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La strana morte di Evie White
La strana morte di Evie White
La strana morte di Evie White
E-book394 pagine5 ore

La strana morte di Evie White

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Info su questo ebook

Quale segreto si nasconde dietro quel salto nel vuoto?

Dall’autrice del bestseller La paziente perfetta
Un grande thriller

«Tiene col fiato sospeso fino all’ultima riga.»
«Profondo, oscuro, disturbante.»

La notte delle sue nozze, la bellis­sima Evie White si suicida buttan­dosi da una scogliera. L’accaduto getta gli invitati al matrimonio nella confusione più completa: cosa può averla spinta a un gesto così estremo?
Nessuno sembra in grado di capi­re, men che meno Richard, lo spo­so di Evie, e Rebecca, la migliore amica della donna sin dai tempi del college. Per chiarire i motivi dell’accaduto, e per onorare i tan­ti anni di amicizia e amore che li hanno legati, Richard e Rebecca decidono di indagare.
Scavando nel passato di Evie e negli eventi che hanno portato alla sua decisione di sposare Ri­chard, i due si accorgono ben pre­sto di non averla mai conosciuta veramente, e che la donna che hanno amato nascondeva segreti più inquietanti di quanto immagi­nassero.
Si sono sempre sbagliati su di lei? Forse il rapporto che li le­gava non è mai stato quello che pensavano…

Il nuovo sconvolgente thriller dall’autrice del bestseller Era una famiglia tranquilla

Nessuno conosce la vera Evie

«Straordinariamente avvincente.»
Clare Mackintosh

«Un libro che ti cattura dalla prima pagina e ti tiene sul filo del rasoio fino alla fine.»
Claire Douglas, autrice del bestseller Le sorelle
Jenny Blackhurst
È cresciuta in Inghilterra, nello Shropshire, dove vive con mari­to e figli. Il suo thriller di esor­dio, Era una famiglia tranquilla, ha ottenuto in pochissimo tem­po il consenso della critica e un grande successo di pubblico. La Newton Compton ha pubblicato La paziente perfetta, La figlia adottiva e La strana morte di Evie White.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2020
ISBN9788822749239
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    Anteprima del libro

    La strana morte di Evie White - Jenny Blackhurst

    Prologo

    È sul ciglio della scogliera, i lunghi capelli biondi le svolazzano attorno alle spalle nel venticello leggero. I piedi sotto la gonna che arriva fino a terra sono scalzi e sporchi, e l’erba è bagnata, ma lei non avverte il freddo. Osservando le acque scure e immobili, è in pace. Evelyn non ha bisogno di guardare giù per sapere che le onde lambiscono gli scogli frastagliati ai piedi della scogliera, non ha paura di loro. Non è la prima volta che si ferma a contemplare questo mare. Le onde la conoscono per nome, conoscono la sua storia.

    Solleva una mano per scostare il velo dal viso, e la tiara di diamanti che un tempo apparteneva a sua madre, e a sua madre prima di lei, cade a terra senza emettere alcun suono. Non ci sono rumori quassù, solo il sussurro del mare e quello del suo respiro, lento e calmo.

    Due figure la stanno osservando tra le ombre del tramonto dall’altra parte della scogliera. Avrebbe preferito che fossero meno distanti, ma è una serata senza nuvole e riusciranno a distinguere la sua figura alta e slanciata, l’abito da sposa confezionato su misura. Abbastanza vicine da identificarla a suo marito, troppo lontane per reagire quando comprenderanno le sue intenzioni. Per il momento, per la prossima manciata di secondi, è solo una neo-sposina che si sta prendendo un attimo di pausa dalla concitazione del suo giorno di nozze, che è rifuggita dalla musica e dal vino, dall’incessante susseguirsi di congratulazioni e battute sulla vita coniugale. Gli altri sono amanti che si godono la loro passeggiata in questa serata mite e immaginano che un giorno saranno i loro amici a riunirsi per assistere al loro scambio di promesse, congratulandosi con la sposa e commiserando lo sposo. Quando la donna lascia andare il velo e lo vede svolazzare verso il ciglio della scogliera, fa un passo avanti, sicura e decisa, e si lancia nell’oscurità. Pochi istanti prima erano semplicemente due amanti. Adesso sono dei testimoni.

    La sera del matrimonio

    1

    Rebecca

    Gli ultimi invitati rimasti si radunano sul prato, la sbornia cancellata dallo shock, il chiacchiericcio messo a tacere dal dolore. Una donna, Beth, la prozia di Evelyn, soffoca i singhiozzi nel fazzoletto che le è stato offerto da suo marito, uno scricciolo d’uomo, delicato di polmoni e senza forza di volontà. Solo tre ore prima aveva aggrottato la fronte, oppure annuito al momento più opportuno, mentre Beth si era lamentata di tutto, dalla cerimonia bohémien alla musica, passando per gli addobbi e gli amici che si era fatta Evelyn, dei veri figli dei fiori. E di come la nipote venuta a mancare di recente, la madre di Evelyn, si sarebbe rivoltata nella tomba se avesse saputo che i suoi amici e i suoi familiari frequentavano certa gentaglia. Ora prevale il silenzio, perché a quanto pare sua figlia la raggiungerà presto.

    Ho le palpitazioni e, ferma davanti alla porta dell’albergo, ascolto le voci smorzate a cui si alternano delle urla inferocite. Richard.

    Mi faccio coraggio e mi accingo a rientrare, poi esito di nuovo perché Richard si rimette a sbraitare, gridando che dovrebbe uscire a cercarla, che sua moglie non può avergli fatto una cosa simile. Questo è il mio segnale – so che essendo la migliore amica e la damigella d’onore di Evie dovrei fare la mia parte – ma all’improvviso non me la sento di aprire quella porta. Non voglio vedere l’espressione sul volto di Richard o guardarlo negli occhi mentre gli si spezza il cuore.

    Dei passi dall’altro lato della porta mi danno la scossa di cui ho bisogno per entrare in azione e busso con forza, con il pugno chiuso.

    «Richard!». La porta si apre quasi all’istante, e dietro c’è uno dei poliziotti a cui ho visto portare via lo sposo una ventina di minuti prima. I venti minuti più lunghi della mia vita. «Devo parlare con Richard Bradley».

    «Mi dispiace», esordisce lui, ma una voce da dentro lo interrompe.

    «Falla entrare», dice Richard, e il suo sospiro di rassegnazione vale più di mille parole. «È la migliore amica di Evie, merita di sapere cos’è successo».

    L’agente di polizia si fa da parte e io mi precipito nella piccola stanza dell’albergo, con le sue pareti imbiancate e una vista quasi perfetta sulle scogliere. Le stesse scogliere da cui la moglie di Richard Bradley si è appena buttata.

    «Richard!», gli corro incontro, mi aggrappo alle sue braccia. «Dov’è Evie? Da basso stanno dicendo che si è gettata in mare dalla scogliera, ma è una follia. Dov’è?».

    Visto che non mi risponde, lo scuoto, ma lui non riesce comunque a parlare. Un’altra agente di polizia, una donna che sembra volersi mettere a piangere, si fa avanti, mi appoggia una mano sul braccio e mi conduce via, delicatamente ma con fermezza.

    «Io sono l’ispettrice Michelle Green, e questo è l’ispettore Thomas».

    La voce della donna, di Michelle, è bassa e gentile, mentre l’ispettore Thomas se ne sta lì impalato con un’aria meditabonda. È alto e ben piazzato, carnato olivastro e capelli scuri. Sembra il poliziotto di una serie tv, ma per il momento la sua parte non prevede battute. Di tanto in tanto mi scruta, mi lancia occhiate che mi fanno sentire colpevole, come se con la mia sola presenza avessi fatto qualcosa di sbagliato. Per il resto resta solo a guardare, in attesa... Di cosa?

    «Ci è stato riferito che una donna che corrisponde alla descrizione di Evelyn è stata vista cadere in acqua una quarantina di minuti fa. Lei ha visto la signora Bradley nell’ultima ora?».

    Richiamo alla mente l’immagine della mia migliore amica l’ultima volta che l’ho vista, quarantacinque minuti fa. Si sta incamminando verso l’uscita del tendone, ma a un tratto si volta. Mi cerca con gli occhi e, quando i nostri sguardi si incrociano, mi rivolge un sorriso rassicurante. Non sembra spaventata come me, è imperturbabile e non mostra incertezze. Si volta di nuovo e scompare nell’oscurità, e per una frazione di secondo vorrei correrle dietro, afferrarla per un braccio e non lasciarla andare. Ma i miei piedi non si muovono, e l’occasione svanisce. Lei svanisce.

    «No», rispondo. «Non l’ho vista».

    Ho pianto fino ad avere gli occhi gonfi e arrossati, vere lacrime che mi hanno colta di sorpresa. È finita, quindi, dice una voce nella mia testa. Se n’è andata. Ora sei da sola. E il pensiero è quasi insopportabile.

    Richard sta ancora parlando con la polizia, e ho l’impressione che lo stiano trattenendo per evitare che vada in cima alla scogliera, che faccia qualche stupidaggine. Io guardo fuori dalla finestra, dove le torce delimitano la zona e le luci bianche dell’elisoccorso illuminano il cielo.

    «Hanno un elicottero», dico, e la mia voce sembra appartenere a qualcun altro. Vorrei che fosse così, che quelle luci nell’oscurità stessero cercando la migliore amica di un’altra persona.

    «Che è arrivato soltanto adesso. Ci è voluta quasi un’ora, cazzo», inveisce Richard. Raggiunge la finestra, poi torna immediatamente indietro, mordicchiandosi una pellicina sul labbro screpolato; un brutto vizio che torna sempre a ripresentarsi quando è agitato. «Starà gelando. E perché stanno concentrando le ricerche sotto le scogliere? A quest’ora potrebbe essere tornata a Londra a nuoto».

    Perché non stanno cercando una donna che si è allontanata a nuoto. Non voglio dare voce a queste parole, e nemmeno la polizia. Richard deve arrivare da solo all’ovvia conclusione. Che sua moglie, la mia migliore amica, questa notte si è gettata in mare per togliersi la vita. E io sono l’unica a sapere perché.

    2

    Rebecca

    Ricordo ancora la prima volta che ho incontrato Evie White, anche se all’epoca non avevo idea di quanta tristezza avrebbe portato nella mia vita. Avevo diciotto anni ed ero innamorata persa di un bassista, Steve, che ovviamente era un perfetto idiota, ma che io ero davvero convinta potesse essere il mio biglietto d’ingresso per la vita sociale universitaria. Mi ero iscritta da quasi un anno ed ero riuscita a farmi ben tre amici in totale: Sandra, una studentessa di Storia in sovrappeso, la cui idea di uscire a fare follie prevedeva una cena da Nando’s dopo un dibattito sulla società; Christopher – non Chris, guai a chiamarlo Chris – il quale diventava rosso ogni volta che qualcuno gli rivolgeva la parola ed era diventato mio amico solo quando si era visto costretto a lavorare con me alla caffetteria; e Sunny, uno studente cinese del progetto di interscambio culturale, con cui avevo legato grazie a una passione in comune per Twilight. Il mio primo anno, l’anno in cui mi sarei dovuta scrollare di dosso la vecchia pelle da liceale sfigata per camminare a testa alta tra i miei coetanei, non era andato come mi ero immaginata.

    Io e Steve ci eravamo conosciuti a un corso di Economia aziendale. Io lo frequentavo perché pensavo di essere destinata a diventare la prossima Karren Brady, lui perché suo padre gli aveva detto che, se voleva continuare a farsi sovvenzionare dal paparino, gli conveniva prendere una maledetta laurea. Penso che Steve si fosse reso conto abbastanza in fretta che non sarebbe mai riuscito a passare quell’esame da solo (quindi forse non era così stupido) e che la sua occasione d’oro era incarnata dalla ragazza acqua e sapone, timida ma non eccessivamente brutta, seduta da sola in fondo all’aula. Io. Non sapevo che pesci prendere quando era venuto a sedersi accanto a me e mi aveva sussurrato: «Ciao».

    «Ciao a me?».

    Persino il suo sorriso era pigro e indolente. Gli occhi erano a malapena visibili sotto una massa di capelli ricci e rossicci, che si scostava dal viso ogni due minuti.

    «Sì, ciao a te. Ti andrebbe di fare coppia con me per questo progetto?».

    Avevo lanciato un sospiro. «Vuoi dire se mi va di fare il progetto per entrambi?».

    A onor del vero, lui non aveva fatto una piega. Avrei scoperto solo in seguito che quell’espressione docile era anche l’unica che aveva nel suo repertorio.

    «Così mi ferisci».

    «Oh, avanti. Io cosa ci guadagno?»

    «Okay, d’accordo». Via i capelli dal viso. «Non ho potuto fare a meno di notare che finora sei riuscita a fare ogni singolo progetto da sola. Non parli con gli altri studenti del corso e l’unica persona con cui ti ho vista è quella cicciona del comitato studentesco».

    Avevo aperto la bocca per difendere Sandra, ma lui non mi aveva dato modo di farlo.

    «Perciò, ecco, io per una volta riuscirò a passare un esame con un voto decente, mentre tu potrai uscire con qualcuno che non puzzi come se avesse appena corso una maratona quando, di fatto, è solo andato a prendersi una Coca-Cola».

    «Questa è proprio una cattiveria».

    Ma a quel punto mi aveva sorriso, un sorriso letale che mi aveva colpita dritto al cuore, e avevo capito che non sarei mai riuscita a dirgli di no.

    «Affare fatto?»

    «D’accordo, affare fatto».

    Una settimana dopo stavamo già andando a letto insieme. Due settimane dopo si era riferito a me come alla sua ragazza davanti ai suoi amici, a una festa. E va bene, era ubriaco e strafatto, ma per quanto mi riguardava contava comunque. Nel giro di due settimane ero passata dal trascorrere le mie serate a leggere le storie delle vite degli altri al vivere in prima persona la mia. L’appartamento di Steve non era mai del tutto vuoto e c’era sempre qualcuno che passava a farsi due birre, la band che si esercitava fino alle prime ore del mattino o gente che veniva semplicemente a smaltire la sbronza sul suo divano dopo una notte in città. Ci divertivamo un sacco, ma a un certo punto diventò un po’ troppo impegnativo per una pudica e brillante studentessa come me.

    «Stasera resterò a casa mia, tesoro».

    Steve, sdraiato a letto al mio fianco, si tirò su, appoggiandosi su un gomito.

    «Che c’è? Ti sei già stancata di me?».

    Gli sorrisi. Non poteva essere più lontano dal vero. «Non dire stupidaggini. Ho solo bisogno di dormire un po’ e sono tre giorni di fila che perdo i corsi della prima ora. Passo domani dopo la lezione di Economia».

    «D’accordo, splendore, e prendi appunti anche per me, okay?»

    «Come sempre».

    La mattina seguente, dopo una bella doccia e con un’intera notte di sonno alle spalle e una vera colazione nello stomaco, mi sentivo in gran forma e per la prima volta dopo due settimane prestai attenzione alla lezione, prendendo appunti dettagliati da condividere con il mio nuovo ragazzo. Di ritorno al suo appartamento, mi fermai a prendere del caffè e dei panini al prosciutto, un gesto che sapevo avrebbe apprezzato dopo la serata passata a bere che si era indubbiamente concesso. Dio se era fortunato ad avermi.

    Non eravamo ancora arrivati alla fase del prendi una copia della chiave, così bussai alla porta e mi preparai ad aspettare una ventina di minuti, che in genere era il tempo che ci metteva ad alzarsi. A sorprendermi più del fatto che la porta si stesse aprendo solo un paio di minuti dopo fu la ragazza semisvestita che apparve sulla soglia.

    Era più alta di una valchiria, con gambe abbronzate che sembravano non finire mai. Era a piedi nudi, come nuda era tutta la parte inferiore del suo corpo, fatta eccezione per un perizoma grigio che prima di finire in lavatrice insieme ai capi colorati, in uno dei classici lavaggi indifferenziati tipici di noi studenti, doveva essere stato bianco. Sopra indossava una maglietta grigia, corta e sformata, sotto la quale ovviamente non portava nulla. Come le gambe, anche il suo viso era abbronzato, con una spruzzata di lentiggini che indicavano che la sua tintarella non era artificiale. I capelli erano di un biondo scuro, arruffati, e aveva l’aria stanca ma rilassata di chi ha passato tutta la notte a fare sesso. Con il mio ragazzo.

    «Sto cercando Steve», riuscii a balbettare come una stupida.

    «Sotto la doccia». Spalancò la porta per farmi entrare e rientrò senza neanche chiedermi chi fossi.

    Quando trovai il coraggio di varcare la porta, lei si era già accomodata sul divano e si stava girando uno spinello. Mi sedetti sulla poltrona di fronte a lei, stringendo in modo impacciato il sacchetto con i panini che avevo appoggiato sulle gambe.

    «Ehm, come ti chiami?».

    La ragazza mi scrutò con attenzione. Era di una bellezza assoluta, eppure mi osservava come se fossi io la farfalla rara da studiare al microscopio. I suoi occhi erano del colore del gelato alla menta. Si accese lo spinello e diede una lunga boccata.

    «Evie». La sua voce era morbida, melodiosa. «Vuoi un tiro?». Mi offrì la canna, soffiando fuori il fumo dalle labbra languidamente socchiuse.

    «No, grazie».

    Si sdraiò sul divano e fece spallucce. Io cambiai posizione, a disagio.

    «Anzi, sì, per favore».

    La faccia che fece Steve quando uscì dalla doccia fu impagabile. Aveva chiaramente perso la concezione del tempo dopo la sua notte di sesso sfrenato con quella dea, ma riuscì a borbottare delle scuse alle quali nessuna delle due prestò davvero attenzione. Evie stava parlando con talmente tanta passione degli stereotipi culturali nelle pubblicità che il mio rapporto con Steve si spense ancora prima dello spinello, che alla fine fumammo tutti e tre. Doveva aver pensato di essersela scampata bella, visto che non stavo facendo scenate e mi stavo semplicemente facendo da parte per lasciare che la bellissima Evie White prendesse il mio posto.

    «E cosa stai studiando, Evie?», le chiesi mentre Steve mi lanciava una serie di occhiate sconcertate.

    «Fotografia. I volti sono lo specchio della mente». Si allungò oltre il bracciolo del divano e raccolse una macchina fotografica con un teleobiettivo dall’aria costosa, per poi mettere a nudo altra carne abbronzata quando, nello spolverare la lente, le si sollevò l’orlo della maglietta. Appoggiati i gomiti sulle ginocchia, avvicinò l’occhio al mirino della reflex. «Dicono che ogni volta che qualcuno ti scatta una foto, si porta via un pezzo della tua anima».

    Pigiò il pulsante di scatto e la macchina fotografica ronzò.

    «Ecco, ora ho la tua anima».

    3

    Rebecca

    «Che cazzo sta succedendo qua dentro?».

    Quel forte accento francese, il tono autoritario: è arrivato il padre di Evie. Dominic Rousseau supera l’ispettore Thomas per fare irruzione nella stanza e io rabbrividisco di fronte alla disperazione impressa sul suo bel viso. L’uomo avvenente che per anni ha fatto cadere ai suoi piedi uno stuolo di donne, una forza trascinante nel mondo degli affari, ora sembra completamente distrutto. Michelle indietreggia in modo evidente al sentire la sua voce. Dopo un paio di secondi, Richard si fa avanti.

    «Dominic, dicono che si è buttata…». Dominic si scaglia verso di lui e l’ispettore Thomas fa un passo avanti, pronto a intervenire se le cose dovessero prendere una brutta piega. Come se la notte potesse andare peggio di così.

    «Impossibile! Oggi è il giorno delle nozze di Evelyn! Perché mai avrebbe dovuto provare a uccidersi in quello che dovrebbe essere il giorno più felice della sua vita?»

    «È stata vista, signore», balbetta Michelle. «Due testimoni sulla scogliera di fronte hanno chiamato la polizia non appena hanno visto una donna in abito da sposa cadere in mare. Stiamo facendo tutto il possibile per trovarla».

    «Ma è chiaro che non state facendo abbastanza. Tu», si rivolge a me. «A te non ha detto niente? C’era qualcosa che la turbava?»

    «Io… no, signore, a me sembrava stare bene l’ultima volta che l’ho vista».

    In un certo senso, è più difficile mentire a Dominic che a Richard o alla polizia. Ho come l’impressione che riesca a intuire qualcosa, a leggermi nel pensiero, come una macchina della verità in forma umana.

    «Cosa le hai fatto?». La sleale codarda che è in me tira un sospiro di sollievo quando torna a rivolgersi a Richard.

    «Come sarebbe a dire, cosa le ho fatto?». Richard ritrova la voce, ed è furibondo. «Io non le ho fatto niente! La amo. Ci siamo appena sposati».

    «Be’, se mia figlia ci ha fatto questo scherzetto il giorno delle sue nozze, qualcosa devi aver fatto di sicuro per renderla così infelice!».

    «Evie non ha mai scaricato su nessuno la responsabilità della sua felicità, e questo dovresti saperlo meglio di chiunque altro».

    «Che significa, meglio di chiunque altro? E con questo cosa vorresti dire? Non ero nemmeno qui!».

    Per un attimo mi viene da pensare che questo è proprio ciò che Evie avrebbe desiderato. Non avrebbe potuto fare di meglio neanche se fosse stata presente e avesse lanciato l’esca. Con i due uomini più importanti della sua vita che fanno a gara a chi la ama di più persino adesso che il suo corpo sbatte contro gli scogli, che il suo spirito vaga in mare aperto, continua a essere la presenza che riesce sempre a imporsi più di ogni altra. Ecco, ora ho la tua anima.

    Ed era andata proprio così. Per sette lunghi anni Evie White aveva avuto la mia anima, e adesso che me l’aveva restituita non sapevo più cosa farmene. Era stata la persona più importante della mia vita, quella che aveva deciso così tante volte dove saremmo andate e cosa avrei indossato che ormai, senza di lei, non avevo idea di chi fossi. Quali film avrei guardato ora che li avrei dovuti scegliere da sola? Che genere di musica mi piaceva? Ogni album in mio possesso mi era stato raccomandato con il solito contagioso entusiasmo dalla mia anima gemella. "Prova questo, Becky, ti piacerà da matti o Questo profumo ti starà benissimo e ancora Il blu è senza ombra di dubbio il colore che più ti si addice". E adesso cosa avrei fatto?

    «È esattamente questo il punto», sbotta Richard. «Se magari fossi stato qui, visto che è il giorno più felice della sua vita…».

    Trattengo il fiato in attesa di un’esplosione che non si verifica. Anzi, Dominic appare esausto, si passa una mano sul viso e si volta verso Michelle.

    «E voi cosa state facendo? C’è qualcuno là fuori a cercarla? Ogni secondo che aspettate è un secondo in più che mia figlia deve affrontare da sola, al buio. Morirà di freddo».

    «Sono arrivati gli elicotteri e stanno perlustrando la zona, signore».

    «Be’, a me non sembra che stiano facendo abbastanza». Michelle tenta di replicare, ma lui alza una mano e la bocca dell’ispettrice si richiude come quella di un pesce. «Non voglio sentire le sue insulse banalità. Vado nella mia stanza. Mi faccia contattare immediatamente dai suoi superiori. Voglio sapere come intendono procedere per ritrovare mia figlia».

    Ciò detto, se ne va senza degnare né me né Richard di uno sguardo.

    Un mese dopo

    4

    Rebecca

    Il bambino in coda dietro di me afferra l’angolo del mio pacco di pasta e lo strappa. Me ne accorgo troppo tardi – sebbene sia la trecentesima volta che lo fa – e lui scoppia in una risata isterica mentre i miei conchiglioni si rovesciano sul pavimento. Sua madre non alza nemmeno gli occhi dallo schermo del cellulare, sul quale sta digitando qualcosa come una forsennata, neanche fosse una delle protagoniste di quella serie tv, Bletchley Circle. Quando mi chino a raccogliere la pasta, il bambino mi lancia il suo bambolotto di plastica, che mi passa talmente vicino da sfiorarmi i capelli. Ride e allunga una mano affinché gli restituisca il giocattolo. Lo spedisco con un calcio sotto la cassa: piccole rivincite.

    Carico le buste della spesa nel bagagliaio dell’auto e abbasso il portellone fino a sentire l’appagante scatto della chiusura. Ultimamente mi sembra di passare metà della mia vita in questo o quel supermercato, sia per tenere rifornita casa mia che per assicurarmi che Richard mangi qualcosa. Perché se non ci pensassi io, diciamocelo, lui molto probabilmente si dimenticherebbe di farlo.

    Sono passate quattro settimane dal matrimonio, quattro settimane senza un corpo né risposte. Io e Richard abbiamo trascorso la prima settimana in albergo, principalmente seduti nella sua stanza, cercando di non guardare fuori dalla finestra, in attesa dell’arrivo di una telefonata.

    È stata Michelle a suggerire con pacatezza che Richard tornasse a Kensington e provasse a ritrovare una sorta di normalità, promettendo di chiamarlo alla minima novità.

    Questo è stato tre settimane fa, e all’inizio ha mantenuto la sua promessa e l’ha chiamato ogni giorno, solo per sapere come stava andando. Poi, pian piano, le telefonate sono diminuite. Non so neanche se questa settimana lo abbia contattato.

    Niente corpo uguale niente epilogo, e noi siamo tornati a Londra. Io sono un’addetta stampa e lavoro da casa, quindi posso almeno tenere d’occhio Richard. Finché Evie non verrà ritrovata, non potrà nemmeno cominciare a voltare pagina, intrappolato in un limbo, un orribile circolo vizioso di confusione, speranza e senso di colpa. Come si fa a desiderare tanto disperatamente una conferma della morte della propria moglie senza sentirsi in colpa? E finché ci sarà ancora una speranza, non avrà modo di superare la fase del rifiuto e metabolizzare il lutto. Richard vuole delle risposte, e la domanda principale è: perché?

    È diventato scontroso e suscettibile, tanto che due settimane dopo essere tornati a casa ero già pronta a piantarlo in asso e a lasciarlo a macerare nel suo brodo, con le sue mutande sporche e la sua soffocante autocommiserazione, ma è stata la voce di Evie a costringermi a restare. Siamo state noi a ridurlo così, l’ho sentita sussurrarmi all’orecchio. Ora lo devi aiutare a dimenticare.

    E poi, lentamente, sono arrivati i primi segnali di un cambiamento. Ora, la mattina, comincia addirittura a farsi trovare vestito prima che arrivi io, e a poco a poco vedo riaffiorare il vecchio Richard, con il suo umorismo pungente e le infinite citazioni tratte dai film di culto degli anni Ottanta. Qualche volta, però, lo sorprendo ancora a rimuginare e a porsi la solita domanda. Perché?

    «Forse era malata», mi ha detto giusto ieri sera, mentre guardavamo uno di quei telefilm che non piacciono a nessuno dei due, ma di cui Evie non si perdeva neanche una puntata. L’anziano sullo schermo stava stringendo la mano di una giovane donna – sua figlia, credo – e le stava chiedendo di aiutarlo quando sarebbe arrivato il momento. «Forse è come questo tizio, forse aveva il cancro e non voleva farci soffrire. Sarebbe proprio da lei».

    «Forse», ho mormorato. «Ma, conoscendola, penso che prima ci avrebbe voluto mettere al corrente della situazione».

    «Chiederò comunque al mio avvocato se è possibile avere accesso alle sue cartelle cliniche».

    Stasera preparerò gli spaghetti alla carbonara, anche se so benissimo che Richard tentennerà davanti alla sua porzione, ne mangerà un paio di forchettate e farà qualche immancabile apprezzamento prima di buttare tutto nell’immondizia.

    Ingranata la retromarcia, sto per fare manovra per uscire dal parcheggio quando sento vibrare il cellulare nel vano portaoggetti davanti al cambio. Dopo aver imprecato tra me e me, sblocco lo schermo, sperando che non sia Richard e che non mi chieda di tornare dentro, perché so che lo farò se me lo chiederà. Tira fuori un po’ di carattere, Rebecca, o vuoi farti mettere i piedi in testa?. Sono ingiusta: sua moglie è scomparsa e si presume anche morta, quindi ha tutto il diritto di chiedermi di prendergli un pacco di biscotti al cioccolato o qualunque altra cosa gli vada di mangiare.

    Non è un messaggio, è una notifica di Facebook.

    Evelyn Bradley ti ha inviato una richiesta di amicizia!

    5

    Evie

    «Papà! Papà! Mère est morte!». La bambina di cinque anni si precipitò all’interno dello studio del padre. «Morte!».

    «Calmati, Evelyn», suo padre parlava lentamente e in un perfetto inglese. Amava la sua madrelingua, ma da quando si erano trasferiti in Inghilterra aveva accondisceso alla richiesta di sua moglie, la quale voleva che a casa parlassero soltanto la lingua del Paese in cui si erano trasferiti. Non vorrai mica che cresca e che tutti la conoscano come la ragazza francese, Dominic. Le ragazze, da queste parti, è importante che si integrino. «Tua madre non è morta. Ci ho appena parlato, non sarà passata neanche mezz’ora. Cos’è questa stupidaggine? In inglese, per favore».

    «Sul divano… morte! Elle a… ehm, ha preso… ha preso le pillole per dormire e non si muove più». Evie si abbandonò contro il petto di suo padre, le guance rigate dalle lacrime. «S’il te plaît, viens! Ti prego, vieni!».

    Il padre di Evie sospirò e mise giù la penna. Sollevò la figlia da terra prendendola sotto le ascelle e le diede un bacio sulla fronte

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