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Diaspore nel Vicino Oriente: Melodie ebraiche in Benedetto Marcello
Diaspore nel Vicino Oriente: Melodie ebraiche in Benedetto Marcello
Diaspore nel Vicino Oriente: Melodie ebraiche in Benedetto Marcello
E-book410 pagine5 ore

Diaspore nel Vicino Oriente: Melodie ebraiche in Benedetto Marcello

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Info su questo ebook

La prima parte del volume prende in esame un tema plurale, quello delle ‘diaspore’ – Shatāt, Galut – evocatore di cupe tragedie e di massacri antichi e moderni, siano degli ‘Alidi o degli ebrei, come dei cristiani assiri o armeni, senza dimenticare altri aspetti socio-politici della diaspora palestinese. Questi studi mettono in rilievo l’anelito messianico che pervade le sofferte estraniazioni patite dai fuggiaschi, espresso in varie forme nell’amore verso la santa Sion, o nel Mahdismo ismā’īlita, o nel “lamento conviviale e festoso” della poesia armena. 
L’altra tematica, trattata con approfondite analisi nella seconda parte del volume, è l'opera musicale del nobile veneziano, il compositore Benedetto Marcello, che nel Settecento si ispirò a musiche sinagogali ebraiche per le musiche sui Salmi, da lui raccolte nell’Estro poetico e armonico.
Chiude il volume una recensione di Giuliano Tamani sul pregevole facsimile del codice ambrosiano del Meshal ha-Q admoni, le “Novelle antiche” composte e illustrate da Yitzhaq ibn Sahula a Guadalajara negli anni ottanta del secolo XIII, edite nel 2021 in omaggio alla memoria di Luisella Mortara Ottolenghi e della figlia Raffaella.
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2023
ISBN9788870988208
Diaspore nel Vicino Oriente: Melodie ebraiche in Benedetto Marcello

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    Anteprima del libro

    Diaspore nel Vicino Oriente - AA. VV.

    SEZIONE ARMENA

    CLAUDIO GUGEROTTI

    LAMENTO E PICCOLE PATRIE

    Un esule armeno vede passare nel cielo una gru e a lei si rivolge: «Gru, donde vieni? Io sono servo della tua voce. Gru, non hai notizie del nostro paese?». Poi le chiede di non affrettarsi a raggiungere il suo stormo. Essa può fermarsi a raccontare. Ma la gru procede in silenzio e allora l’esule la maledice: «Gru, vai via dalla nostra patria, vattene lontano». Questo canto, soprattutto nell’arrangiamento del geniale musicista armeno Komitas (anch’egli morto esule e pazzo dopo le tragedie del 1915)¹, abita il cuore di tutti gli armeni². Esso esprime il sentimento dominante di chi ha lasciato la sua terra e non può farvi ritorno, né conoscere come vivano i familiari e gli amici che vi sono rimasti. In questo si concentra la sensibilità, il lamento che contraddistingue la storia di una parte largamente maggioritaria della diaspora armena, una delle più vaste e organizzate al mondo³.

    Si osserverà giustamente che una frazione di tale diaspora, soprattutto in epoca moderna, è costituita da persone che hanno scelto di abbandonare la propria terra per cercare fortuna altrove, spinti proprio dal successo che, in generale, gli armeni ottengono nelle terre dove si recano e dove sono ricevuti dalle loro comunità.

    Questa osservazione parrebbe ovvia, ma va completata da due dettagli: il primo è che comunque largamente dominante è nella diaspora la sensibilità di qualcosa di perduto, e sottratto con violenza, di una madre-terra-mito che si cerca di evocare (e forse anche di alterare, idealizzandola) perché perduta. Il secondo consiste nel fatto che per secoli la categoria di patria non ha avuto un luogo geografico vivente in cui identificarsi. Dopo la caduta di Ani⁴, la fine del regno armeno di Cilicia⁵, che costituisce anch’esso una massiccia diaspora da un settentrione reso inospitale dalle invasioni di persiani e turchi, l’Armenia come tale, come territorio-stato, non esiste più, se non in una minuscola parte dell’Armenia storica, circa un decimo di essa, che viene fatta rivivere agli inizi del XX secolo e la cui indipendenza dura qualche anno, per essere stroncata dall’avanzata bolscevica.

    Nel frattempo, un nuovo spettro rievoca gli antichi fantasmi e riproduce ben note nostalgie di pianto: sarà quello suscitato dal Grande Male⁶, il massacro di più di un milione di armeni nel 1915 nell’attuale Turchia⁷. Al nord la piccola porzione dell’antico ambiente di vita diverrà la Repubblica Socialista Sovietica di Armenia, la quale con fatica si costituisce, nella mente dei suoi abitanti, come idea di madre-patria e dalla quale, se si esce, lo si fa o per cercare libertà, o per ottenere mezzi di sussistenza nella precarietà di un’economia che stenta a svilupparsi, per cause interne ed esterne. Autorità e movimenti di simpatizzanti presenteranno quella terra come il vero suolo armeno, di cui certo è parte. Inviteranno gli armeni della diaspora a farvi ritorno: ma ciò avrà un successo limitato a causa dell’ideologia dominante, alla quale in diaspora ben pochi accordano fiducia.

    Per quanto la diaspora armena abbia raggiunto in molti casi una condizione di opulenza o almeno di benessere, resta però nel cuore della maggioranza di chi la compone il sentimento espresso nel canto che abbiamo evocato. In mancanza di una terra-madre di riferimento psicologico e sociologico, intesa come vivente condizione di radicale appartenenza e di piena identificazione, di credibile sviluppo e prospettiva di vita, sempre forti si mantengono i connotati interiori dell’esule e della sua struggente nostalgia. Ad un tempo, però, questi tratti non impediscono un radicamento e una convivialità con il paese di adozione e fanno della comunità armena un esempio di integrazione e, in genere, di successo, legato anche alla straordinaria abilità nel commercio e nell’impresa che distingue la diaspora armena da altre, pur contigue geograficamente, antiche o recenti, quanto a risultati e a benessere acquisito. Il grado di partecipazione alla polis che accoglie e, contemporaneamente, di fedeltà alla propria origine, si era soliti misurare ricorrendo al persistere della locuzione della lingua armena e, in molti casi, alla frequenza alla Chiesa nazionale⁸. Tutto ciò varia a seconda dell’antichità dell’emigrazione, della flessibilità della cultura che accoglie e quindi dell’esito dell’integrazione che ne deriva.

    Nel presente intervento mi riferisco a uno scritto che, in qualche modo, sento emblematico dei sentimenti di chi vive un costante timore, o la struggente memoria, della perdita di un ambiente di vita. Da questo ricordo traumatico, infatti, segue l’accorparsi dei sentimenti d’esilio che, in qualche modo, pur perdendo di drammatica attualità col tempo, si cristallizza in un ricorrente sentire e, come vedremo, in un potente reagire. Naturalmente, secolarizzazione e globalizzazione in parte corrodono e sbiadiscono quanto fino a tempi recenti appariva più vivo anche nelle nuove generazioni. E ciò si lega in buona parte al progressivo distacco di una porzione non lieve di Armeni in diaspora dalla pratica della propria sensibilità religiosa, che rimane peraltro onnipervasiva, e dalla frequenza effettiva alla propria Chiesa, che ha sempre seguito il popolo armeno nelle sue infinite diaspore temporali e geografiche.

    Esaminerò lo scritto dell’allora vescovo, poi catholicos Nersēs di Klay, detto Šnorhali (il portatore di grazia), vissuto tra il 1102 ed il 1173, una delle personalità più squisite non solo della spiritualità, ma della stessa autoidentificazione del popolo armeno. Nato anch’egli fuori dalla parte settentrionale del territorio, impoverita e indebolita dalla sottomissione militare e politica, ma pur capace di creare non un’isola, ma una compagine ben articolata nella non lontana Cilicia, dove in parte si trasferisce la popolazione, fino a creare un regno, nel periodo che va dalla fine del XI secolo al 1375. L’autore è dunque un uomo di diaspora. Oltre che grande teologo, egli fu poeta e musicista ed è noto per la composizione di inni liturgici che arricchiranno in modo determinante la preghiera pubblica del popolo armeno⁹.

    Questa vasta comunità di Cilicia, con i suoi capi politici ed il suo catholicos, si trova immersa in un universo multiculturale, con il quale, come al solito, interagisce in modo eccellente: si tratta della convivenza con greci, siri e crociati latini¹⁰. A tutti la lega un rapporto straordinariamente complicato di familiarità e ostilità, come è caratteristica in quel periodo anche degli altri popoli nominati. Proprio Šnorhali, seguito dal vescovo di Tarso, Nersēs di Lambron, su iniziativa di suo zio, il catholicos Grigor III, inizia una serie di rapporti regolari con l’imperatore di Bisanzio Manuele Comneno, in vista di una migliore intesa religiosa. Questo incontro, che nei tempi successivi si allargherà agli occidentali latini, soprattutto attraverso i crociati e i mercanti, vedrà Nersēs elaborare un vero sistema di pensiero sulle condizioni per una autentica interazione religiosa, fatta essenzialmente di carità, umiltà e rispetto reciproci, la cui modernità ancor oggi è talmente viva da rendere incredibile che in epoca ancora così remota si potessero esprimere valutazioni tanto aperte, accoglienti e a un tempo ferme sulla propria dignità e sulla legittimità di veder considerata la propria specificità con l’onore che merita, indipendentemente dalla forza politica o economica. Tra tutti gli interlocutori, gli armeni si metteranno in luce per una apertura ai valori dell’altro davvero unica, razionalmente ben argomentata, religiosamente matura ed evangelica, e a un tempo fedele alla propria specifica storia e identità di popolo¹¹.

    Proprio negli anni di Nersēs, si verificherà la caduta della città di Edessa, arrivata a una condizione di rilevante sviluppo, soprattutto ad opera dei crociati e degli stessi armeni, spesso alleati, a volte in modo lievemente adulterino, e colpita a morte ad opera di ‛Imād al-Dīn Zangī, atabeg selgiuchide di Aleppo, che la sottrae al conte crociato Jocelin II¹². Sarà questa caduta una delle motivazioni più forti per la seconda crociata.

    Su richiesta del nipote, Nersēs compone un Lamento di Edessa (Ողբ Եդեսիոյ) nel 1145. Si tratta di un’opera in versi, di ottima fattura e slancio poetico. Dominante è l’uso della prosopopea, figura retorica in base alla quale Edessa parla in prima persona e racconta le sue vicende¹³. La città violata intende rivolgersi al mondo intero, in realtà quello cristiano, invitandolo a esplodere in lamenti: «Date in lamenti (ողբացէք), o chiese, spose dello sposo celeste» (1) e ad esse si rivolge identificandole in quattro soggetti, quelli che, appunto, lo circondano: greco, armeno, siro e latino, perché si uniscano al suo pianto (30) e vengano in suo soccorso (31), assicurandole vendetta (32).

    Quindi la sua voce in singhiozzi si rivolge alle grandi città cristiane: Costantinopoli, l’urbe gloriosissima; Alessandria, metropoli d’Egitto e sede dell’apostolo Marco, anch’essa privata del suo fulgore e della memoria dei popoli, prigioniera degli empi; Antiochia, accusata di non essere intervenuta in sua difesa. Segue un appello all’Armenia (per narrare la cui storia egli scrive un’opera specifica). Ornata d’inusitato splendore, che resta di essa? Il poeta qui s’abbandona alla formula tradizionale segnata dal «dov’è? (ուր է;)», o «dove sono? (ուր են;)» che appare in molte letterature, antiche e moderne (Où sont les neiges d’antan?), ed evoca gli splendori del passato: le chiese che celebrano Cristo Sposo, il vitello immolato per il ritorno del figlio prodigo, l’attività liturgica e i suoi ministri, il palazzo del re e la sua corte, soldati e magnati, uomini liberi. «Ecco, da lungo tempo tutto questo è stato tolto (ահա բարձաւ այս վաղագոյն, 122), non è che soffio, sogno disperso al risveglio». Alla terra-madre Edessa chiede di portare con lei il lutto e anzi la supplica di insegnargli il lamento, che esprime l’ardore del cuore.

    Parla poi ad Ani, la grande capitale armena bagratide, conquistata nel 1045 dall’esercito bizantino, che spiana la strada alla conquista turca di Alp Arslan del 1064. Di essa ricorda l’opulenta bellezza ormai scomparsa come una bolla (պղպջակ) che scoppia appena nata. Distrutta dal nemico, essa conosce bene l’angoscia che ora prova Edessa e può unirsi al suo pianto.

    E giunge poi il momento della stessa Edessa e del suo lutto: orfana e vedova in lacrime, sfigura il suo aspetto fisico e si siede in luogo oscuro, com’è la tradizione del lutto (196). Reietta dei popoli, chiede la solidarietà del pianto. Ricorda la sua passata sorte di madre felice di una moltitudine di figli, la sua terra fertile, il mare (in realtà il «lago di Abramo») che ovunque creava una lussureggiante natura, piena di «profumo di immortalità» (219): «un giardino che era in Eden» (դրախտն որ յԵդեն էր, 217). Ed ecco sopraggiungere il disastro, che deturpa lo splendore passato, gettandola nell’oblio delle genti. La signora della casa (զտիկինս) è stata cacciata fuori e privata dell’eredità, i figli massacrati, «fu fatta schiava» (գերեցաւ). Quale ne è la causa? il tradimento geloso dei suoi fratelli, fonte di un peccato che consiste nel trascurare la legge di Dio: «Avevo dimenticato il comandamento (զպաուիրանն մոռացայ), mi ero allontanata dalla legge (յօրինացն հեռացայ, 278)».

    Ad operare tutto ciò è stato il drago/demonio (վիշապ), parola multiforme in lingua armena: dalla divinità delle acque, al mostro marino, al diavolo, egli è Zangī, che ha scatenato l’orrenda battaglia: l’assedio, le macchine da guerra, la distruzione delle cinte murarie, l’ingiunzione della resa, il rifiuto sdegnato degli abitanti, simili ai Maccabei ed ai seguaci di Vardan Mamikonean¹⁴. «Ereditiamo il buon nome» (անուն բարեաց ժառանեցուք, 330), rendendo l’anima invincibile, prendendo ad esempio la moltitudine dei martiri (զվկայիցն բազմութիւն, 333), vincitori del principe malvagio: essi ora sono glorificati (փառաւորին) dagli uomini e da Dio; dopo una breve sofferenza, hanno ereditato l’immortalità (335-339). «Perché se siamo deportati dal luogo che si chiama suolo della patria» (զի թէ աստուստ տարագրեսցուք որ հայրենեաց կոչի գետին, 353), riceveremo un bene che non passa: il paradiso, «nella regione senza dolore dell’immortalità, nostra propria patria» (անմախութեան անախտ վայրին ի սեփական մեր հայրենի, 357)¹⁵. Sta a Dio decidere se salvare o consegnare al nemico, ma poi recherà consolazione assoggettando i figli di Babilonia agli eserciti cristiani (զօրաց քրիստնէին). In quella lotta tutti i cristiani sarebbero unanimi e i vescovi e i sacerdoti a tutti raccomanderebbero di lottare senza paura. Tutti attendevano con ansia che venissero i crociati in aiuto al «mio conte» Jocelin II, ma non vennero, per la loro lentezza.

    Edessa poi, sconvolta dal dolore, racconta lo svolgersi della battaglia, quando l’inviato del malvagio comandava le bande di soldati dell’infedele: fu una strage che inondò di sangue il terreno, mentre anche i sacerdoti mescolavano il proprio sangue a quello del Redentore (463). I morti erano abbandonati nudi, disonorati, senza una preghiera per loro. Tutte le nazioni cristiane presenti s’impegnarono nella difesa. Alla battaglia seguì un terribile saccheggio, dove soprattutto gli oggetti sacri furono rapinati e profanati.

    Come si è visto, la causa di tutto ciò è chiara per le stanche, ma vive rovine di Edessa: i peccati degli abitanti di quella città, non la forza di Maometto. La stessa cosa, affermano, è accaduta agli ebrei: se si comportavano rettamente, ricevevano la benedizione di Dio, ma quando rigettavano l’obbedienza alla legge dei comandamenti, erano sterminati. Anche quel popolo fu deportato, dopo essere stato spogliato dei suoi beni: prigioniero, affamato e assetato, era condotto in esilio e a Babilonia quel popolo si sedette e pianse, ricordandosi di Sion¹⁶.

    Ma espressioni durissime sono rivolte a colui che volle ed eseguì l’eccidio. I capi religiosi urlavano il loro atto di fede: o Maometto, messaggero dell’Altissimo, ti portiamo una grande novella. Abbiamo colmato la terra del loro sangue, secondo l’ordine del tuo Corano. Quanto all’empio dragone/diavolo, Zangī, egli fece sedere donne di malaffare sull’altare dove si immolava il Figlio di Dio: esse cantavano davanti agli ubriachi. In questo gli empi «eseguivano le opere deprecabili che Maometto aveva insegnato» (616-633)¹⁷. Avevano inviato in dono ai loro alleati persone di bell’aspetto. Tra questi destinatari vi era pure il Califfo, «seduto sulla sede di Maometto, falso profeta ingannatore, legislatore di chi sta nelle tenebre, pedagogo di male e di peccato» (642-644). Per le proprie iniquità bastava loro di compiere le abluzioni, senza pensare alla loro anima immersa nel fango. E proprio al Califfo si rivolgeva Zangī, assicurandogli di aver posto fine alla venerazione della croce; tutto questo a causa della tua fede e di quella dell’inviato (Maometto, il rasul wa nabi), tuo predecessore, del messaggero, del profeta, perché il Califfo se ne ricordi il venerdì, perché egli sta sterminando tutti coloro che professano la loro fede nel Figlio di Dio (654-658). E proprio contro Zangī e la sua nazione, Edessa scaglia la propria maledizione, che ha il suo culmine nella deportazione e nell’esilio di quel popolo, voluti da Gesù Cristo, e nell’oblio del nome stesso di quella nazione, che sarà inseguita senza sosta, fino ai confini della terra. E a Zangī sarà riservata una doppia morte: mentre i nostri martiri staranno con gli angeli, «tu ti lamenterai, nel fondo, in compagnia del tuo Maometto nel quale hai posto speranza», mescolandoti ai demoni di cui hai compiuto il volere (860-863), condannati alla dannazione eterna. Così si compirà la giustizia di Dio (878).

    Viene poi il momento nel quale Edessa si rivolge a quanti sono morti come martiri, nell’eccidio, ma che riceveranno la corona celeste. Coi loro tormenti essi hanno pagato doppiamente il loro debito: quello personale e quello della natura umana, finalmente spogliata della propria vergogna: dimenticheranno le atrocità patite e saranno nascosti in Cristo, per apparire con lui nella gloria¹⁸. Coronati con i martiri, «del rosso colore del sangue sfolgorerete, che avete sparso volontariamente» (ի գոյն արեան կարմիր փաիլիք զոր ինք ակամ ձերով հեղիք, 919).

    Alla parte che segue e che si riferisce agli esuli, ai dispersi a causa dell’eccidio, rivolgeremo un’attenzione particolare per la rilevanza che riveste riguardo al nostro tema. L’autore intende recare loro una «grande consolazione» (յոյժ մխիթար). Certo, ora essi sono sprofondati nel cordoglio. «Se siete dispersi nel mondo, in prigionia in terra straniera» (և թէ ցրուած կայք ի յաշխարի ի գերութիւն յերկիր օթար, 930), se avete conservato la speranza in me, «alzatevi in piedi nella gioia» (կացէք յոտաց ցուրճաբար, 933), rivestendo abiti di esultanza. Poi li invita a non prestare attenzione ai beni effimeri della terra, a non fare il lamento (մի [...] լայք ողբայք անյուսաբար, 941) dei disperati su coloro che sono morti, perché Dio ci guarisce, Padre di misericordia, e la sua ira non è eterna. Egli allontana da noi i nostri peccati. Quanto a coloro che sono incatenati al chiuso (զկապեալսդ...ի փակ, 955), «vi affrancherà insieme al libero e la tua prigionia, o esiliato, muterà di nuovo in dimora» (և զգերութիւնդ վտարակ դարծուցանէ ի յարկ, 956). Egli punirà al posto vostro coloro che hanno colpito Edessa. «Muoverà di nuovo i franchi» (958), ed essi ricopriranno la terra; «purificano la terra intera, la svuotano dei miscredenti» (963), faranno bottino del popolo musulmano, lo porteranno in prigionia, demoliranno la Mecca, prenderanno la Pietra Nera e la getteranno nel Mare Rosso, di donne e bambini faranno schiave e schiavi. Regnano su tutta la terra e sono salvatori (փրկիչ) delle nazioni cristiane dai miscredenti. Nelle chiese torneranno a risplendere le lampade. Quelli che erano servi dei malvagi si mescolano ai magnati e si radunano da tutte le parti quanti erano colpiti e dispersi. «Si edifica il mondo dei cristiani» (980) e viene ricolmato di ogni bene. Mangiano, bevono, si ingrassano, brindano ai morti e compiangono chi è sepolto, perché si è persa l’opportunità di godere dei doni del Padre. I dispersi si raduneranno dai quattro lati del mondo, dalle province pagane e dalle terre di persiani e turchi. Io, Edessa, vi vedrò radunati intorno a me, vi stringerò tra le braccia, mi vestirò a festa; riprenderanno i sacrifici dietro la tenda delle chiese e voi, gregge, vi riposerete, berrete il sangue di Cristo e mangerete il pane disceso dal cielo, abiterete in verdi praterie, ascolterete le parole di apostoli, profeti e dottori, danzerete con gli esseri celesti, e con gli angeli canterete il trisagio. Ma tutto questo non sarà solo per me, ma per tutte le Chiese dell’universo. E tutto questo «si realizzerà in fretta (փութապէս), si realizzerà presto, presto (արագ արագ)» (1015), si compirà ai nostri giorni, «e nei segni dati dalle scritture, abbiamo visto con la mente che sta per venire» (1017).

    Il poema si conclude, oltre che con un saluto al nipote committente, spiegando che la composizione intendeva consolare i presenti rattristati, terrestri e non celesti, perché attendano con speranza ciò che avverrà. Se avranno sopportato le sofferenze, avendo scelto il regno del Signore, lo erediteranno come i santi. E ad essi la città così si rivolge: voi ora vi lamentate nel pianto su coloro, vedendo i quali fra i santi, esulterete. Entrerete nel paradiso e insieme sarete nella gioia, «nella patria che abbiamo perduta, gettati nella vita immortale» (ի հայրենին զոր կորուսաք յանմահական կեանս արկնայնոց, 1028).

    Una storia di dolore e di riscatto, incalzata di versi martellanti, dalla assiduità degli omoteleuti, e distesa in una visione finale di ricomposizione, locale e cosmica, dove il prossimo, molto prossimo compimento della speranza, si sovrappone senza interruzione, anzi, si direbbe, si dissolve nell’evocazione escatologica. È un invito al pianto collettivo, ad una partecipazione corale al lutto universale, eppure molto specifico, di una precisa città espugnata. Un lamento, dunque, parola che anche coloro che sono poco adusi al mondo armeno, fa sobbalzare, richiamando alla memoria un altro lamento: la tragedia del veggente Gregorio di Narek¹⁹.

    Raramente due generi, accomunati dalla stessa denominazione, in realtà appaiono così diversi. In Narek il lamento è avventura umana anzitutto personale, vicenda di una spiritualità interiore che si materializza in immagini profondamente corporee, sconvolgenti, di un senso di peccato che trascina nel vortice dell’annientamento, interrotto all’ultimo istante dal mistero di una misericordia sfolgorante e inenarrabile, come compiutamente narrato non è stato neppure l’abisso del dramma. Parola dunque di carne, eppure profondamente trasumanata, orrore del corporeo come nelle fasi più accentuate del platonismo o del manicheismo: voglia di liberarsi attraverso l’incoscienza o forse l’annientamento dal greve, opaco spessore della materia, in cerca di una beatificazione tutta spirituale. Eppure, ad un tempo mano divina stesa sull’abisso per afferrare l’individuo colato a picco nelle acque torbide e nei gorghi del non senso. Tutto questo come narrazione interiore, ben connotata, di un Vegliante soffocato dalla sua stessa grevità, ma raccolto misteriosamente dalla forza lieve di una salvezza donata e di una luce inimmaginata e inattesa, elargita per assoluta gratuità. Storia di un uomo che porta su di sé il male del mondo, che se ne sente parte senza per questo ritenere di condividerlo per alleggerirlo o per esimersi dalla colpa. Universale in questo senso, ad un tempo emblematico ed espiativo²⁰.

    Il testo di Nersēs è invece corale, personalizzazione del pubblico, a partire dalla scelta stessa della prosopopea, del parlare a nome di tutti, anche se a farlo è rimasta solo la rovina muta di una civiltà dissolta. Appello al mondo, ma non ad un universo globale: ad interlocutori precisi del passato e del presente, ben connotati anche geograficamente, non meno che culturalmente. Pianto materiale, struggimento rituale su un male concreto e sulle sue conseguenze. Descrizione fortemente riconoscibile dal momento storico e dalla chiara personalità degli astanti, che sono non l’umanità generica ma i singoli popoli che compongono un’area ben delimitata. Vi rivivono gli echi di antiche distruzioni (purtroppo ad un tempo profezia di altre prossime o remote) e dei sentimenti di popolo che implacabilmente le hanno accompagnate. Una storia espressa tutta in filigrana biblica, dalle allusioni sfuggenti alle citazioni ad litteram. È biblica come l’interpretazione della vita che segna costantemente non solo l’esistenza, ma anche la lettura della propria storia, misteriosamente prescelta dagli armeni come genere letterario da un numero assolutamente ineguagliato di scrittori.

    In questo contesto l’atmosfera suscitata è a volte sovrapponibile alla storia di Vardan nelle pagine di Ełišē. Il chiamare martirio la vita donata o sottratta per la patria, connessa inestricabilmente e volutamente con la fede che ne è il patrimonio portante. Liturgia dell’oblazione di sé che corrisponde e richiama quella liturgica e che porta lo stesso nome. Un’accezione di martirio che risulta difficile da comprendere da parte di chi esige atti di fede espliciti, palesi motivazioni teologiche, atti inconfutabili di offerta a Dio e a Dio solo, senza cogliere la trama umana, biblica, che connota il vissuto e, attraverso l’incarnazione, determina la communicatio idiomatum²¹.

    Terrore di sparire dalla memoria storica, rappresentato dai corpi privi di sepoltura (oltraggio gravissimo nel Caucaso); essere un popolo dimenticato, che assieme alla patria perde anche il suo nome, travolto nell’oblio. Perché il memoriale, che è l’opposto della perdita di memoria, è esattamente ciò che coinvolge l’oggi nella redenzione di Cristo e quindi nella prosperità salvifica.

    Repulsione a che il nome del proprio popolo sia disonorato, per aver disobbedito ai comandamenti, alla legge di Dio, costitutivi di un vivere retto. Ecco una forte motivazione per aver creato un alfabeto (e questo chiaro fin dai tempi dell’opera di Koriwn²²), capace di portare le parole di Dio all’orecchio armeno, recandogli certamente l’annuncio della sua liberazione dal peccato, ma anche spiegando come si costruisce, proprio seguendo la legge, una società retta e prospera.

    Sdegno e improperio contro un nemico non astratto e neppure ricondotto a principio, ma ben delimitato, evocato nelle sue credenze, maledetto negli esiti dei suoi atti e quindi affidato alla giustizia di Dio. Per descriverne l’efferatezza non si esita a ricorrere ad immagini, anch’esse di origine biblica, come quella della prostituta assisa in chiesa davanti agli ubriachi, che riprende Ap 17, 6 e che si riscontrerà anche nella Cronaca di Niceta Coniata, ma riferita questa volta all’odio fra cristiani, alla profanazione di Santa Sofia da parte dei crociati²³. Proprio dei crociati, invece, Nersēs farà la mano chiamata ad eseguire la giustizia divina, liberando gli altri cristiani; un auspicio, però, che la storia smentirà. È un segno della valutazione e spesso della ipervalutazione di un occidente forte e convincente che ispirerà l’ambiente armeno ciliciano tanto quanto susciterà lo sdegno dei connazionali del nord.

    Nostalgia del ritorno, nostos appunto, che è speranza di terra nuova e cieli nuovi che l’armeno, nella sua fondamentale concretezza, vuole anticipati su questa terra, ed anzi potenzialmente metabolizzati da terreni in mistici, con lo spessore fruibile della gioia, che dal godimento fisico trascorre alla beatitudine spirituale, come era accaduto all’angoscia in Narek. È forse questa voglia di compensazione per il sottratto, ingiustamente e violentemente, che lo motiva così radicalmente e con tanto successo nel rendere a lui più dolce, grato, abbondante, il presente terreno, trasformato con mirabile laboriosità, fantasia e spirito di intraprendenza. Patria cercata e negata, e dunque bisogno di costruire piccole patrie, anche lontane, ma trasformate ed abbellite con la caparbietà di chi ha troppo aspettato il դրախտն Եդենի, il paradiso, per sentirsi giustificato a vivere una attesa passiva di un dono solo recepito dall’alto. La nostalgia dell’impossibile ritorno diventa quindi impegno a conformare una società che sia articolata e funzionale, oltre che giusta. Nel poema Nersēs non manca di descrivere questa armonia (che pure è classica dell’epoca in cui vive), tra i poteri, il civile e il religioso, chi li difende, cioè il soldato, e chi vi contribuisce: il semplice cittadino. E ciò, come si è visto, nasce da lontano: dalle leggi di Dio prescritte nella Scrittura.

    In questo quadro, l’opera di Nersēs diventa – e anche per questo credo sia stata creata – una pubblica declamazione che, in forma di lamento rituale, vede la donna, compresa la città protagonista, – e direi l’intera umanità – quale madre, orfana e prefica, chiamata a sfigurare la sua bellezza ed a cantare cantilene, appunto, reiterate e quasi ossessionanti all’ombra del luogo ove si fa lutto. Eppure, a causa della fede che rasserena e consola, vi è sicura speranza di un luogo, molto materiale come nella fantasia delle beatitudini orientali e, come si è visto, motivazione di un gusto per il lavoro che renda capaci di trasformare in meglio la realtà a disposizione, qualunque essa sia. È come il banchetto rituale, di cui si parla nel poema, dove i morti si ricordano anche mangiando, bevendo, facendone memoria nel rito dei brindisi e compiangendoli per non poter essere partecipi del mondo migliorato che si è riusciti, con l’aiuto di Dio giusto e misericordioso, pur sempre a creare.

    Un lamento che diventa canto conviviale e che non stupisce se tale è definito nello stesso testo di Nersēs (1041), che lo compone per i banchettanti (խրախճանելոց), come passeggiata, spasso, ricreazione (զբօսանս) dei festanti (հրճուելոց). Un ossimoro quello del lamento-ballata conviviale e festosa sui morti che stupisce solo chi non conosce la dolce ambiguità, che è contagio di gioia fisica ed elegia di ricordi e lutti, proprio del convivio armeno (e caucasico più in generale).

    Ma non sono questi tratti, che Nersēs evoca nella sua opera, una sorta di aspirazione collettiva, nella quale il ricordo della dispersione, nella violazione del suolo patrio, muta il lamento, pur sempre presente, in passione di giustizia, in voglia di vita e di riscatto, in fierezza identitaria, perché non scompaia il nome né sia oggetto di disprezzo l’onore di chi contribuisce alla prosperità della piccola patria, a sanazione della propria memoria dolente ed a perpetuo ricordo in attesa del compimento celeste? Non è questa un’antologia di suggestioni che ben contribuiscono a descrivere quell’armeno di diaspora che si rivolge alla gru e contemporaneamente, con evidente concretezza, alla città degli uomini, pronto a trasformarla qui e ora?

    ¹ Sul ruolo della musica nella diaspora armena e la ripresa dei canti tradizionali in Komitas, si veda S.A. ALAJAJI, Music and the Armenian Diaspora. Searching for Home in Exile, Bloomington and Indianapolis, Indiana University Press, 2015, in particolare il cap. I, dedicato a Komitas.

    ² Pubblicato con traduzione inglese da L. ALISHAN, Armenian Popular Songs, Venice, S. Lazarus, 1852, pp.

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