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La sarta di Chanel
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E-book441 pagine6 ore

La sarta di Chanel

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Info su questo ebook

Una storia d’amore intensa e tormentata, in oscuri tempi di guerra. Scritta con la seta e con il filo spinato. Indimenticabile.

Parigi, 1939. La Maison Chanel ha chiuso, lasciando senza lavoro la sarta di alta moda Lila de Laurent. I nazisti hanno invaso le strade della Ville Lumière, che sembra destinata a precipitare nell’oscurità. La vita di Lila è ormai un susseguirsi di estenuanti file per le razioni di cibo, di restrizioni brutali e sacrifici, mentre la propaganda opprimente censura ogni comunicazione con il resto del mondo. Eppure, in angoli nascosti della città, c’è ancora chi osa sperare. Non ci vuole molto perché Lila si avvicini alla Resistenza e decida di utilizzare le sue abilità di sarta per infiltrarsi nelle élite naziste. 
Quando l’affascinante René Touliard entra improvvisamente nel suo mondo, Lila sente il cuore diviso tra il desiderio di salvare la propria famiglia, ebrea, e continuare a dedicarsi alla lotta per la liberazione. 
Parigi, 1943. Il compito di Sandrine Paquet è quello di catalogare le inestimabili opere d’arte in partenza per Berlino, dove le attende il Führer. Si tratta di capolavori rubati alle case delle famiglie ebree. Ma a porte chiuse, Sandrine cerca segretamente informazioni sulle attività della Resistenza. Sotto il suo atteggiamento compiacente, infatti, c’è una donna decisa a scoprire che fine abbia fatto il marito scomparso. Ma a quale prezzo? Mentre il regime di Hitler si sgretola, Sandrine si troverà coinvolta in qualcosa di più grande di lei. Uno splendido abito Chanel, infatti, nasconde un messaggio che potrebbe rivelare segreti inimmaginabili…

La storia di due donne coraggiose che non possono chiudere gli occhi di fronte al male

«In questo splendido affresco della seconda guerra mondiale, l’autrice ci ricorda che è bene tenere vicini gli amici e ancor più vicini i nemici. Basato su eventi reali, La sarta di Chanel è un romanzo che colpisce per accuratezza e capacità introspettiva. Gli appassionati di narrativa storica non vorranno perderselo.» 
Publishers Weekly 

«Le ambientazioni ricche di atmosfere, i dettagli storici e la capacità di dar vita a personaggi incredibili sono gli ingredienti del talento di Kristy Cambron, che ha fatto breccia nel cuore di molti lettori.» 
Library Journal 

«Un romanzo avvincente con colpi di scena straordinari!» 
Cosmopolitan
Kristy Cambron
È un’autrice pluripremiata di narrativa storica e saggistica. I suoi lavori sono stati inclusi nella Top 10 di «Publishers Weekly», «Library Journal» e «RT Reviewers». È laureata in Storia dell’arte e vive in Indiana con il marito e i loro tre figli.
LinguaItaliano
Data di uscita23 lug 2021
ISBN9788822756657
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    Anteprima del libro

    La sarta di Chanel - Kristy Cambron

    Capitolo 1

    Guardate fra le nazioni e osservate,

    resterete stupiti e sbalorditi:

    c’è chi compirà ai vostri giorni una cosa

    che a raccontarla non sarebbe creduta.

    Abacuc 1:5

    31 dicembre 1943

    Foresta di Meudon

    Meudon, Francia

    Se l’avessero scoperta, lì nella foresta, Lila de Laurent sarebbe stata una donna morta.

    I fiocchi di neve che cadevano orfani dal cielo rendevano le profondità di quel bosco molto più minacciose nella loro desolazione di quanto avrebbero mai potuto essere le strade di Parigi. Alle sue spalle la rincorrevano le torce, ombre scheletriche che cercavano tra gli alberi, mentre lei correva sulla neve del sottobosco che sfilacciava e bagnava l’orlo del suo abito color avorio. L’abbaio dei cani risuonava forte in lontananza, in competizione con il battito del suo cuore.

    Se la polizia di Vichy l’avesse raggiunta, non avrebbe avuto bisogno di scuse per consegnarla alle SS. E i nazisti non avrebbero avuto pietà. Non si sarebbero interrogati sul perché una modella di «Vogue» stesse facendo trekking nella Foresta di Meudon la notte di Capodanno. Un foro di proiettile nel fianco e una pistola in tasca avrebbero detto loro tutto quello che dovevano sapere su chi era diventata Lila de Laurent.

    La mano guantata che teneva premuta sul fianco rivelava l’urgenza, il sangue era filtrato attraverso i sottili fili di gabardine del cappotto avorio, una macchia che non poteva sperare di nascondere e un impedimento che non poteva ignorare.

    «Il faut que je file!». Devo scappare!. Lila si diede l’ordine a denti stretti.

    Anche se le faceva male respirare, muoversi o anche solo pensare, doveva proseguire. I Boche erano fitti come gli alberi all’interno dei confini della foresta, e i Maquis¹ avevano un sistema di guerriglieri posizionati in tutte le direzioni a partire da Parigi. Significava che non potevano garantire la sicurezza di un combattente, nemmeno dalle loro stesse armi, e qualsiasi fuga poteva rivelarsi fatale se fosse stata scoperta e creduta nemica da una parte o dall’altra.

    La sua compagna, Violette, le aveva ripetuto la raccomandazione con una stretta decisa al braccio pochi secondi prima che Lila fuggisse dall’Hôtel Ritz quella sera: «Attraversare il Meudon è la tua unica via di fuga, adesso. Ma fai attenzione, è infestato. Cambiati i vestiti. E tagliati i capelli. Se lo vengono a sapere, le SS faranno circolare una tua foto nei panni della principessa della moda con i riccioli castani che le ricadono sulla schiena. Non devi assomigliare a lei. Se vuoi vivere, quella ragazza deve morire».

    Senza il tempo di liberarsi dell’abito di seta che indossava o di occuparsi dello chignon che ora ricadeva in lunghe ciocche sulle spalle, Lila aveva già disatteso quell’istruzione. Evitò i sentieri sgombri – che probabilmente erano pieni di mine – e preferì mimetizzarsi sui sentieri innevati, seguendo la traccia delle linee ferroviarie protette dai nazisti che si stendevano tra gli alberi.

    Dopo aver superato una curva e un’altura, si ritrovò davanti ai cancelli di un castello. Imponenti torri di pietra, rovi contorti e inferriate si ergevano come sentinelle spettrali a guardia della boscaglia. La strada era segnata da tracce fresche di pneumatici. In lontananza, un alone dorato si infilava tra gli alberi: era la luce delle candele accese sui davanzali di un grande castello. Numerose vetrate piombate riempivano la facciata, oltre a un sontuoso portico in pietra brunita con una fila di auto coperte di neve che punteggiavano il viale d’ingresso circolare. Attraverso le finestre si scorgevano muoversi delle ombre mentre gli ospiti del castello passavano con flûte di champagne e una confusione di eleganti abiti da sera.

    Lila si appoggiò a un tronco di pino silvestre per riprendere fiato, con le scarpette che affondavano tra gli aghi di pino congelati ai suoi piedi.

    Una luna calante pendeva dall’alto: quasi mezzanotte.

    Un’ora in più di camminata nel freddo pungente non l’avrebbe scoraggiata in circostanze normali, anche perché gli unici castelli che funzionavano ancora come manieri erano controllati dall’élite nazista o dai collaboratori del Régime de Vichy. Ma la ferita non era più gestibile: sarebbe rimasta in ginocchio nella neve per il dolore e morta entro l’alba con o senza l’aiuto dei nazisti. Le sue opzioni erano continuare a correre e morire, oppure fermarsi, rischiare e pregare. In un castello di quelle dimensioni, doveva esserci un’entrata di servizio sul retro. Forse una dépendance o, con un pizzico di fortuna, una dispensa ben rifornita che nessuno avrebbe controllato fino al mattino dopo. Qualche ora di sonno, protezione dal vento, la promessa di un po’ di cibo: cose che avrebbero potuto fare la differenza tra sopravvivere e non sopravvivere. Con passi attenti per evitare la luce, Lila seguì la linea degli alberi sul retro, attenta alle pattuglie di guardia che potevano apparire, con le armi spianate, in qualsiasi momento.

    Un sentiero acciottolato conduceva al castello e lei si fermò poco distante, dietro una carretta con la ruota rotta issata su una pila di mattoni.

    La neve cadeva, silenziosa, oltre una pergola in legno e una porta in quercia color erica, riscaldata dal bagliore di un candeliere esterno. Un furgone Renault tutto arrugginito poltriva in quella nicchia, con le portiere posteriori socchiuse e il motore che sputacchiava gas di scarico come sbuffi di sigaretta a una festa elegante. Il testo bianco con il nome della ditta era sbiadito, ma Lila riuscì a leggere sulla fiancata:

    BOULANGERIE

    29 boulevard Rouget de Lisle

    Montreuil, Versailles

    «Merci, Dio. Merci». Lila chiuse gli occhi e fece dei respiri lenti e profondi, poggiando la fronte sul legno grezzo della carrozza rotta. «Montreuil, sarebbero solo due chilometri».

    Da lì poteva arrivare a Versailles, incontrare il suo contatto. Fare la consegna. E poi da Versailles… questo ancora non lo sapeva.

    «Allons-y!». Il grido di un uomo si levò sopra il rumore del motore, facendola sobbalzare e guardare attorno ancora una volta.

    Pantaloni di lana, un gilet sbottonato sopra una camicia bianca con i polsini arrotolati sugli avambracci, l’uomo saltò giù dal retro del furgone del pane e sbirciò attraverso l’entrata di servizio. Il freddo pungente lo preoccupava poco, era impegnato a trascinare alcune casse sul retro, piuttosto, poi si scagliò attraverso la porta con una tale brutalità che quasi la strappò dai cardini. La porta si spalancò con un colpo violento contro la pietra brunita del castello e rimbalzò sul muro con un tremito fiacco. «Allons-y!». L’uomo scomparve oltre il bagliore dell’ingresso della servitù, e con lui le sue incitazioni.

    Lila esaminò la scena. Nessun movimento nella parte anteriore del furgone significava nessun altro di cui preoccuparsi. Vide che dietro c’erano altre casse e qualche scaffalatura: abbastanza per potercisi nascondere. Come restare all’erta durante il viaggio verso Montreuil, come uscire dal furgone di nascosto una volta arrivata lì e se il fattorino fosse un amico o un nemico: queste erano le sue preoccupazioni, e le avrebbe affrontate una per volta.

    Ogni cosa a suo tempo.

    Sperando che le molte impronte lasciate sulla neve intorno all’entrata nascondessero le sue, Lila si precipitò nell’ombra oltre gli sportelli posteriori del Renault. Premette la schiena contro la fredda gabbia di metallo e scivolò come neve che si scioglie, atterrando contro una cassa di baguette e palle di lievito naturale. Aveva ancora la piccola pistola nella tasca del cappotto; si tolse il guanto e, come ultima difesa, arricciò il palmo insanguinato attorno all’impugnatura, tenendo l’arma stretta contro il bavero.

    «Sempre in ritardo». L’uomo non stava più gridando, era un brontolio appena udibile sopra il motore del Renault. Tornò da solo, con due casse vuote impilate una sull’altra, e apparentemente senza il compagno che stava cercando.

    Era di corporatura media, vide, alto e con morbidi capelli castani che sembravano essere stati pettinati, ma che erano stati arruffati dalla danza del vento. L’uomo sollevò le casse sul pianale e le fece scivolare sul pavimento in metallo del furgone. Appoggiò le mani sulle portiere per chiuderle… ma si fermò.

    Lila trattenne il respiro.

    Poteva solo pregare che il raso color avorio del suo abito non avesse brillato nell’ombra. Ma i fatti, malgrado tutto, dimostrarono il contrario. L’uomo passò in rassegna le casse, poi sollevò lo stivale con cautela.

    Con un’agilità che sorprese anche lei, Lila sollevò la pistola all’altezza della spalla, portando solo la mano allo scoperto, e gliela puntò a bruciapelo al petto. «Arrêtez!».

    Sebbene gli avesse intimato di fermarsi con tutta la sicurezza che era riuscita a trovare, il suo pugno insanguinato tremava e il dolore era ancora pulsante. Ancorò il braccio alla vita e rafforzò la presa, ripetendo «Arrêtez», senza gridare questa volta, ma con quello che sperava fosse un tono di ferro. L’uomo sollevò le mani ed espirò una nuvoletta nel freddo mentre abbassava lo stivale a terra. «D’accord. Tranquilla… Non le farò del male».

    Una promessa ironica visto che era lei ad avere in mano la pistola. Ma quel passo indietro era un buon segno.

    «Cosa vuole, signorina?».

    Forse era per lo shock accumulato nella lunga fuga attraverso le strade di Parigi e la foresta brulicante di cani poliziotto e pistole naziste, ma Lila non riuscì a rispondere. Non c’era da stupirsi che la sua mente avesse scelto proprio quel momento per giocare i suoi trucchi infelici, dicendole che quella voce profonda così ingannevolmente morbida era una voce che aveva già sentito.

    Molte volte.

    Era la voce di un uomo morto.

    «Bien. Prenda pure». Inclinò la testa verso il mucchio di pane nelle casse, tanto che la luce catturò il suo volto. «Prenda quel che vuole e se ne vada. Non voglio problemi qui». Lila lo fissò di nuovo negli occhi, il loro inconfondibile azzurro chiaro che rievocava memorie sepolte da tempo. Sebbene avesse qualche anno in più e fosse dimagrito, con la mascella non rasata, in livrea da ristoratore e non nello smoking elegante che ricordava, e in piedi sul retro di un furgone del pane nella Foresta di Meudon, tra tutti i tempi e luoghi possibili di quel loro mondo distrutto, avrebbe riconosciuto tra mille l’uomo che le stava davanti. «Tu…». Lila espirò, un respiro che si annebbiava nell’aria mentre lei si teneva saldamente sulle ginocchia.

    René Touliard trasalì di riflesso quando lei si spostò in avanti e la luce del candeliere gettò il suo bagliore su di lei. Se era sorpreso di vederla, mantenne la sua compostezza: le spalle squadrate, gli occhi incollati ai suoi, le mani ferme in alto mentre i fiocchi di neve scivolavano in un pigro valzer tra loro.

    «Sì, io».

    «Pensavo… che fossi morto».

    «No. Sono molto vivo». Cambiò atteggiamento dopo aver guardato meglio la pistola e aver visto la mano macchiata di rosso scuro e le tracce di sangue incrostato sotto le unghie. Con un segno profondo a solcargli la fronte le chiese: «Come hai fatto a mettere le mani su una pistola del genere? Una Liberator. Pensavo che solo la Résistance ne avesse».

    «Infatti», rispose incautamente di getto, forse per la fretta e il dolore. Sarebbe stato meglio che René avesse continuato a pensare a quell’arma come a uno strumento di difesa qualsiasi.

    «Oh, no… Lila. In che cosa ti sei cacciata?».

    Lila scosse la testa. «Non c’è tempo. Puoi guidare?»

    «Potrei. Se la abbassi. Come cortesia nei confronti di un vecchio amico. Temo di non fidarmi molto del fatto che non mi ucciderai».

    «Vecchi amici. È questo che siamo?». Alzò il mento con la Liberator ancora ben salda al suo posto, mentre elaborava il fatto che l’unico uomo che avesse mai amato l’aveva appena declassata a semplice amica.

    «Un tempo lo eravamo».

    «Io non mi fiderei di un vecchio amico. Potrebbe sempre prendere la pistola, girarla e usarla contro di me. E vale anche per te».

    Erano il dolore, lo shock, il freddo a parlare per lei. Forse in realtà giaceva svenuta in un canale di Parigi e quelli erano solo gli ultimi terribili momenti di vita prima che il suo corpo la consegnasse alla tomba, dove avrebbe continuato a vedere René nei sogni e negli incubi.

    Dei passi strisciarono dietro di loro.

    René lanciò uno sguardo verso il fondo del furgone. Lila annuì indietreggiò nell’ombra, dietro le casse. In un batter d’occhio arrivò un ragazzo, anche lui vestito da fattorino, ma senza alcuna cassa tra le braccia.

    «Bene. Eccomi qui, Duckworth al vostro servizio».

    «En français, s’il te plaît!», scattò René. «E non usare quel nome qui. Lo sai bene».

    «Oui, votre Majesté! Anche se non c’è nessuno in giro», concesse il giovane, seppure con uno sciocco inchino e una certa sfacciataggine. «Senti, sei matto come un cavallo a chiedermi di andarmene adesso. Non puoi biasimarmi se voglio rimanere, questo invito a spiare una festa di Capodanno per i vertici nazisti è così… je ne sais quoi».

    «Non. Ma mi aspetto che ti ricordi chi sei prima di far uccidere qualcuno. E se quel qualcuno dovessi essere io, sarò molto scontento e non mi farò problemi a prendermela con la tua pellaccia arrogante». René chiuse una delle portiere, e Lila si perse nell’ombra dietro di lui. «Se ti diverti tanto, resta. Ho delle consegne da fare prima dell’alba».

    «Per allora dovrei avere tutte le informazioni che mi servono, come al solito».

    «Tornerò a prenderti domattina», disse René in tono deciso, sbattendo anche l’altra portiera.

    A quel punto la loro conversazione fu attutita, e Lila non riuscì a capire il resto. Ma qualsiasi cosa avesse detto era stato abbastanza convincente, e subito dopo aprì la portiera e salì in macchina da solo, sul sedile di pelle consumata dal lato del conducente.

    «Cosa gli hai detto?».

    René si sedette, fissando dritto davanti a sé l’oscurità del sentiero che scompariva tra i pini, come se anche lui stesse cercando di riprendere fiato.

    «Niente di importante. Solo di comportarsi bene fino a domattina. L’ultima cosa di cui ho bisogno stanotte sono due problemi da affrontare contemporaneamente».

    Dunque lei era un problema, adesso? Eppure avrebbe detto che il problema più grande del momento in Francia fossero tutti quegli uomini in uniforme grigia con le armi cariche puntate su chiunque.

    «Perché…?».

    Perché sei qui? Perché sei vivo? Perché te ne sei andato tanti anni fa?

    Il dolore la travolse di nuovo, e le parole le si spensero in gola. Di tutte le domande che avrebbe potuto fargli, cadde sulla più inutile.

    «Perché fai le consegne per una boulangerie?».

    René lanciò un’occhiata oltre la spalla alla sua figura china nell’ombra. Provò una grande tenerezza nell’incontrare il suo sguardo che, da qualche parte nel profondo, sapeva ancora leggere, interpretare. Stava cercando di capire, pensando alle mille cose che non le avrebbe detto.

    «Sei ferita?»

    «Oui. Direi proprio di sì».

    «Ecco». Gettò a terra un cappotto di lana spessa che le sfiorò le ginocchia. «Stai al caldo, Luciole. Ti porto via da qui». Ingranò la marcia e il furgone si diresse verso la vasta oscurità della foresta, mentre lei si tirava il cappotto sulle spalle come una coperta.

    Luciole.

    Avrebbe preferito che non l’avesse chiamata così.

    Erano passati secoli dall’ultima volta, quella sera in cui avevano visto il cielo estivo sopra i giardini di Versailles punteggiato dalle lucciole. Pensava che non avrebbe più sentito quella voce né visto i suoi occhi. E invece eccolo lì, il suo René. Tornato dalla morte, come se fosse la cosa più facile del mondo. Lanciando un rapido cenno di saluto ai soldati di guardia, condusse il furgone oltre i cancelli del castello e furono inghiottiti dall’inchiostro della notte.

    A quel punto la Liberator non sembrava più necessaria.

    Lila lasciò cadere la pistola e si stese; il pavimento di metallo le diede un fresco benvenuto quando incontrò la sua guancia. Fu avvolta dal profumo del lievito, degli abeti e di lui, dal colletto del cappotto, e il dolore finalmente esplose in tutta la sua ferocia. Chiuse le dita in un pugno contro il bavero di lana e strinse gli occhi.

    «Lila?». Una pausa, e poi un grido. «Lila réveille-toi! Mi senti? Svegliati!».

    «Sono sveglia…».

    Ma le buche e le crepe della strada facevano sobbalzare il furgone, cullandola verso il sonno come una strana ninna nanna del pifferaio magico.

    «Non posso guidare e occuparmi di te allo stesso tempo. Devi restare vigile. Continua a parlare. Dimmi, in nome del cielo, che cosa ci fai in mezzo al Meudon? Lo sai quant’è pericoloso?»

    «Credo di saperlo, sì».

    «Potremmo lasciare da parte l’umorismo per un momento? Come sei arrivata qui?».

    No. Non parleremo degli ieri che hanno portato a oggi. Non ora.

    Meglio restare concentrati sul compito da svolgere. «A dire il vero, non saprei dirlo con esattezza. Comunque a piedi, attraverso la foresta, per quanto mi è stato possibile».

    «Da dove sei partita?», chiese lui guardandosi un paio di volte alle spalle, insistendo per avere una risposta. «Come hai fatto ad avventurarti così a sud?»

    «Sono diretta a Versailles. Lato Château. Sicuramente te lo ricordi».

    «Versailles brulica di polizia militare».

    Lo so. Non sono più un’ingenua.

    Sospirò, perdendosi nel dolore. «Lo so».

    «Allora devi sapere anche che nemmeno un gufo può volare lì sopra senza il permesso dei Boche, e tanto meno un furgone del pane può superare i cancelli di Versailles con una clandestina a bordo. Sarebbe un suicidio, per te e per me».

    «Devo… arrivarci».

    Lila respirò profondamente anche se il dolore la tagliava in due. Aveva sentito dire da suo padre, che aveva fatto la Grande Guerra, che gli uomini avvizziscono dopo essersi presi una pallottola: cadono a terra, si bagnano di sangue e restano in silenzio, oppure stringono i denti come se stessero masticando del ferro. Ora sapeva perché. Qualsiasi cosa le sarebbe parsa migliore di quel fuoco che la stava attraversando.

    Le si riempirono gli occhi di lacrime e girò la fronte verso il pavimento umido e arrugginito, rifiutandosi anche allora di farsi vedere piangere da lui.

    «C’est pas possible!», mormorò lui mentre prendeva una curva stretta da un cumulo di neve.

    «Una volta ci credevi nell’impossibile, no?». Rispose solo il ruggito del motore, sapeva di aver toccato un nervo scoperto. «Dimmelo! Ci credevi?»

    «Ma questo non è più lo stesso mondo di prima, Luciole».

    Lila fece scorrere il palmo della mano lungo l’orlo del soprabito, cercando il bozzo cucito nella fodera. Trovò il tesoro al sicuro. E per il momento lo era anche lei. La Provvidenza vegliava ancora su di loro. Era riuscita a fuggire dall’Hôtel Ritz. A lasciare Parigi. Ed era finita nelle mani dell’unica persona al mondo che avrebbe potuto portarla fino a Versailles.

    «Forse no. Ma anche se questa fosse la fine, dobbiamo comunque provarci».

    «La fine di cosa?»

    «Del mio incubo a Parigi dal giorno in cui te ne sei andato».

    L’ultimo pensiero ad attraversare la mente di Lila prima dell’oblio fu che anche in quel mondo devastato dalla guerra, l’impossibile poteva non essere completamente fuori portata. Dopo tutto, René Touliard era tornato dalla tomba e questo poteva significare tutto. Lila pregò di non doverci finire al posto suo. «Buon anno, René», sussurrò, e si lasciò andare.

    ¹ Boche è il nome dispregiativo usato per designare i tedeschi. Maquis è il nome del movimento francese di resistenza all’occupazione nazista e dei suoi membri (n.d.t.).

    Capitolo 2

    1° gennaio 1944

    12 rue François Millet

    Parigi, Francia

    «Non. Non potete entrare oggi».

    Monsieur Mullins bloccò l’ingresso di Sandrine Paquet al suo negozio, stagliandosi sulla porta, per impedire a lei e a Henri di mettere piede nella boulangerie dove avevano comprato il pane negli ultimi quattro anni.

    Lei si fermò di colpo, tanto che il figlioletto quasi le andò a sbattere contro il sedere e i tacchi delle sue oxford traballarono sul punto in cui la mattonella incontrava il primo gradino. Il suo riflesso nella vetrina della boulangerie Le Fournier doveva apparire stupito. Impossibile che li stesse davvero mandando via. E senza spiegazioni.

    «Non possiamo entrare? Perché no?».

    Lo sguardo del vecchio balenò verso le uniformi grigie che riempivano i marciapiedi e scosse la testa: un piccolo movimento da un lato all’altro e una fronte aggrottata, a dire che non era più sicuro. «Ci guardano».

    Sussurrò così piano che forse non aveva emesso alcun suono, ma Sandrine immaginò il resto. Il terrore nei suoi occhi, però, le fece scorrere un brivido lungo la schiena che aveva ben poco a che fare con il freddo.

    «Deve andarsene, signora Paquet. Immediatamente».

    «Oui. Naturalmente». Sandrine annuì. Farfugliò. Passò una mano guantata sul davanti del cappotto per lisciare pieghe immaginarie e poi afferrò stretta la manina di Henri mentre faceva un passo indietro, e Monsieur Mullins si affrettava a chiudere la porta. Il chiavistello scattò con forza e un attimo dopo si abbassò anche la tenda sul vetro della porta del negozio.

    «Salope!». Una donna sputò ai loro piedi nell’istante in cui Sandrine scese il gradino. Un altro insulto, essere chiamata prostituta. La saliva brillava sul marciapiede proprio davanti alle oxford di Sandrine, che guardò da terra fino al viso schiacciato di una donna anziana, che la fissava a sua volta con gli occhi stretti a fessura.

    Poi la donna si voltò a guardare Henri: un errore.

    Per istinto materno, i capelli sulla nuca di Sandrine si rizzarono, e lei strinse le dita attorno al polso del figlioletto di sei anni per nasconderlo dietro la gonna.

    La donna la indicò agitando un dito ossuto. «Non c’è da stupirsi che si rifiutino di servirla, qui. Vi ho visto con loro, collaborateurs! Allemands! Les cochons Vichy…».

    Collaborazionisti. Tedeschi… Maiali di Vichy.

    «Adesso basta, madame. Pardon». Sandrine scansò la donna mentre rimetteva le tessere annonarie nella borsa di pelle color sangue di bue, e condusse Henri sul marciapiede nella direzione opposta.

    «Che cosa ha detto, maman

    «Chi?»

    «Cette femme». Henri si voltò a guardare la loro accusatrice, che aveva ancora il naso e gli occhi aggrottati sotto il berretto blu sbiadito, mentre sparava insulti.

    «Abbassa quel dito», lo ammonì Sandrine, mantenendo un tono allegro. «Qualcuno potrebbe pensare che siamo dei pettegoli. Di certo preferiamo di no, ti pare?».

    Il figlio ubbidì, ma quella piccola fronte che si corrugava proprio come quella di suo padre suggeriva che la sua curiosità non si sarebbe fermata a quell’incontro casuale. Anzi, quell’incontro si sarebbe aggiunto ai tanti che lo avevano preceduto e avrebbe allungato la lista delle sue domande. Se da un lato somigliava a lei, per i colori chiari e i dolci occhi da cerbiatto, era l’immagine speculare di Christian Paquet nei modi, nei ragionamenti e nei pensieri profondi.

    Non avrebbe potuto rimandare ancora a lungo la risposta alle sue domande. «Dove andiamo, mamma?»

    «Dobbiamo pur trovare una boulangerie aperta, no? Per il nostro tè di Capodanno. Parigi è piena di panetterie che accettano le tessere annonarie. Dobbiamo solo registrarci in una nuova boulangerie». Mentre raggiungevano l’angolo, Sandrine raddrizzò la borsa che teneva appesa al gomito, più per principio che per reale necessità.

    Henri era abbastanza grande ormai da aver visto e fatto molte più cose da adulto di quante ne avrebbe dovute fare un bambino della sua età. Ma doveva esserci una certa misura di normalità, anche nel loro mondo. Erano sopravvissuti sotto il Régime de Vichy per quasi quattro anni. Nonostante il crescente sentimento di odio contro il maresciallo Pétain e la sua fazione di collaborazionisti, lei e Henri non erano sventurati burattini, destinati ad aggirarsi nell’ombra creata dai suoi datori di lavoro.

    Parigi era la loro casa: non sarebbero stati cacciati via, indipendentemente dalle voci che circolavano su di loro. «Ma…». Henri rallentò al punto da costringerla a fermarsi o trascinarselo dietro. «Siamo andati a Le Fournier da quando papà ci ha lasciato. Abbiamo offeso Monsieur Mullins, è per questo che non ci ha voluto far entrare nel suo negozio?».

    Offendere il signor Mullins?

    Sandrine non poteva pensarci in quel momento. Ma di sicuro qualsiasi cosa fosse accaduta, andava ben oltre una semplice offesa. Il terrore che ardeva negli occhi dell’uomo lo chiariva più di qualsiasi altra cosa.

    Vedendo che non rispondeva, Henri aggiunse: «È amico di papà, mamma».

    Ma il tuo papà non è qui.

    «Dai, proviamo un’avventura e troviamo un posto nuovo? Ho sentito dire che c’è una pâtisserie a Montmartre che il mese scorso aveva i croissant. Te lo immagini? Mangiare un croissant al nostro tè sarebbe un po’ come tornare ai vecchi tempi, no?».

    Chissà se Henri ricordava i bei tempi in cui le preoccupazioni erano davvero piccole, i croissant al burro e i tè? Era passato così tanto tempo. L’ordinario era ormai un sogno perduto.

    «Ma io non voglio un posto nuovo».

    «Ora forse no, ma quando avremo trovato il tuo preferito…».

    «Mais non. Io non voglio andare dove il mio papà non ci può trovare. Quando tornerà verrà a cercarci a Le Fournier, e se non ci siamo? E se… non tornasse più e fosse colpa nostra?».

    Quella domanda, dritta dal cuore sanguinante di un bambino, ebbe il potere di fermare il tempo intorno a loro. Il vento si alzò, giocando con il sole tra i capelli di Henri mentre aspettava la sua risposta. Le campane della cattedrale rintoccarono da qualche parte in lontananza. E gli immancabili calabroni nazisti brulicavano grigi agli angoli delle strade, osservando i parigini con occhi di falco, anche se quel giorno non c’era molto traffico in giro.

    Sandrine li guardò mentre allungava la mano e stringeva quella di Henri. «Niente potrebbe essere colpa tua. Mai. E il tuo papà tornerà. Aspetta e vedrai».

    Inginocchiata davanti a lui, faccia a faccia sul marciapiede, Sandrine gli aggiustò di nuovo la camicia a righe blu intorno al collo. Sorrise e gli mise un dito indice guantato sul nasino, la pelle merlot era calda contro le guance color ciliegia punteggiate dalle lentiggini.

    «Ci andremo di nuovo quando papà tornerà a casa. Che ne dici? Per festeggiare. Ma nel frattempo, compreremo il pane da un’altra parte, magari più vicino al lavoro di mamma. È una bella passeggiata da Le Fournier al Jardin des Tuileries o a casa e a scuola. Non? E non mi dispiacerebbe dover fare meno strada quando piove. Il mio chapeau preferito è un po’ triste in questi giorni proprio per questo».

    Henri non riuscì a seguire per intero l’argomentazione che avrebbe dovuto convincerlo, ma che non aveva comunque i numeri per riuscirci. Le Fournier era di strada per loro, naturalmente. Andare dal loro appartamento al I Arrondissement non avrebbe risparmiato loro un briciolo di tempo. Ma lui sembrò comunque prenderla per buona e guardò la cloche viola della mamma, un tempo bellissima, con i fiori finti sbiaditi e uno stile vecchio di troppe stagioni per poterle contare.

    «Il tuo chapeau non è triste», sussurrò Henri. Il suo sorriso sdentato offriva un’oasi di innocenza in quel mondo devastato dalla guerra. «Hai detto che te l’ha comprato papà».

    Non sarebbe riuscita a trattenere le lacrime… se non si fosse morsa in tempo il labbro inferiore. Doveva mostrarsi sempre contenta davanti ai nazisti. Muta, di pietra, a prescindere da quello che le batteva nel cuore.

    «È vero. È stato il tuo papà a comprare questo chapeau. E io lo porterò con orgoglio, mon trésor, finché non me ne comprerà uno nuovo. Ma ora è meglio che ce ne andiamo o perderemo tutta la festa. Mémé ci starà aspettando a casa. Non vogliamo certo lasciare che tua nonna passi una giornata di festa da sola».

    E lei? Sandrine non vedeva l’ora di tornare a casa – con o senza pane – per farsi un bel pianto e magari per qualche ora preziosa, riuscire a chiudere fuori il resto del mondo.

    1° gennaio 1944

    XVI Arrondissement

    Parigi, Francia

    Nonostante il piacevole rintocco, il campanello fece trasalire entrambe. Sandrine guardò la suocera dall’altra parte della stanza, accanto al focolare, i suoi occhi lampeggiavano per l’improvvisa apprensione.

    «Vado io». Sandrine sorrise a Marguerite e posò la Bibbia su una cassetta rovesciata tra loro. «Non preoccuparti. Sarà una consegna arrivata alla porta sbagliata».

    Sandrine si alzò e si allontanò in fretta, con i tacchi che risuonavano sul pavimento di marmo in un’eco accentuata dalle stanze quasi vuote.

    Quello che i suoceri possedevano nel XVI Arrondissement era stato un bellissimo appartamento, ma anch’esso aveva subìto le devastazioni della guerra. Sandrine attraversò la biblioteca che un tempo aveva ospitato feste per il circolo letterario della casa editrice Paquet, con nomi altisonanti come Ernest Hemingway, James Joyce e Sylvia Beach sulla lista degli invitati. Ormai ospitava solo i fantasmi del passato, con scaffali vuoti, stanze spoglie e tende sempre tirate.

    La cautela innanzitutto. Dopo oltre quattro anni di guerra, non si apriva mai una porta senza essere assolutamente certi di chi ci fosse dall’altra parte. Sandrine raggiunse lo spioncino, sollevò in fretta la placca dorata che lo copriva, poi la lasciò cadere altrettanto rapidamente, prendendo fiato con i palmi delle mani premuti contro la porta.

    Doveva essere il ritratto dell’ordine davanti a lui.

    Armeggiò con la cintura dell’abito blu e raddrizzò le spalle, poi aprì la catena dorata della porta. I cardini cigolarono un po’.

    Il capitano era in piedi nell’ingresso, il suo metro e novanta di altezza in un’uniforme impeccabilmente stirata, come all’inizio di una normale settimana di lavoro e non di una serata di festa. Inclinò la fronte bionda in un cenno del capo e le tese una scatola da forno, di colore rosa cipria con un fiocco color avorio e il nome della pasticceria, Les Petits Galettes, che si arricciava in una ricca scritta in lamina d’oro.

    «Capitano von Hiller…».

    «Josef, per favore. Bonne année, signora Paquet». Le offrì un debole sorriso insieme all’augurio di Capodanno.

    Lei fissò la scatola. «Cosa possiamo fare per lei?»

    «Ho saputo che avete avuto uno sfortunato incidente questa mattina».

    «Oh?». Fare l’innocente sembrava la carta giusta da giocare. Sandrine non riusciva a immaginare come avesse fatto a sapere della boulangerie all’angolo, a meno che non avesse spie nascoste ovunque, e forse era così.

    «La boulangerie vi ha mandato via». Il suo modo di fare era sempre tagliente, diretto, e le sue parole senza fronzoli.

    «Chiuso per ferie. O forse manca il pane. Le file per il cibo si allungano ogni giorno in tutta la città, come sa. Sono certa che non c’erano cattive intenzioni».

    «È stata fin troppo corretta a non venire subito da me. Comunque non si ripeterà, glielo assicuro. Me ne sono occupato personalmente. E siccome so che a Henri piacciono, ecco qui. Un regalo. Croissant al miele e marmellata di fichi». Sbirciò oltre l’ingresso, nel loro mondo privato, scrutando le ombre. «Lui c’è?».

    Sandrine si portò un dito alle labbra, socchiudendo ancora di più la porta e rafforzando così il confine tra la loro relazione lavorativa e la sua famiglia. «Dorme. È stata una giornata faticosa».

    «Capisco. Un’altra volta, magari».

    Quegli occhi verde smeraldo, scaltri e così diretti, restarono in candida comunione con i suoi per due lunghi, terribili secondi prima che lui tendesse la scatola verso di lei. Sandrine la prese, con una certa angoscia quando le dita di lui sfiorarono le sue nello scambio.

    «Sono venuto a prenderla per portarla alla galerie».

    Al solo pensiero, il respiro le si fermò nel petto.

    Qualsiasi collegamento con il mondo esterno le faceva temere il peggio, soprattutto essere convocata al magazzino del Jeu de Paume in un giorno di festa. Ogni telegramma poteva portare la notizia di un marito morto. Ogni trasmissione della radio pubblica diffondeva nuove sconfitte degli Alleati e profetizzava un’imminente vittoria del Terzo Reich. Ogni nuovo carico che arrivava portava nuovi rischi per tutti loro. I suoi peggiori incubi potevano avverarsi in ogni modo possibile. Essere convocata così alla galleria Jeu de Paume era molto irregolare.

    E l’irregolarità non prometteva mai niente di buono.

    Sandrine uscì sul pianerottolo e fece scattare la porta dietro di sé.

    Grazie al cielo non c’è nessuno.

    Ispezionò la sontuosa ringhiera in ferro battuto lungo le scale a chiocciola che salivano e scendevano, non c’era anima viva a testimoniare il loro incontro. Nessun vicino ficcanaso che facesse supposizioni o lanciasse sguardi malevoli verso di lei. Sandrine tirò un sospiro di sollievo e abbracciò la scatola tenendola davanti a sé come uno scudo. «Di che si tratta?»

    «Un carico di arte degenerata confusa con pezzi acquistati da collezioni private. I Rothschild, una scoperta importante. Abbiamo il compito di risolvere la questione immediatamente». Il capitano rimase glaciale, in linea con la sua apatica opinione sull’arte che il Terzo Reich riteneva discutibile.

    «Ci avevano detto che il carico non sarebbe arrivato prima dell’inizio dell’anno. È già qui?»

    «Ja. Hanno scoperto due caveau qui a Parigi che sono stati aperti ieri. Oggi pomeriggio hanno portato altre casse. I pezzi degenerati devono essere catalogati e separati dal resto dell’arte legittima. È una questione di grande importanza per il Führer. Ha incaricato il Reichsmarschall Hermann Göring di supervisionare personalmente la selezione per la nuova collezione del Führermuseum di Linz. E oggi il barone von Behr ha affidato a me, a noi, l’onore dell’organizzazione quotidiana di questa faccenda».

    Il direttore di campo dell’Einsatzstab Reichsleiter Rosenberg in persona e uno dei più alti funzionari sotto la direzione del loro Führer, il Reichsmarschall Göring, erano coinvolti? Allora doveva trattarsi di

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