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Arti e scienze nel Vicino Oriente
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E-book544 pagine6 ore

Arti e scienze nel Vicino Oriente

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Info su questo ebook

I lavori accademici della Classis Orientalis nel biennio 2017-2018 sono offerti in questo volume doppio che spazia tra Arabia, Andalusia, Armenia, Bisanzio, Cilicia, Cina, Egitto, Grecia, India, Iraq, Italia, Nordafrica, Persia, Siria e Transoxiana, lungo i quali s’incontrano maestri e vardapet, monaci e sufi, pedagoghi e filosofi, patriarchi e califfi, medici, teologi, zoologi e alchimisti, terapeuti e musicisti, ippiatri e veterinari, astronomi e retori, protagonisti della trasmissione della ‘filosofia naturale’ e delle ricerche scientifiche tra Evo Antico e Medio. Le prime IV Sezioni del presente volume sono dedicate a musica ed arti visive nelle tradizioni araba, armena, ebraica e siriaca, nelle quali s’intrecciano sovente aspetti liturgici, scientifici e filosofici. Le successive III Sezioni riguardano invece temi più specificamente matematici, medici, alchemici e di filosofia naturale cari al mondo arabo, armeno e siriaco, argomenti che sin dalla fondazione dell’Ambrosiana ispirarono le acquisizioni librarie condotte dal Collegio dei Dottori della nascente Biblioteca federiciana. Chimica e mistica, cibi e colori, magia e cosmologia, pratiche divinatorie persiane e centroasiatiche, ippiatria e fitoterapia, farmacopea e anatomia, costituiscono trame di percorsi di grande attualità sia per le considerazioni sociali che portarono ad istituire ospedali e ricoveri per poveri, vedove, orfani, stranieri, malati e lebbrosi, sia per le responsabilità dei medici. Tra i molti spiccano le figure del medico siro Sergio di Reshʻaina e dell’astronomo Severo Sebokht abate di Qenneshre.
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2023
ISBN9788870988079
Arti e scienze nel Vicino Oriente

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    Anteprima del libro

    Arti e scienze nel Vicino Oriente - AA. VV.

    SEZIONE EBRAICA

    MUSICA, LITURGIA E ARTI VISIVE NELLA TRADIZIONE EBRAICA

    ELIA RICHETTI – LYDIA CEVIDALLI

    LA MUSICA LITURGICA EBRAICA IN ITALIA

    1.IL CANTO SINAGOGALE (Rav Elia Enrico Richetti, edito da Gabriele Mancuso)

    È assodato che da sempre la liturgia ebraica è stata accompagnata dal canto. Di canti elevati al Signore si parla già nella Torah (Esodo 15); è evidente che i Salmi sono stati composti per essere cantati e suonati durante il culto sacrificale; l’ingresso a Gerusalemme dell’Arca Santa contenente le Tavole della Legge fu accompagnato da canti, suoni e danze; l’inaugurazione del Santuario costruito da Salomone comportò anch’essa canti e musiche ed una famiglia di leviti aveva il compito specifico di cantare ogni giorno il salmo destinato a quel giorno della settimana. Il Talmud racconta anche che, prima della distruzione del Secondo Santuario, quella famiglia di leviti si rifiutò di insegnare la sua particolare tecnica di emissione della voce e la cosa fu aspramente criticata dai Maestri perché, come effettivamente accadde, quell’arte si sarebbe persa per sempre.

    Era quindi logico che anche il culto sinagogale, e persino quello domestico, fosse legato al canto, perché, come affermano i Maestri, «non c’è preghiera senza melodia», e la normativa stabilisce che chi recita la preghiera pubblica sia dotato di «voce gradevole».

    Ma quali fossero i canti originali, dei primi tempi, non è stato trasmesso, ed è evidente che in ogni luogo la preghiera sia sempre stata accompagnata da canti e melodie che riflettono le modalità e sensibilità del luogo e del tempo. Le comunità ebraiche che si trovano in aree di cultura araba, ad esempio, si rifanno ai ritmi e agli stilemi del maqaam arabo; gli ebrei del centro e del nord Europa hanno i loro ritmi, nei quali si coglie sempre il pianto e la cupezza interiore di molti canti nordici; così come, secondo un medesimo criterio interattivo tra minoranza ebraica e tessuto maggioritario non-ebraico, nelle musiche delle comunità spagnole si coglie l’eco dei ritmi iberici, e le comunità ebraiche italiane faranno proprie le forme del belcanto dei compositori italiani o tipiche della musica popolare italiana.

    E a proposito delle comunità italiane assistiamo ad un fenomeno unico. Se le comunità originarie dei Paesi arabi hanno fondamentalmente le stesse modalità musicali in Libano come in Marocco, a Bagdad come a Djerba; se le comunità ashkenazite hanno le stesse melodie a Copenhagen come a Città del Capo, da Vladivostok alla California, in Italia ogni comunità ha le sue melodie, anzi, addirittura, nelle comunità maggiori ogni sinagoga ha le sue usanze musicali assolutamente irrinunciabili, che sono diventate elemento di riconoscimento e di identità. E nei tempi più recenti, nei quali molte persone non sono più in grado di pregare in ebraico, è il riconoscere le melodie tradizionali l’elemento che lega il singolo alla propria gente ed alla propria sinagoga.

    Ciò costituisce un gravoso impegno per un ufficiante o un rabbino che si sposti da una comunità ad un’altra, perché dev’essere in grado di imparare rapidamente le usanze e le melodie di una nuova comunità; ma ciò, d’altra parte, costituisce una ricchezza incommensurabile che va mantenuta, conosciuta, studiata e protetta. Ed è bello pensare che tutte le diverse melodie che si innalzano verso il cielo vadano a comporre un’armonia cosmica assolutamente unica.

    2.MUSICA LITURGICA EBRAICA E MUSICA COLTA IN ITALIA, NEI SECOLI XVII E XVIII (Lydia Cevidalli)

    Il panorama della musica sinagogale italiana è molto variegato, sia per l’estensione dell’area geografica in cui si sono sviluppate le comunità in tutta la penisola, sia per i continui processi di trasformazione della realtà comunitaria e sociale circostante. Emigrazione ed immigrazione in tutti i centri ebraici presenti in Italia sono state una dolorosa realtà per lunghi secoli, a seguito di bandi, esili e persecuzioni. In questi trasferimenti, i gruppi in fuga hanno portato con sé tradizioni religiose e patrimonio musicale, che si sono inseriti nei costumi e nelle abitudini delle comunità di accoglienza¹.

    Nelle situazioni di maggiore tolleranza e relativo benessere che dall’inizio del Quattrocento si vennero a stabilire nelle comunità e all’interno di aree governate da regnanti illuminati, la musica colta occidentale entrò in alcuni dei centri più attivi del mondo ebraico e molti giovani furono esortati allo studio di uno strumento o alla pratica della danza²: Guglielmo Ebreo da Pesaro, famoso ballerino, scrisse un importante trattato di danza nel XV secolo, l’orchestra di Salomone Rossi a Mantova nel XVII secolo fu chiamata a rallegrare feste e banchetti di regnanti o famiglie nobili. D’altra parte, musici vagabondi di origine ebraica, spesso uniti ai gitani, girando per l’Europa, assorbirono e portarono a conoscenza di un vasto pubblico melodie orecchiabili e facilmente riconoscibili che entrarono a far parte delle tradizioni musicali popolari di vaste aree europee e penetrarono anche all’interno delle comunità³. L’attività musicale era una delle poche attività permesse agli ebrei.

    Venezia costituisce uno dei luoghi più evidenti della convivenza tra comunità ebraica e mondo circostante⁴. Dal XV secolo in poi la capitale della repubblica che si definiva Serenissima fu un centro di richiamo per gli ebrei di tutta Europa, come testimoniano le cinque sinagoghe tuttora esistenti, costruite in epoche successive da ebrei provenienti da diverse aree geografiche e che praticano tuttora riti specifici⁵: per questo studio sono importanti quello degli ebrei tedeschi, il primo nucleo presente a Venezia, e quello degli ebrei spagnoli, espulsi dalla Spagna nel 1492 e approdati poi in tutto il Mediterraneo. Città fiorente, capitale culturale nel mondo europeo, meta di commercianti, scrittori, viaggiatori e musicisti, Venezia accoglieva anche gli ebrei, pur giustificando la loro presenza con richieste di enormi cifre di denaro. Le mura del primo ghetto della storia, istituito nel 1516, non riuscivano però a confinare la circolazione di persone e idee; le porte del ghetto venivano aperte al mattino e richiuse all’imbrunire⁶. Le visite al ghetto da parte dei veneziani, anche patrizi, erano particolarmente frequenti durante alcune festività ebraiche⁷ e d’altra parte molte attività commerciali svolte dagli ebrei erano permesse al di fuori delle mura del ghetto⁸.

    Un altro importante centro ebraico in Italia fu Mantova, centro anche di straordinaria produzione musicale. Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova tra il 1587 e il 1612, protettore di Claudio Monteverdi e responsabile dell’allestimento della prima opera in musica della storia, l’Orfeo, composta da Monteverdi, fu in varie occasioni committente di Salomone Rossi, figura diventata emblema del contributo ebraico alla storia della musica occidentale. Nella raccolta dei Canti di Salomone⁹, il compositore ha musicato vari testi liturgici ebraici nelle forme compositive proprie della musica occidentale, con modalità espressive davvero toccanti: un tentativo di portare nel mondo ebraico un linguaggio proprio del mondo cristiano.

    A Venezia fu pubblicato fra il 1726 e il 1728 L’Estro poetico-armonico¹⁰, una raccolta di cinquanta Salmi, musicati da Benedetto Marcello, con testo in forma di parafrasi dei salmi davidici a cura di Girolamo Giustiniani, in una elegante e raffinata edizione. La novità che fin dai tempi del compositore suscitò interesse fra letterati e musicisti fu l’inserimento di undici Intonazioni in ebraico, provenienti dalle sinagoghe tedesca e spagnola. In questo caso è il compositore che proviene dal mondo della musica colta cattolica ad ispirarsi al patrimonio ebraico, esportando dal ghetto melodie e tradizioni per portarle alla conoscenza di un più vasto pubblico.

    Le opere di Salomone Rossi e di Benedetto Marcello sono assai significative per comprendere i passaggi e le congiunzioni tra tradizioni musicali ebraiche e forme della musica colta.

    Il legame che Salomone Rossi ebbe con la corte dei Gonzaga fu significativo: vi svolse attività di esecutore e compositore, gli fu concesso l’esonero dall’indossare un segno distintivo giallo, obbligatorio per gli ebrei ed ebbe l’onore di collaborare in varie occasioni con il famoso musicista Claudio Monteverdi per gli spettacoli teatrali organizzati alla corte dei Gonzaga¹¹. Non si allontanò molto da Mantova, se non per seguire le edizioni delle sue opere presso famosi stampatori musicali a Venezia; faceva parte di una compagnia teatrale come compositore e suonatore insieme al suo piccolo gruppo di musicisti; nonostante la difficoltà ad essere apprezzato e riconosciuto pienamente dalla società colta per le sue eccezionali doti di compositore, riuscì a vivere in equilibrio nell’ambiente ebraico e in quello musicale alla corte del duca Vincenzo¹².

    Salomone Rossi scrisse le musiche per accompagnare i testi dei trentatré salmi, inni e canti, raccolti in un’edizione apparsa a Venezia nel 1623 con il titolo Canti di Salomone, a cura della stamperia dei fratelli Pietro e Lorenzo Bragadini. Nell’introduzione all’opera, il rabbino Leone da Modena, che godeva di grande considerazione nel mondo ebraico per i suoi responsi legali, avvallò la legittimità dell’operazione musicale compiuta dal compositore. Un intervento necessario agli occhi di tutte le comunità ebraiche, poiché era importante affrontare la diffidenza nei confronti di un’opera chiaramente ispirata alla musica colta occidentale, realizzata in una forma propria del mondo ecclesiastico; inoltre, non si poteva dimenticare l’antico divieto rabbinico all’utilizzo della musica, permessa in casi limitati e comunque sempre dedicati a fini religiosi. Convinto della necessità di ricreare gli antichi splendori della musica del tempo del Santuario, promosse la conoscenza, l’educazione e la fruizione della musica colta, eseguita con intenti di elevazione spirituale; magnificò le doti del musicista, le sue straordinarie qualità artistiche e gli altissimi livelli raggiunti nell’opera. Nella raccolta dei Canti di Salomone, le composizioni sono destinate a gruppi da tre fino a otto voci; nonostante la complessità della struttura, la varietà e l’intensità dell’espressione, il testo è sempre chiaramente riconoscibile e intellegibile, secondo la necessità della tradizione ebraica che esige di dare alla parola una priorità assoluta¹³.

    Nella curata edizione veneziana il testo è scritto in ebraico, con direzione da destra a sinistra, mentre la musica ha direzione opposta, da sinistra a destra, fatto che può destare qualche difficoltà nell’allineamento delle sillabe del testo con la frase musicale. Per l’esecuzione era perciò necessaria una ottima conoscenza dei testi, una buona educazione musicale e di sicuro l’esperta direzione del compositore. Salomone Rossi, infatti, curò la preparazione dei musicisti, come ci riportano Leone da Modena e lo stesso Salomone Rossi nelle introduzioni all’opera¹⁴. Un compito non facile, considerando l’utilizzo della tecnica compositiva della musica colta occidentale, molto lontana dal patrimonio dei canti monodici del mondo ebraico, con melodie del tutto nuove e di difficile lettura per la maggior parte dei cantanti coinvolti. Non è escluso – ma è bene sottolineare che ciò è espresso a livello meramente ipotetico – che Salomone Rossi utilizzasse segmenti melodici conosciuti ai musicisti che istruiva, facendo leva sulle loro qualità mnemoniche, base dell’apprendimento e della trasmissione orale, ad oggi non facilmente rintracciabili, poiché dispersi in altre tradizioni o scomparsi del tutto. Un esame sistematico dei possibili inserimenti di melodie tradizionali ebraiche all’interno delle composizioni di questi salmi, inni e canti potrebbe, probabilmente, ancora rivelare novità finora non emerse. Nel 1630 l’invasione del ducato di Mantova da parte delle truppe dell’imperatore Ferdinando d’Asburgo causò persecuzioni, esilio, allontanamento e probabilmente dispersione delle antiche tradizioni musicali locali; la rimozione di tale repertorio, o almeno di parte di esso, potrebbe stare alla base della difficoltà di reperire all’interno dell’opera del Rossi testimonianze musicali identificabili con il repertorio sinagogale o anche indirettamente riferibile ad esso.

    Salomone Rossi, raffinato compositore, con il sostegno di Leone da Modena, ha avuto il merito di introdurre una nuova musica all’interno del mondo ebraico. Durante la sua vita, i canti della raccolta sono stati eseguiti regolarmente in sinagoga, fino al 1630. I cambiamenti politici che ne seguirono segnarono la fine di un’esperienza musicale comunitaria, che non fu più ripetuta. I canti di Salomone non fanno più parte del repertorio sinagogale, come avevano sognato Leone da Modena e Salomone Rossi: sono un capolavoro musicale che ancora affascina per la sua espressività, ma eseguito solo in forma di concerto e nelle registrazioni discografiche.

    I cinquanta Salmi biblici musicati ne L’Estro poetico-armonico in otto tomi, furono pubblicati a Venezia, negli anni tra il 1724 ed il 1726; l’opera vide la collaborazione di Benedetto Marcello e Girolamo Ascanio Giustiniani, entrambi letterati e musicisti.

    Nell’introduzione al primo tomo dell’edizione, Marcello manifesta il suo apprezzamento per il patrimonio musicale ebraico, al cui interno si sarebbe formata la tradizione musicale del mondo cristiano. La novità dell’opera è data dalla presenza di undici antichi canti – chiamati Intonazioni – provenienti dal repertorio sinagogale, oltre a due Inni, pervenuti dalla classicità greca. Presentando all’interno delle sue composizioni testimonianze musicali di tempi e stili diversi, il musicista ha voluto sottolineare l’importanza del patrimonio culturale ebraico e di quello classico, qui accolti nell’alveo della tradizione musicale cristiana, in un mutuo riconoscimento di valori che trascendono tempi e luoghi¹⁵.

    Le Intonazioni, canti tramandati oralmente, sono stati trascritti da Marcello per voce sola maschile, quindi senza alcun accompagnamento strumentale, contrariamente al resto dei Salmi; ad una prima lettura questi canti appaiono slegati dal contesto del Salmo, sembrano fermare lo scorrere della composizione. Ad un esame più approfondito, si può intuire un legame con il testo. Due esempi: nel Salmo nove, la melodia "Le David Baruch" degli Ebrei spagnoli (Salmo 144 Di Davide, Benedetto è il Signore, mia rocca) dà forza e slancio all’invocazione iniziale. Nel Salmo ventunesimo, l’autore separa le due diverse parti del testo con l’inserimento dell’invocazione Shofet kol ha’aretz degli Ebrei tedeschi (Giudice di tutta la terra); in questa posizione il canto ebraico sembra assumere il ruolo di chiave di volta, si passa dalla solitudine del giusto all’affermazione nel mondo della giustizia divina¹⁶.

    Le trascrizioni delle Intonazioni testimoniano un ricco utilizzo di melodie popolari trasmesse oralmente in larghe parti del territorio europeo e conglobate nelle sinagoghe con un testo in ebraico: un esempio famoso è Ma’oz Tzur degli Ebrei tedeschi (Rocca della mia salvezza), una melodia che proveniva dall’area centro-nordeuropea e che viene inserita nel Salmo XV; oppure Odechà ki ‘anitani degli Ebrei spagnoli (Salmo118 "Ti ringrazio, poiché mi hai risposto), di origine dell’area mediterranea, presente nel Salmo XIV.

    Diversamente dall’edizione di Salomone Rossi, Marcello fece pubblicare sia il testo ebraico sia le note musicali nella direzione da destra a sinistra. La stampa musicale utilizza per le Intonazioni i caratteri rinascimentali della tradizione ecclesiastica, forse per dare una veste autorevole alla presenza del canto sinagogale. Le Intonazioni si configurano come preghiere in prosa, non hanno struttura strofica, non vi è allineamento fra sillabe e note e il testo non è riportato completo. Anche in questo caso è necessaria la conoscenza e la comprensione della lingua ebraica, oltre alla padronanza del linguaggio musicale, non essendo immediato l’accostamento tra accentuazione della lingua ebraica e metrica della musica colta.

    La scelta di collocare le Intonazioni all’interno dei Salmi si configura come un gesto importante e forse coraggioso, considerato l’atteggiamento dei governatori veneziani spesso ambigui nei confronti degli ebrei. Non conosciamo con precisione quali siano stati i rapporti di Marcello con le comunità ebraiche presenti a Venezia; per trascrivere testi e melodie tramandati solo oralmente, di sicuro ha dovuto relazionarsi con uno o più cantori che hanno per lui ripetutamente eseguito i canti scelti del repertorio. Probabilmente si è avvalso della collaborazione di due rabbini a lui contemporanei, Simone Calimani e Moshè Ha-Cohen¹⁷. Non si hanno notizie di coloro che possono averli eseguiti nei concerti che Marcello stesso organizzava alla Cavallerizza dei Nobili.

    Ciò che contraddistingue Benedetto Marcello rispetto a tanti studiosi della sua epoca, è aver studiato e conosciuto la tradizione musicale sinagogale a lui contemporanea come testimonianza viva ed attuale, senza abbandonarsi alle speculazioni sulla musica ebraica in base a passaggi biblici, di cui nessun riscontro era più possibile. La tradizione orale delle Intonazioni si è persa, ma grazie alla trascrizione di Benedetto Marcello, sono pervenute a noi intatte, fonte ancora viva di indagini e studio.

    ¹ E. SEROUSSI, In Search of Jewish Musical Antiquity in the 18th-Century Venetian Ghetto: Reconsidering the Hebrew Melodies in Benedetto Marcello’s ‘Estro Poetico-Armonico’, «Jewish Quarterly Review», 93, 1, pp. 149-199.

    ² I. ADLER, La pratique musical savante dans quelques communautés juives en Europe aux XVII et XVIII siècles, Paris LaHaye, Mouton & Co., 1966, pp. 43-46, e pp. 193-196 per la parte riguardante Amsterdam; C. ROTH, The Jews in the Renaissance, Philadelphia, Jewish Publication Society of America, 1959, p. 304.

    ³ G. COEN – I. TOSO, Musica errante. Tra folk e jazz: klezmer e canzone yiddish, Viterbo, Nuovi equilibri, 2009, pp. 28-29.

    ⁴ SEROUSSI, In Search of Jewish Musical Antiquity, pp. 171-172.

    ⁵ G. GUIDARELLI – S. ZAGGIA, Le Sinagoghe, in D. CALABI (ed.), Venezia gli ebrei e l’Europa 1516-2016, Venezia, Marsilio, 2016.

    La vita nei ghetti, in C. VIVANTI (ed.), Storia d’Italia, vol. 11: Gli ebrei in Italia, Torino, Einaudi, 1996; B. RAVID Curfew Time in the Ghetto of Venice, in E.E. KITTEL – T.F. MADDEN (edd.), Medieval and Renaissance Venice, Urbana and Chicago, University of Illinois Press, 2000, pp. 237-275.

    ⁷ R. CALIMANI, Storia del ghetto di Venezia, Milano, Rusconi, 1985, pp. 324-325.

    ⁸ D. CALABI, Venezia e gli ebrei: un ghetto cosmopolita nel centro dell’economia del mondo, in AA. VV., Il Rinascimento parla ebraico, Cinisello Balsamo (MI), Silvana Editoriale, 2019; G. GUIDARELLI – M. MASSARO – E. BASTIANELLO, La Venezia cosmopolita, in AA. VV., Venezia, gli ebrei e l’Europa 1516-2016, Venezia, Marsilio, 2016.

    ⁹ S. ROSSI, Ha-shirim asher li-shelomo [The Songs of Solomon], for 3-8 voices (1623), Corpus Mensurabilis Musicae 100, Holzgerlingen, Hanssler Verlag, 2003, voll. 13a e 13b.

    ¹⁰ B. MARCELLO, Estro poetico-armonico parafrasi sopra li venticinque Salmi, Tomo primo, Venezia, appresso Domenico Lovisa, 1724.

    ¹¹ D. HARRÁN, Salomone Rossi as a Jewish Composer of Theater Music, «Studi musicali», 1987, 1, pp. 95-130.

    ¹² D. HARRÁN, Salomone Rossi: Jewish Musician in Renaissance Italy, «Acta Musicologica», 1987, pp. 46-64; ID., Tradition and Innovation in Jewish Music of the Later Renaissance, «Journal of Musicology», 1989, 7, pp. 107-130.

    ¹³ M. ACANFORA TORREFRANCA, I canti di Salomone di Salomone de’ Rossi: una confluenza di tradizioni italo-ebraiche, in Italia Judaica Gli ebrei in Italia dalla segregazione alla prima emancipazione. Atti del III Convegno internazionale, Tel Aviv, 15-20 giugno 1986, Ministero per i beni culturali, Roma 1989, pp. 115-134.

    ¹⁴ ROSSI, Ha-shirim asher li-shelomo.

    ¹⁵ M. BIZZARINI, Benedetto Marcello, Palermo L’Epos, 2006, pp. 212-268; D. HARRÁN, The Hebrew Exemplum as a Force of Renewal in 18th-Century Musical Thought. The Case of Benedetto Marcello and His Collection of Psalms, in A. GIGER – T.J. MATHIESEN (edd.), Music in The Mirror. Reflections on the History of Music Theory and Literature for the 21st Century, Lincoln Nebraska, University of Nebraska Press, 2002.

    ¹⁶ D. PREFUMO – L. CEVIDALLI, Benedetto Marcello Psalms and Sonatas, presentazione al CD edito da Dynamic, 2021.

    ¹⁷ SEROUSSI, In Search, pp. 170; 172-173.

    GIUSEPPE VELTRI

    SENSI CHE INGANNANO.LA VISTA E LO SPECCHIO NELLA LETTURA SCETTICADI SIMONE LUZZATTO¹

    Stando a quanto dice Aristocle, riportato da Eusebio di Cesarea, per Pirrone la conoscenza acquisita attraverso i sensi non sarebbe né vera né falsa: «le cose gli risultavano del tutto indifferenti e tali che non ammettevano né misure né giudizio alcuno e né i nostri sensi, né le nostre opinioni sono capaci di dire il vero o il falso»². Se i nostri sensi e, dunque, i nostri giudizi non soddisfano i criteri del principio aristotelico di contraddizione, non essendo né veri né falsi, sono equipollenti o insufficienti per la percezione. La sospensione del giudizio non è solo logica, ma anche necessaria.

    Secondo Sesto Empirico, l’argomento principale per invalidare necessariamente la conoscenza è il «disaccordo»³ dei sensi⁴, per questo motivo si dovrà ammettere che essi differiscono l’uno dall’altro. Egli menziona anche alcuni esempi di discrepanza percettiva. Sesto non contesta che un oggetto possa mostrare la qualità di ciò che ci appare: «potremo dire quale essa [la cosa] ci appaia di volta in volta»⁵. Tuttavia, per Sesto non si tratta di cercare la percezione dell’oggetto che si dà in un particolare momento e in un particolare spazio, ma la percezione secondo la sua reale natura, perché l’oggetto non ha naturalmente alcuna qualità. Ogni fenomeno percepito dai sensi sembra essere un insieme: la mela, per esempio, sembra essere liscia, profumata, dolce e gialla. Ma non è chiaro se essa possieda queste qualità realmente o se ne abbia un’unica, che ci appare in modo diverso rispetto alla costituzione degli organi di senso, o molte di più di quelle che riusciamo a captare⁶.

    Alla difficoltà di poter cogliere tutte le qualità degli oggetti attraverso i nostri sensi, si aggiungono le illusioni che questi possono provocare, come viene menzionato da Sesto in un passaggio particolare degli Schizzi Pirroniani, spesso citato dagli studiosi dell’età moderna, riguardante i quadri, che «alla vista sembrano avere rientranze e prominenze, ma non certo, anche, al tatto»⁷. Rientranze e prominenze sono noti elementi della geografia che i pittori spesso imitano nei loro lavori, ingannando la vista, ma non certo il tatto⁸. Più avanti Sesto ritorna sull’argomento delle sporgenze e della facoltà visiva, usando di nuovo un esempio tratto dalla pittura e dalla sua capacità di restituire apparentemente gli oggetti che sembrano diversi a seconda dell’angolazione:

    Per quanto si riferisce alle posizioni: la stessa immagine supina, appare liscia, alquanto inclinata, pare che abbia delle rientranze e delle sporgenze: e il collo delle colombe, secondo come lo piegano, appare diverso, quanto al colore. Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a una data distanza, in una data posizione, onde deriva una grande differenza nelle rispettive rappresentazioni sensibili, come abbiamo dimostrato, necessariamente, anche per questo modo, riusciremo alla sospensione del giudizio⁹.

    La condizione dell’oggetto produce divergenze sull’impressione dei sensi, che necessariamente conducono alla sospensione del giudizio. Sesto preferisce soffermarsi sull’oggetto che è responsabile delle differenze nella percezione. In questo contesto non attacca l’affidabilità della percezione visiva, ma sottolinea la divergenza delle fonti dei sensi.

    In una lunga e complessa discussione sul senso della vista, considerato ingannevole, e il corrispettivo dibattito sullo specchio, argomento che compare anche in Sesto, Simone Luzzatto offre un’argomentazione simile. In un piccolo excursus sulla storia dell’oftalmologia¹⁰, che segue la trattazione delle scoperte e delle fallacie del telescopio, Luzzato mostra la sua familiarità con le teorie dell’occhio umano discusse dall’antichità fino all’età moderna¹¹.

    È noto che le discussioni sui sensi perpetuate nei secoli si basavano per lo più sul De Anima di Aristotele, considerato nelle sue molteplici interpretazioni, ricezioni e commenti¹². Nel secondo libro del De Anima, Aristotele discute il senso della percezione in generale (capitoli 5 e 6), dedicando il capitolo settimo alla vista. Per Aristotele la questione non è tanto se la percezione sia causata dagli oggetti della percezione, ma come essa si realizzi e dove abbia luogo¹³. Non c’è da stupirsi quindi se entrambe le questioni siano oggetto del breve riassunto di Luzzatto sulla percezione visuale. Sottolineo riassunto perché questi non si preoccupa di analizzare lo sviluppo concreto dell’oftalmologia, ma solo le teorie su di essa.

    Nonostante la complessità dell’enumerazione di opinioni sull’umana visione, il resoconto di Luzzatto è molto dettagliato. Egli osserva che la discussione sulla formazione delle immagini nella percezione ottica è spesso esposta minuziosamente e le conclusioni raggiunte divergono di molto. Luzzatto elenca i differenti pareri sull’effusione dell’immagine dall’oggetto all’occhio, così come le diverse posizioni circa il luogo in cui si formerebbe l’immagine. Prima di tutto, individua tre teorie sulle modalità della vista, elencandole nel seguente modo:

    • Alcuni, come già da Critone fu divisato, stimarono che la visione con l’effusione di raggi insino all’oggetto se esequisca.

    • Altri, non admettendo così remota eiaculatione, stimano che li raggi unendosi con il lume esterno, et insieme consolidandosi insino all’oggetto si estendono.

    • Et altri, opponendosi a tal emissione di raggi, piuttosto asseriscono che nell’occhio vi si introduchino l’imagini, e simulacri da oggetti spicati, e questi in due classi si dividono.

    • Alcuni giudicarno che tali imagini siano spoglie materiali di corpi visibili che per la virtù et efficacia del lume dall’oggetto si stachino.

    • Altri che immateriali siano ma però idonei mezi per farci riconoscere l’oggetti materiali loro progenitori, ancorché essi simulacri per loro medesimi insensibili siano.

    • Altri vi furono che stimano che la visione senza l’intromissione di simulacri, né emissione di raggi possa ciò avenire, essendo a ciò bastevole la presenza dell’oggetto all’incontro della facoltà visiva posto¹⁴.

    Un’analisi delle numerose teorie sulla vista nel corso dei secoli meriterebbe un libro a parte. Qui intendo semplicemente illustrare le tre teorie principali discusse fin dall’antichità: la teoria dell’emissione, secondo cui sono i raggi ad irradiarsi dagli occhi; la teoria dell’intromissione, per cui le immagini giungono all’occhio¹⁵; la teoria della ricezione – di cui il più importante rappresentante è stato Aristotele – che indaga come l’oggetto venga ricevuto dall’occhio attraverso la luce e successivamente interpretato dalla mente¹⁶.

    Ci sono due spiegazioni distinte della teoria dell’emissione: la prima è sostenuta da Pitagora, Euclide (nell’Ottica), Tolomeo e Leon Battista Alberti (nel De Pictura¹⁷) e sostiene che i raggi passano direttamente dall’occhio agli oggetti; la seconda – che non è altro che la concezione platonica della visione – ritiene che i raggi emessi dagli occhi debbano incontrare la luce. Questa spiegazione è chiamata teoria mista, dal momento che la luce deve essere emessa sia dagli occhi che dagli oggetti. Nel Timeo, Platone scrive che il «fuoco puro» dentro di noi comprime soprattutto la parte centrale degli occhi

    perché trattenessero tutto quanto è più grasso, e lasciassero passare solo quello puro. Quando dunque vi è la luce diurna intorno alla corrente del fuoco della vista, allora il simile si incontra con il simile, diventando un tutt’uno compatto, e forma un corpo unico e concorde nella direzione degli occhi, dove la luce che viene dal di dentro si scontra con quella che proviene da fuori. Se questo corpo, diventato tutto ugualmente sensibile a causa della sua conformità, viene a contatto con qualcosa o lo subisce, propagando i movimenti di queste impressioni per tutto il corpo fino all’anima, procura quella sensazione per cui noi diciamo di vedere¹⁸.

    La teoria dell’intromissione ritiene che gli atomi, eidōla o simulacra degli oggetti, si stacchino da questi, mantenendo con sé la loro immagine, e arrivino all’occhio, generando in questo modo la visione. Democrito, Leucippo, Epicuro e Lucrezio condividono questa teoria¹⁹. Secondo Democrito, ciò è reso possibile dall’interazione degli eidōla con la luce interna di colui che vede (dottrina delle vie visive afferenti e efferenti)²⁰.

    Luzzatto divide la teoria della ricezione, che nega che i raggi siano emessi dagli occhi, in tre gruppi: il primo presuppone che le immagini siano residui materiali di corpi visibili, tagliati fuori dagli oggetti per mezzo della luce; il secondo considera le immagini elementi immateriali, che però riconoscerebbero gli oggetti come i loro generatori remoti o le loro emissioni (per Luzzatto sono i progenitori); e infine l’ultimo gruppo è quello che rifiuta ogni trasmissione di immagini e emissioni di raggi, sostenendo che la presenza dell’oggetto stesso sia sufficiente per la vista²¹. Luzzatto prosegue nel seguente modo:

    Non minore repugnanze di partiti, e pareri accade circa il loco interno ove in noi si faccia la visione se pure per modo d’intromissione di simulacri ciò avenga.

    • Credettero alcuni che questo occorre nel mezo della cristallina ovvero glaciale lenticola.

    • Altri abhorrendo che in semplice humore privo de vita, nonché di sentimento, ciò si eseguisca, alla membrana rettina, che nelli più secreti recessi dell’occhio è colocata, attribuirno tal sentimento, poco curandosi questi tali, che in tanto oltre penetrando le imagini, sia necessario che incrociandosi insieme, il destro divenga sinistro, et il superiore inferiore.

    • Altri di ciò anco meno curanti, tengono che insino alla unione di nervi optici convenga che s’introducano l’imagini, accioché per la duplicità delli occhi non ci si rendono anco l’oggetti duplicati, come ad ubriachi e deliranti sovente accade, non facendo questi stima della depravatione dell’imagini che necessariamente occorerebbe, passando esse per l’anfratti [97] d’an|gustiosissimi meati.

    • Altri non assentirno ad alcuna portione solida dell’occhio rimettere tal fontione, ma ad un spirito permabile per tutto l’occhio ciò assignarno, quasi che il spirito di conditione tanto tenue e fluido potesse in sé arrestare e fermare l’imagini, ché né anco all’acqua di natura più consistente è ciò permesso, ma che dico l’acqua, né anco al christallo ciò lece.

    • Altri attentando compiacere a tutti li predetti contravertenti, pronontiarno, che la visione si faccia per l’incontro delli simulacri nella congerie di membrane, humori, nervi, spiriti, che nell’occhio si trovano. Onde, stimando essi di generosamente satisfare alli comuni amici, si contentarno di tolerare tutte le oppositioni che a cadauno dalle antedette openioni incontravano²².

    In questa lista, Luzzatto presenta alcuni pareri divergenti rispetto al loco interno dove avrebbe luogo la vista attraverso l’azione intermediaria delle immagini. Alcuni sostengono che l’intermediario sarebbe nella lente cristallina²³, altri rifiutano l’idea che la vista avrebbe luogo in un umore «privo de vita, nonché de sentimento»²⁴ e l’attribuiscono alla membrana della retina, collocata nella parte più interna dell’occhio²⁵. Poco interessato al problema di come le immagini si convertano otticamente, Luzzatto aggiunge che un sostenitore di quest’ultima teoria presuppone che i raggi debbano unificarsi nei nervi ottici al fine di evitare di vedere il doppio, come nel caso di chi è avvelenato o ubriaco. Luzzatto attacca la nozione di unificazione di queste immagini nel nervo ottico, ammettendo che i suoi sostenitori non tengono conto della «depravatione» delle immagini che attraversano fori «meati tanto angusti et inviluppati»²⁶. L’ultimo gruppo non accetta l’attribuzione di questa funzione a un materiale solido e per questo opta per uno spirito permeabile²⁷. Luzzatto si chiede se le immagini possano o meno essere fermate da uno spirito permeabile, fluido in natura. Con un argomento a maiori, dubita questa ipotesi dal momento che né l’acqua né il cristallo sono in grado di fermare le immagini.

    Luzzatto respinge ogni tentativo scientifico e filosofico di spiegare il processo della vista come un’inclinazione alla contraddizione, risultato della curiosità umana: «l’humana curiosità, spinta da naturale desio sempre inclinato non meno alle contradittioni che alle novit໲⁸.

    Contro il principio aristotelico della percezione secondo cui «ogni senso giudica (krinei) almeno i propri oggetti e non si inganna»²⁹, ribadisce la sua posizione secondo cui il problema rimane l’inganno delle stesse immagini e, ovviamente, degli occhi.

    Ma qual sia la più vera delle antedette opinioni poco al mio proponimento importa, non havendo io apportato tali pareri per discutterli, ma ciò solo pretendo dedurre da tal raccolta di varie openioni: che avenga la visione in una di tali maniere ovvero nell’altra, grandissima diversità conviene che accada circa l’apparenza rispetto la vera realtà di oggetti. E chi può negare che oltre modo sia per variare la rapresentatione del visibile, faciasi per emissione di raggi insino all’oggetto, over per accopiamento di questi con il lume, o piuttosto per intromissione d’imagini, overo per la semplice presenza dell’oggetto? E così anco, eseguendosi ciò nel centro del glaciale o membrana rettina, overo nell’unione di nervi optici, overo nelli spiriti, overo nell’amassamento di tutti questi?³⁰

    Il rabbino veneziano ribadisce chiaramente che esiste una grande differenza tra il modo in cui gli oggetti ci appaiono e come sono in realtà. Quando menziona per la prima volta il tentativo di spiegare il processo della visione nel suo insieme, ritorna alla premessa del confronto dialettico con la filosofia dogmatica, rivolgendo la sua attenzione allo specchio come fonte ingannevole di conoscenza, nonché caso esemplare della differenza tra apparenza e realtà³¹.

    Non sorprende che Luzzatto parli di specchi, dal momento che la produzione di quest’ultimi ha costituito da sempre un importante settore industriale a Venezia³². Ma Luzzatto qui segue i contorni della discussione sui sensi e sulla vista sviluppata da Sesto, che nei suoi Schizzi pirroniani discute di specchi dopo aver presentato l’argomento della prima regola, «quella secondo la quale le stesse cose non producono le medesime rappresentazioni sensibili, in conseguenza delle differenze degli animali»³³. Sesto introduce l’esempio degli specchi come segue:

    Gli specchi, secondo la loro differente costruzione, ora riflettono piccolissimi gli oggetti esteriori, come gli specchi concavi, ora oblunghi e stretti, come quelli convessi; alcuni, poi, riflettono capovolto colui che si specchia, con la testa in basso e i piedi in alto. Ora poiché anche i vasi che sono intorno all’organo visivo, in alcuni animali, evidentemente, sporgono in avanti per la loro curvatura, in altri, invece sono piuttosto concavi, in altri, ancora, si trovano in un piano uguale, è naturale che, anche per questo, diverse risultino le rappresentazioni sensibili, e che gli oggetti non appaiano né uguali per grandezza, né simili per forma, ai cani, ai pesci, ai leoni, agli uomini, alle locuste, ma bensì quali li foggia il senso visivo, che accoglie ciò che appare³⁴.

    Nel Socrate Luzzatto riporta il paragrafo di Sesto per intero:

    Et evidente documento di tal disguisamento di apparenza ci arrecono li spechi che, sebbene della istessa materia construtti siano, un poco di varietà che nella loro figura accade diversificano non poco l’imagini da essi riflesse. Per il che l’imagini che dall’istesso oggetto prodotti sono, stimare dobbiamo che [98] abbattendosi in varie figure di occhii, amassati di diverse materie, ci sortiscono refratti e per consequentemente di apparenza assai differente di quello è l’oggetto loro originario et efficiente, e con strani dislocamenti e positure³⁵.

    La differenza dei riflessi non si può trovare nell’oggetto, perché quest’ultimo è lo stesso per tutti. Pertanto, si dovrà dedurre che la differenza percepita dipende da chi riceve l’immagine dell’oggetto, ovvero dagli occhi o dalla superficie riflettente degli specchi. Le immagini possono incontrare occhi di forma diversa, così come può capitare che siano messe insieme da materiali differenti. Per questo

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