovuto lavorare per i servizi segreti...
Tuttavia, stavo divagando.
Erano passati un paio di giorni dall’ultima volta in cui avevo parlato con David. Mi aveva detto che aveva in mente un grosso progetto per me e che ne avremmo parlato quando ci saremmo visti, perciò mi ero assicurata di avere tutto organizzato con lo studio, ma a quanto pareva, avrei avuto un week-end per leggere tutto tranne un libro di testo. Magari avrei potuto andare al cinema.
Non che ci fosse un film che mi interessava...
Dopo essermi tolta le ballerine, attraversai l’appartamento tutto bianco e andai nella piccola cucina. Sollevai i lunghi capelli rossi dal collo e li raccolsi in una crocchia disordinata, afferrai un bicchiere dal ripiano e aprii il frigorifero per prendere quel delizioso vino al cioccolato a cui stavo pensando dal mio ultimo esame. Ma proprio quando stavo per versarmelo, il suono della voce sexy-ma tanto sexy-di Adam Levine che cantava Locked Away spezzò il silenzio, anche se era attutita.
Appoggiando sul bancone sia il bicchiere che la bottiglia, andai a prendere la mia borsa a tracolla per tirare fuori dalla tasca laterale il cellulare.
Rigettai la borsa a terra accanto alla porta, tanto la avrei spostata più tardi. Anche se ero una persona organizzata, trattavo con poca cura la mia borsa, poiché era l’unica cosa che tendevo a lasciare dove capitava. Gettai un’occhiata allo schermo e vidi che era David.
A quanto pareva, stava tenendo fede alla promessa di parlarmi del cosiddetto progetto grosso
.
Sbloccai il telefono per rispondere alla chiamata e collassai sul divano, circondata dai miei cuscini oro e marrone. «Buon pomeriggio, David. Come stai?»
«Ho un compito per te,» disse andando dritto al punto.
Mi raddrizzai nel mio posto sul divano e provai a non ridere. Ero super curiosa di sapere cosa aveva preparato per una studentessa come me. Per quel particolare settore lavorativo, non c’era bisogno di una laurea, ma avrei voluto tutta la conoscenza possibile nel caso in cui si fosse trasformata nella mia professione.
Tenevo sempre un taccuino e una penna sul tavolino da caffè di fronte al divano. Mi allungai a prenderli, mancando per un pelo le tre candele che erano lì. Accavallai le gambe, cliccai sull’estremità della penna per estrarne la punta e sistemai il cellulare tra l’orecchio e la spalla.
«Okay, spara.»
«Voglio che tu faccia qualche casting. La tua capacità di fare ricerche è davvero impressionante, e mi piacerebbe metterla a frutto. Ovviamente, la decisione finale spetterà a me, ma tu farai un buon lavoro di scrematura.»
«D’accordo, Perfetto. Di che tipo di trasmissione si tratta?»
«Di un dating show.»
E improvvisamente, il mio sorriso luminoso svanì un po’ o del tutto, anche se non mi stavo guardando allo specchio per constatarlo.
Un dating show non era quello che stavo cercando. Primo, perché ce n’erano a bizzeffe e a parte quelli che erano seguiti da un folto gruppo di fan, gli altri non avevano buoni ascolti. E secondo, i ragazzi e le ragazze di quegli show erano terribilmente finti.
Chi diavolo trovava l’amore in un paio di settimane? E chi avrebbe voluto condividere il proprio uomo con altre cinquemila ragazze che gli infilavano la lingua in gola? Di certo non io.
No. Grazie.
Siccome David continuava a parlare, gli prestai attenzione prendendo appunti. «Il ragazzo single sarà un atleta. Stileremo una breve lista di uomini che ci piacerebbe mettere alla prova, e il tuo lavoro sarà di trovarli, parlare con loro e convincerli a partecipare. Avere un’idea di cosa cerchino in una partner ideale. Sai, quel genere di cose.»
«E chi sono gli atleti?» La mia penna era pronta e in posizione.
«Be’, la persona che vogliamo veramente è Caleb Prescott.»
Quel nome non mi diceva niente.
«E poi?» Aveva parlato di una lista, no?
«Per il momento, concentrati su Prescott. Vedi cosa riesci a ottenere, convincilo.»
«Chi è esattamente questo Caleb Prescott?»
Ci fu una pausa dall’altro capo, seguita da un sospiro, e immaginai David passarsi una mano sul viso in preda alla frustrazione.
«È un attaccante di hockey...»
Ecco perché il suo nome non mi era familiare: non avevo mai visto una partita di hockey, a parte quando avevo fatto zapping durante le Olimpiadi invernali.
«Gioca per i San Diego Enforcers. Suo padre giocava nella NHL, ha vinto un sacco di premi. Attualmente allena una squadra in Wisconsin. Caleb è uno dei suoi sei figli. È una grande famiglia di giocatori di hockey.»
«E se dice di no?»
«Poi ci penseremo, ma mi piacerebbe avere Caleb nello show.» Quando David mi diede il numero di telefono dell’agente di Caleb, lo appuntai. «Chiamalo. Fammi sapere entro le sei di domani pomeriggio, e se dovrai andare da lui, fammi sapere che farò un giro di telefonate.»
Sei del pomeriggio?
Posai la penna e allontanai il telefono dall’orecchio per guardare l’ora.
Avevo meno di ventiquattro ore per trovare quel ragazzo, chiamarlo e convincerlo a partecipare allo show. E se lui non mi avesse risposto? Cosa avrei dovuto fare? Un viaggio a San Diego?
Ma d’altro canto, potevo davvero scegliere? Non sembrava affatto. Avevo poco tempo a disposizione.
Quando mi riportai il telefono all’orecchio, David stava parlando dell’idea generale dello show. Ma non mi preoccupai di prendere appunti. Un dating show era un dating show. Era stereotipato come ogni altro programma di quel tipo. Mentre lui continuava a parlare, sfogliai mentalmente la mia agenda. Nella settimana in cui dovevo sostenere degli esami non andavo in biblioteca così come quella successiva per riprendermi. Quindi, non avrei dovuto preoccuparmi del lavoro, ed ero sicura che non c’era altro che avessi pianificato.
Quando tutto fu detto e fatto, e la mia telefonata con David conclusa, appoggiai il taccuino sul divano accanto a me. Arricciai le labbra e sbuffai in preda alla frustrazione. A parte qualche scarabocchio a casaccio, non c’era molto sulla pagina. Dating show e Caleb Prescott erano le voci in grassetto. Le righe avrebbero dovuto essere riempite con i personaggi, i desideri, l’aspetto, le azioni... tutto e di più riguardante il dating show.
Non era andata come avevo sperato.
Cosa ne pensavo del primo casting che mi era stato affidato? Un vero schifo.
––––––––
Caleb
L’altra sera non sarei dovuto andare con Jonny da O’Gallaghers.
Mi sfilai il cuscino da sotto la testa e affondai il viso nel materasso, spingendo i bordi il più possibile vicino alle orecchie. Qualsiasi cosa pur di bloccare il fastidioso trillare del mio cellulare.
La sera prima, i San Diego avevano vinto, e come consuetudine, io e Jon Jon eravamo andati in città. A volte gli altri membri della squadra ci raggiungevano, ma la maggior parte delle volte eravamo solo io e il mio fratellino. Quando da piccoli giocavamo a hockey, mamma ci portava al McDonald. Al college, nell’unico anno in cui lo avevamo frequentato insieme, eravamo soliti festeggiare nel mio dormitorio. Ora, uscivamo e ci davamo dentro con i festeggiamenti, e certamente, lo facevamo in segreto. La maggior parte dei baristi si girava dall’altra parte quando alcuni giovani atleti venivano in città, e noi potevamo sempre contare su Conor O’Gallagher. Si diceva che gli O’Gallagher fossero un po’ sopra le righe, e quello era il motivo per cui non facevano caso al fatto che Jonny non avesse ancora compiuto ventuno anni.
Sia io che Jonny eravamo stati scelti dai San Diego Enforcers. Durante il mio ultimo anno di college, il primo di Jonny, eravamo andati al campo di allenamento come studenti con delle buone statistiche ed eravamo usciti con un posto da titolare. Certamente, il cognome Prescott significava qualcosa per l’organizzazione, ma Jonny era un bravissimo portiere e le mie statistiche erano migliori di quelle di mio padre, visto che lui era arrivato alla Major League solo a venticinque anni, avendo giocato prima un paio di anni nell’American League.
La vittoria del giorno prima significava che gli Enforcers erano molto più vicini a Sir Stanley e alla sua coppa. Le finali erano alla nostra portata. Avremmo dovuto solo vincere la partita di martedì sera per passare al turno successivo. Ci eravamo quasi, e le probabilità erano a nostro favore. Con Jonny in porta, Vegas avrebbe dovuto dare il massimo per mandare il disco a segno.
Sospirai felice quando il mio cellulare smise di suonare, ma proprio quando stavo per addormentarmi, Jonny aprì la porta della mia camera da letto. Sollevai il cuscino a sufficienza per osservare oltre la mia spalla chi fosse l’intruso e vidi mio fratello in boxer che lanciava il cordless di casa sul letto, facendolo rimbalzare sul mio ginocchio, un po’ troppo vicino per i miei gusti.
«Stronzo di merda.»
Jonny inarcò a malapena un sopracciglio biondo scuro. Oh, i vantaggi di dividere l’appartamento con il proprio fratello minore.
Immaginai che mi sarebbe potuta andare peggio. Non sarebbe stato semplice vivere con le mie sorelle.
«La prossima volta svegliati e rispondi al tuo cazzo di telefono,» borbottò Jonny. «C’è una donna dall’altro capo e non credo che abbia molto apprezzato il mio sarcasmo.»
Presi il telefono con una mano e gettai il cuscino da parte con l’altra prima di fargli il dito medio. Quando me lo portai all’orecchio, guardai il mio fratello ventenne ritornare nella sua stanza. «Caleb,» risposi emettendo un sospiro stanco.
«Ehm, ciao,» disse la voce dall’altra parte. Era di una donna, come aveva detto Jonny. Non era stridula, ma nemmeno così sexy e roca come lo erano alcune voci femminili. Nervosa, forse. Non pensavo di conoscere quella voce e il mio numero di casa non era presente nell’elenco, perciò non poteva trattarsi di una strana stalker. Chiusi brevemente gli occhi non riuscendo a pensare a quest’ora.
«Scusami se ho chiamato a un orario inopportuno, ma ho immaginato che essendo le dieci tu fossi già sveglio e attivo.»
Erano già le dieci?
«Ho pensato che fosse l’orario in cui cominciavi l’allenamento nei giorni delle partite. Ho poco tempo a disposizione e speravo davvero di lasciarti un messaggio.» Ah, non si aspettava di parlare davvero con me.
«E tu sei...» chiesi sbottando prima di sbadigliare.
«Scusami se non mi sono presentata,» si scusò di nuovo. «Mi chiamo Sydney Meadows e sto chiamando per conto della Sorenson Media Group. Ho provato a rintracciarti tramite il tuo agente, ma lui ha detto di chiamare direttamente te.»
Mi appuntai mentalmente di parlare con Mark non appena ne avessi avuto l’opportunità. Avrebbe dovuto smetterla di farmi contattare direttamente dalle persone. Non era quello il suo lavoro? Non era compito suo scoprire quali comparsate e ingaggi erano migliori per i suoi atleti quando non facevano quello per cui erano pagati? Accidenti, Mark sapeva che non mi piaceva firmare per fare cose extra che derivavano dall’essere un atleta professionista. Eventi con la squadra, sì. Serate sulla pista di pattinaggio, assolutamente. Ma per tutto il resto era un secco no.
«Stiamo organizzando un reality televisivo, e tu sei uno dei nomi che vorremmo coinvolgere nello show,» dichiarò in modo meccanico.
Pensai che non mi sarei riaddormentato, perciò rotolai sulla schiena prima di alzarmi dal letto. Una volta in piedi, scossi la testa. «Be’, mi dispiace, ma non partecipo ai reality.»
«Permettimi di spiegarti...»
«È l’unica cosa che ti lascerò fare, signorina Meadows. Davvero vuoi sprecare il fiato? Non faccio televisione.»
«Va bene,» si affrettò a dire. Quando cominciò a parlare di tante donne e di molti appuntamenti, mi diressi nudo alla cassettiera per tirare fuori un vecchio paio di pantaloncini logori. Me li infilai ascoltandola da un solo orecchio. Mentre continuava a parlare, io seguitai a muovermi. Uscii dalla mia stanza e attraversai il corridoio su cui si affacciavano sia la camera di Jonny che la mia, una stanza degli ospiti e un bagno prima di scendere le scale scalzo. Ogni volta che la sentivo fermarsi in attesa di una risposta, mi assicuravo di aggiungere uno stentato mmhm
, così lei avrebbe continuato il suo sproloquio e sarebbe arrivata alla fine.
Avevo delle sorelle, perciò sapevo gestire una telefonata con esemplari di femmine prolisse.
«Perfetto,» disse alla fine con un tono gioioso, così diverso da quello insicuro dell’inizio della nostra conversazione, per la maggior parte a senso unico. «Ci vediamo stasera dopo la partita. Grazie mille, Caleb. Ti prometto che non resterai deluso.»
In piedi davanti al frigo, mi accigliai quando sentii il segno evidente della fine della chiamata. Allontanai il cellulare dall’orecchio solo per vedere sullo schermo la scritta chiamata terminata
e il cipiglio divenne evidente sul mio viso.
Merda...
Cosa avevo appena accettato di fare?
Capitolo 2
Sydney
Dopo aver chiamato David e avergli chiesto di estendere la mia proroga, perché a essere onesti ventiquattro ore non erano abbastanza per convincere un ragazzo a partecipare a uno show al quale era contrario, preparai un borsone da viaggio e mi diressi al Grand Reunion Regional che distava un’ora e mezza.
L’unico volo diretto a San Diego partiva alle cinque del pomeriggio, con un breve scalo a Phoenix.
Dopo aver fatto tutto, arrivai lì quasi alle otto e mezza. Secondo i miei calcoli, avevo ancora un’ora per andare dall’aereoporto all’arena, ma non conoscendo il traffico, nella peggiore delle ipotesi speravo davvero che fosse abbastanza.
Lasciai il terminal e mi diressi verso la zona del noleggio auto. Vedendo la coda, soffocai un gemito. Mi misi in coda e appoggiai il mio trolley a terra rovistando nella parte anteriore per prendere la mia agendina di pelle dove conservavo i codici di conferma, le mappe, una descrizione dello show, degli appunti a caso sull’uomo e ogni possibile buon motivo che avrei potuto dare a Noah Caleb Prescott, pluripremiato attaccante dei San Diego Enforcers, per convincerlo a firmare.
Ma avendo trovato ben poco, non ero convinta che sarei riuscita a farlo.
Il secondo figlio di Noah e Ryleigh Prescott era stato il primo membro della famiglia a essere ingaggiato da una squadra, nonostante ci avesse già provato sua sorella maggiore. Quella ragazza era una delle più grandi sostenitrici della squadra di hockey femminile del Midwest, e avevo trovato quasi più informazioni su di lei che su Caleb.
Caleb era alto un metro e novantacinque ed era un giocatore conosciuto per la sua velocità e le mosse rapide. Non era un tipo da immischiarsi nelle zuffe, ma non aveva paura di tirare un pugno se necessario.
La maggior parte dei giornalisti e forumisti parlava solo bene di lui.
A essere onesti, non avevo trovato un solo commento negativo sull’uomo come giocatore.
Fuori dalla pista non era diverso, poiché dava il suo contributo alla società, andava insieme alla sua squadra negli ospedali locali e sponsorizzava alcuni marchi, ma per quel poco che avevo trovato il suo nome era legato alle società. Non c’erano annunci stampa o video e le poche interviste che avevo trovato non erano estremamente lunghe.
Avevo trovato alcune foto scattate dai paparazzi che lo ritraevano insieme a modelle e attrici ma mai con la stessa più di una volta, e mai così tante foto in un arco di tempo che lo dipingessero come il tipico giocatore atletico. L’unico evento a cui sembrava partecipare ogni anno era il NHL Awards in Vegas, anche se non sapevo che fosse così importante. Vi aveva partecipato prima della stagione da rookie e poi anche lo scorso giugno, e come molti di quelli che vi avevano preso parte era meraviglioso con l’abito firmato che aveva indossato. Nella maggior parte delle foto era da solo o ritratto insieme a un ragazzo biondo che nelle didascalie si leggeva fosse suo fratello Jonny.
Avevo capito che Caleb non amava stare sotto i riflettori, eppure il pubblico lo amava.
Come avrei fatto a convincerlo a partecipare a un reality show?
Mi sarebbe servita tutta la fortuna del mondo.
Controllai per tre volte i documenti per il noleggio dell’auto prima di lisciarmi i pantaloni. Infilai la mano dietro la schiena per controllare che l’orlo della camicetta verde chiaro che avevo scelto per l’incontro fosse dentro i pantaloni e non penzolasse fuori. Il fatto che fossi vestita di marrone e di verde mi faceva sembrare un albero, ma il verde chiaro si abbinava al mio incarnato e al colore dei capelli.
Mi spostai un po’ di lato per gettare un’occhiata alle persone davanti a me, e siccome era tutto fermo, mi sfilai una scarpa col tacco di tre centimetri e flettei e roteai il piede. Che sensazione divina...
Visto che ero alta uno e cinquantasette, ogni centimetro era importante. Se il mio corpo fosse stato in grado di sopportare il dolore causato da tacchi più alti di cinque centimetri, li avrei messi immediatamente, ma anche quelli di tre centimetri mi facevano male.
Mi rimisi la scarpa quando vidi la fila iniziare ad avanzare. Afferrai la maniglia della mia valigia e mi spostai in avanti insieme alle persone restando qualche centimetro indietro. Anche se ero una fan dello chignon alto, avevo scelto di tenere i capelli sciolti per quell’incontro, ma non sarebbe successo di nuovo, poiché la differenza di temperatura tra lo Utah e la California era significativa, persino a un’ora così tarda.
Mi chinai e aprii la parte anteriore della mia valigia per prendere un elastico, ma rinunciai al mio solito chignon. Invece, raccolsi i capelli in una coda di cavallo alta e mi diedi una sistemata alla frangetta prima di dare un’occhiata all’orologio.
Ero molto agitata. La pazienza non era mai stata il mio forte.
Erano quasi le nove. Era già passata mezz’ora? Non andava bene.
Se avessi potuto, avrei fatto tutto il giorno prima. Odiavo essere in ritardo, mi piaceva essere puntuale, arrivare in tempo, almeno un quarto d’ora prima.
Secondo la mappa che avevo guardato prima, ci volevano dieci minuti per arrivare dall’aereoporto all’arena ma solo se non c’era traffico.
Mi chinai di nuovo e aprii la tasca anteriore della valigia per prendere l’iPhone e collegarmi al