La casa in collina
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Edizione integrale
Mentre la città di Torino è devastata dai bombardamenti, Corrado decide di rifugiarsi in collina, alloggiando presso la casa di Elvira. In questi luoghi ritrova i ricordi dell’infanzia, e riassapora i ritmi lenti e le gioie di un’esistenza semplice. Nell’osteria Le Fontane rivede anche un suo antico amore, Cate, e conosce Dino, che pensa potrebbe essere suo figlio. Quelle che gli appaiono come una tranquillità e una felicità domestiche sono in realtà tanto più dolorose perché originate dalla codardia, dal rifiuto o dall’impossibilità di prendere parte alla cruenta guerra civile che è in corso. Per Corrado il senso di quello scontro è inafferrabile, come il senso della storia, a cui non è in grado di partecipare, quasi neanche da spettatore. Quando anche in collina arriveranno i morti, le rovine, la devastazione, Cate sarà arrestata dai nazisti e Dino si aggregherà ai partigiani. Corrado, invece, resterà nel suo limbo, tormentato dal rimorso ma fino alla fine incapace di darsi all’azione. Tra i più autobiografici romanzi di Pavese, La casa in collina riprende molti dei temi cari all’autore, e in particolare il dramma interiore di chi non ebbe il coraggio di intraprendere la lotta partigiana e finì per vivere da estraneo tanto tra i fascisti quanto tra gli artefici della Liberazione.
Cesare Pavese
nacque nel 1908 a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese delle Langhe cuneesi. A Torino si laureò in letteratura americana con una tesi sulla poetica di Whitman. Visse l’esperienza del confino sotto il regime fascista, quindi l’occupazione tedesca e la guerra di liberazione. Intellettuale dalle profonde inquietudini esistenziali, scrittore, poeta e traduttore, fu una delle colonne portanti della casa editrice Einaudi. Morì suicida a Torino nell’agosto del 1950, nello stesso anno in cui aveva vinto il Premio Strega con La bella estate. Furono pubblicati postumi i suoi diari, sotto il titolo Il mestiere di vivere. La Newton Compton ha pubblicato La casa in collina, La luna e i falò e il volume unico I capolavori (La spiaggia; Dialoghi con Leucò; Il compagno; La casa in collina; La bella estate; Il diavolo sulle colline; Tra donne sole; La luna e i falò; Lavorare stanca; Verrà la morte e avrà i tuoi occhi).
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La casa in collina - Cesare Pavese
Accettare la vita
Bisognerebbe provare a entrare nei suoi libri dimenticando, o fingendo di dimenticare, il finale di partita. La «cappa di piombo» che si è addensata, dopo il suicidio, sulla sua figura. Riavvolgere il nastro dall’inizio senza subire l’ombra del gesto conclusivo. E ritrovare la sua infanzia sofferta, da orfano di padre; l’adolescenza consumata in fretta – Cesare Pavese, il ragazzo langarolo approdato a Torino, che studia, studia, studia. A diciassette anni è certo di avere posto l’ideale della sua vita nella poesia e – quasi dovesse già fare un bilancio – sente che «l’unico appoggio che mi resta al mondo è la speranza che io valga, o varrò, qualcosa colla penna».
Si tratta di una vocazione inflessibile, assorbe interamente gli anni della giovinezza – non fosse che per qualcuno degli amori difficili di cui sarà costellata la sua vita. Legge gli americani, si laurea su Walt Whitman, traduce Moby Dick per mille lire, scopre Lee Masters e l’Antologia di Spoon River. Intanto scrive: versi che raccontano il paesaggio dell’infanzia – la collina
, le colline, centrali nella sua opera come nel suo orizzonte visivo. Sembrano detti a voce, sussurrati, sono canzoni di strada, senza musica. Racconti in cui si va a capo. Storie di gente nata in campagna, come lui, e approdata in città, stordita da troppe promesse.
Gella è stufa di andare e venire, e tornare la sera
e non vivere né tra le case né in mezzo alle vigne.
La città la vorrebbe su quelle colline,
luminosa, segreta, e non muoversi piú.
Nei versi di Lavorare stanca (1936) Pavese ricorda, evoca il paesaggio delle origini; trascrive frasi rubate a chi beve in un’osteria, sotto un pergolato; saccheggia – come lui stesso dice – «la mia esperienza fin dal giorno in cui apersi gli occhi». E anche se gli pare di avere esaurito la vena, scrivendo in poesia, riproduce nel passaggio alla prosa lo stesso movimento dei versi: andare e venire fra città e collina, assecondare il desiderio di fuga e l’improvvisa urgenza di tornare.
Dice Doro, un personaggio di La spiaggia (1942), al suo amico: «Che ti credi? Che io faccia il ritorno alle origini? Quello che importa ce l’ho nel sangue e nessuno me lo toglie». Gli è venuta voglia di fare un giro nelle sue colline, lasciando la moglie al mare. «Sono qui per bere un po’ del mio vino e cantare una volta con chi so io. Mi prendo uno svago e basta». L’amico sa che non è vero, che c’è di più, che ha risposto a qualcosa come a un richiamo, a una sete, ma lo tiene per sé, resta in silenzio.
Quando Anguilla, l’io narrante di La luna e i falò (1950), pronuncia la frase, quasi proverbiale, «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via», trova l’epigrafe involontaria per l’intera opera di Pavese, divisa fra racconto rusticano
e bohème borghese, con al fondo la stessa ansia, o smania, adolescente di mettere alla prova la propria innocenza.
Penso a una scena del romanzo breve La bella estate (1949): quando la ragazza Ginia si accorge di non essere più la stessa. Ha fatto l’amore con Guido; lui poi se n’è andato. «Scese la scala, sbalordita, e stavolta era convinta di non essere più lei e che tutti se ne accorgessero». Passa davanti alle vetrine, si specchia, sente di essere un’altra «da quell’immagine molle che passava come un’ombra».
Nelle pagine forse più belle che siano state scritte su Pavese, Natalia Ginzburg scrive: «Il nostro amico viveva nella città come un adolescente: e fino all’ultimo visse così». Racconta che era, qualche volta, molto triste: «Ma noi pensammo, per lungo tempo, che sarebbe guarito di quella tristezza, quando si fosse deciso a diventare adulto: perché ci pareva, la sua, una tristezza come di ragazzo […]. Qualche volta, la sera, ci veniva a trovare; sedeva pallido, con la sua sciarpetta al collo, e si attorcigliava i capelli o sgualciva un foglio di carta; non pronunciava, in tutta la sera, una sola parola; non rispondeva a nessuna delle nostre domande». Conclude così: «Gli restava dunque, da conquistare, la realtà quotidiana».
Il nome di Pavese non viene pronunciato mai, nel ricordo di Natalia Ginzburg. Tornano però, alla fine, i suoi versi – quando alla scrittrice tocca rammentare una poesia in cui l’amico, anni prima di uccidersi, aveva forse immaginato la sua morte. «Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. / Basterà la finestra a vestire ogni cosa / D’un chiarore tranquillo, quasi una luce».
Ritratto d’un amico – questo il titolo – vale molte pagine critiche, vale un’introduzione a Pavese. O almeno un manuale di istruzioni all’umore di Pavese, uomo e scrittore. C’è, nel testo di Ginzburg, l’intenzione di rintracciare nei gesti, nel tono della voce, nel modo in cui qualcuno – un amico, uno scrittore – ci appare, le ragioni e i segreti della sua opera. E c’è un cercarlo nei luoghi, come per un atto di restituzione, o per un incontro ulteriore: «Andammo, poco tempo dopo la sua morte, in collina. C’erano osterie sulla strada, con pergolati d’uva rosseggiante, giochi di bocce, cataste di biciclette; c’erano cascinali con grappoli di pannocchie, l’erba falciata stesa ad asciugare sui sacchi: il paesaggio, al margine della città e sul limitare dell’autunno, che lui amava. Guardammo, sulle sponde erbose e sui campi arati, salire la notte di settembre».
Il paesaggio che finisce per somigliargli. Un paesaggio di fine estate, di festa o di fiera conclusa. Nella cenere dei falò c’è ancora vivo il fuoco dell’estate, ma come sopito.
Leggere Pavese oggi significa anche misurare la distanza che ci separa da lui. Nato nel 1908 e morto nell’agosto del 1950, Pavese pare confinato (e in qualche modo auto-confinato) in quella prima metà di secolo: l’aria dei luoghi, il paesaggio, perfino i gesti, nei suoi libri, sono legati a un’Italia diversa, a un’altra Italia. E forse davvero non c’è nessuna, tra le sue opere, che non ci faccia avvertire – a volte con uno strappo – il nostro venire, essere dopo.
Spesso sbrigativamente ridotta a una serie di formule manualistiche o giornalistiche («specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi», diceva ironicamente di sé), l’opera di Pavese racconta un mondo di cui non sappiamo quasi più niente: sta scritto, come rughe, sulle mani dei nonni, dei bisnonni, dei trisavoli, di chi ha avuto il destino stretto tra due guerre mondiali. E ha conosciuto, nelle fatiche della terra, un calendario diverso. Così si legge in una pagina di La luna e i falò:
Il bello di quei tempi era che tutto si faceva a stagione, e ogni stagione aveva la sua usanza e il suo gioco, secondo i lavori e i raccolti, e la pioggia o il sereno. L’inverno si rientrava in cucina con gli zoccoli pesanti di terra, le mani scorticate e la spalla rotta dall’aratro, ma poi, voltate quelle stoppie, era finita, e cadeva la neve. Si passavano tante ore a mangiar le castagne, a vegliare, a girar le stalle, che sembrava fosse sempre domenica. Mi ricordo l’ultimo lavoro dell’inverno e il primo dopo la merla – quei mucchi neri, bagnati, di foglie e di meligacce che accendevamo e che fumavamo nei campi e sapevano già di notte e di veglia, o promettevano per l’indomani il bel tempo.
L’amarezza, la durezza della vita della campagna. Il suo fascino, la sua povertà, la sua violenza. La città come una promessa ambigua. La cascine da un lato, le mansarde dei pittori dall’altro. Il rapporto fra verginità e corruzione, fra purezza e maturità.
I personaggi di Pavese non fanno che ripetere, ciascuno a suo modo, un percorso di iniziazione alla vita adulta, «un’educazione e una scoperta», fra un paesaggio e l’altro, o piantati a metà strada, nell’impossibilità di scegliere, di decidersi. C’è sempre un’incertezza, un’esitazione: anche di fronte agli impegni più radicali, o alla pressione degli eventi storici, come accade in romanzi come Il compagno o La casa in collina. C’è sempre l’idea che diventare adulti richieda un pedaggio emotivo doloroso, una profonda delusione. Si può tornare indietro? La risposta sembrano darla in coro le voci mitiche
radunate nei Dialoghi con Leucò (1947). Ed è negativa:
ACHILLE
[…] Lo sapranno i ragazzi che crescono adesso, che cosa li attende?
PATROCLO
Non ci si pensa, da ragazzi.
ACHILLE
Ci sono giorni che dovranno ancora nascere e noi non vedremo.
PATROCLO
Non ne abbiamo già veduti molti?
ACHILLE
No, Patroclo, non molti. Verrà il giorno che saremo cadaveri. Che avremo tappata la bocca con un pugno di terra. E nemmeno sapremo quel che abbiamo veduto.
PATROCLO
Non serve pensarci.
ACHILLE
Non si può non pensarci. Da ragazzi si è come immortali, si guarda e si ride. Non si sa quello che costa. Non si sa la fatica e il rimpianto. Si combatte per gioco e ci si butta a terra morti. Poi si ride e si torna a giocare.
Forse per questo si coglie sempre un particolare struggimento nell’uso che Pavese fa, nei suoi romanzi, del tempo imperfetto. Perfino negli incipit, fra i più belli che la letteratura italiana del Novecento abbia prodotto: «Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai» (Il diavolo sulle colline); «Mi dicevano Pablo perché suonavo la chitarra» (Il compagno); «Già in altri tempi si diceva la collina come avremmo detto il mare o la boscaglia. Ci tornavo la sera, dalla città che si oscurava, e per me non era un luogo tra gli altri, ma un aspetto delle cose, un modo di vivere» (La casa in collina); «A quei tempi era sempre festa» (La bella estate). È l’imperfetto di chi sente di avere perso qualcosa di prezioso: dietro di sé, nell’infanzia (quando «la fantasia ci giunse come realtà»), nella vita da ragazzi; e davanti a sé, in un presente-futuro senza lusinghe, in cui resterebbe da conquistare, la realtà quotidiana; «ma», come scriveva Natalia Ginzburg, «questa era proibita e imprendibile per lui che ne aveva, insieme, sete e ribrezzo; e così non poteva che guardarla come da sconfinate lontananze».
Sono la sete e il ribrezzo con cui va incontro al mondo Clelia, l’io narrante del romanzo Tra donne sole, che Pavese pubblica nel 1949 insieme a Il diavolo sulle colline e a La bella estate. Clelia è alla fine della giovinezza, vive sola. Letto il libro, un Italo Calvino appena ventiseienne, si permette di prendere in giro l’amico più grande: «E la cosa che scombussola di più», scrive per lettera a Pavese, «è quella donna-cavallo pelosa, con la voce cavernosa e l’alito che sa di pipa, che parla in prima persona e fin da principio si capisce che sei tu con la parrucca e i seni finti che dici: Ecco, una donna sul serio dovrebb’esser così».
L’incipit, anche in questo caso, è bellissimo: «Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone» – l’aria cruda le morde le gambe, allora pensa alla primavera «nella penombra dei portici». Pavese aveva molto a cuore Tra donne sole: lo pensava come il «gran romanzo» della scoperta di sé, e del fondo tragico e vano del mondo cittadino.
Rileggendo anni dopo quel libro su cui si era trovato a scherzare, Calvino conclude che in Clelia, nella sua fierezza amara, c’è tutto Pavese, e che perciò risulta «il personaggio più bello d’uno scrittore che non credeva nei personaggi». Ma com’è, per uno scrittore uomo, sondare il segreto delle cose attraverso un corpo femminile? Com’è, insomma, questo Pavese-Clelia?
Donna dai gesti bruschi, le frasi corte, che tagliano (a volte si pente di averle pronunciate), sacrifica sé stessa a un’idea concreta, laboriosa dell’esistenza («la smania di far da sola, di bastarmi»). Frequenta ragazze più giovani e più lievi, che – a lei pare – si buttano via. Pratica il loro mondo ma con un senso di ripulsa. Sembra pronta a distogliere lo sguardo da ciò che dell’esistenza si rivela più sporco, brutale, però continua a seguire tutto con la coda dell’occhio. Sentenzia: «Sporco può essere tutto, è questione d’intenderci, ma allora anche sognare di notte, anche andare in automobile… Ieri la Nene vomitava»; «La vita è lunga. Il mondo non l’hanno fatto gli innamorati. Ogni mattino è un altro giorno». Clelia non si scopre, resta un passo indietro. Osserva le altre – Mariella, Momina – che si lasciano andare, si avventurano, si abbandonano, sanno la verità («è la vita che è sporca») ma non si sottraggono. Poi magari piangono. Oppure, come Rosetta, si uccidono: «Nel salone arioso, sotto il grande lampadario, sembrava un ricevimento, e si chiedevano come può darsi che chi come Rosetta ha tanto bisogno di vivere, voglia morire. Qualcuno diceva che il suicidio andrebbe proibito». Aveva già tentato di avvelenarsi. Non per amore, dice Momina: «Lei fa la vita che ho fatto io, che fanno tutte… Sappiamo bene cos’è il cazzo
[…] Fa succedere dei grossi guai. Sarebbe meglio se non ci fosse
. Può darsi. Ma a me mancherebbe. A te no? Figùrati. Tutti carini e dignitosi, tutti per bene. Più nessuno sarebbe costretto a uscire dalla sua tana, a mostrarsi com’è, brutto e porco com’è. Come faresti a conoscere gli uomini?
».
Le donne che non sono Clelia hanno coraggio di spogliarsi, di stare nude anche dopo avere scoperto che la vita non è nuda, che invece è disonesta, sleale: per quel segreto torbido, «morboso» che da sempre cova, di cui fa avvertire il peso senza mai svelarne la natura. Il disgusto, o la rabbia, derivano dalla coscienza di quel peso, che pure non riesce a privare il corpo di vitalità, di slancio. Le donne che non sono Clelia corrono, hanno paura però restano, sopportano. Sanno che «i maschi non sono cattivi ma scemi».
Le donne che non sono come Clelia sono forse quelle di cui Pavese si innamora. Le descrive sempre mosso da uno strano turbamento, che non è soltanto erotico. C’è sì la carica sensuale («la bocca ch’era tutta una voglia e i capelli negli occhi»), ma c’è pure lo strazio: di qualcosa che in fondo