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Preti di romagna e altri racconti
Preti di romagna e altri racconti
Preti di romagna e altri racconti
E-book138 pagine1 ora

Preti di romagna e altri racconti

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Info su questo ebook

In questo “libriccino” l’autore, per lunghi anni medico di base a Rimini e nella Valle Marecchia, «avendo poca memoria», ha trascritto ricordi, fatti e aneddoti che spesso ricorrevano nelle frequenti conversazioni con i suoi malati.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2014
ISBN9788874722587
Preti di romagna e altri racconti

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    Anteprima del libro

    Preti di romagna e altri racconti - Sandro Piscaglia

    Benzi

    LA GRAVITÀ DELLA PENITENZA

    Arco d’Augusto di sera. Atmosfera parrocchiale. Spesse fette di prosciutto che svelano due fette di melone solari. Crostini mousse di funghi. Crostini di fegato. Crostini di caviale. Strozzapreti (spiritosamente una gran porzione per dimostrare il contrario). Cappelletti asciutti: una giusta porzione.

    Una semplice bistecca di manzo, distrattamente scelta, forse la più spessa, la più ampia certo. Uno spiedo di carni varie. Una salsiccia di dimensioni impudiche. Ogni cibo disciplinatamente accompagnato dalle singole porzioni di patatine fritte. Mentre le due o tre bracioline di castrato, perché più grasse, avevano un contorno di erbe fresche e varie colorate dalla carota grattugiata fine.

    Poi si chiacchierò.

    Un bel vino rosso, domestico, dal colore intenso, senza trasparenza e al profumo forte, vinoso, creava l’atmosfera semplice di una osteria antica.

    Venne poi il caffè, fuori tempo, e poi i dolci col carrello e siccome eran policromi e tentatori, alla tentazione cedette e volle assaggiarli tutti, in ricche porzioni, e di alcuni soltanto due volte.

    E soprattutto l’amaro.

    Mentre deglutiva l’amaro che scendeva a sigillo di una serata meravigliosa e, sorbito a labbra strette, a piccolissimi sorsi, titillava il retro della lingua e giù giù, piano piano, lentamente, tutta la lunghezza dell’esofago, si irrigidì di botto, piegato in avanti e rimase stecchito, gelato dalla propria vergogna.

    Gli sovvenne che era venerdì.

    Immobile, mentre le paia d’occhi dei parrocchiani si fissavano rispettose, ma immobili su di lui, meditava il da farsi.

    Difficile far finta di niente, difficile superare il rispetto umano, difficile tradire il grado, aveva indossato per l’occasione una greca decorata da un filo cremisi come gli dava diritto il suo ruolo di canonico, difficile violare il canone di fronte al suo popolo fedele.

    E sia, fiat.

    Chiamò il cameriere con un tono tale, autorevole e stravolto, che corse subito il proprietario del locale in persona, preoccupato.

    Ascoltò la confessione del parroco e col tono di chi, comprensivo del peccato, sa esser leggero nella penitenza – «ci sarà poco da attendere» – lo consolò.

    Dopo una breve attesa, mentre anche la donna devota e minuscola che lo aveva fissato sempre con gli occhi durante il pranzo per poter ordinare e divorare tutto, ogni cosa, come il reverendo, aveva espresso un addolorato diniego, tutto solo affrontò la penitenza.

    Come sembrava grande il grande piatto degli antipasti di pesce!

    Quanto varia la fauna marina, quanti esseri diversi aveva creato il buon Dio per gli oceani e gli abissi.

    E che fosse tutto pesce fresco? Ormai non poteva affrontare questi dubbi e dubitare del color del salmone, della freschezza dei polpi, se ci fosse un po’ di sabbia nelle vongole e se le cozze fossero poco carnose.

    Era la sua penitenza.

    Masticava adagio. Mai aveva dubitato della saggia decisione della Santa Chiesa di costringere per mortificazione a mangiare il pesce il venerdì. Non era il suo cibo. Ma era ben preparato e ben cotto e ben condito. Strizzava i limoni con le dita forti imbarazzato per gli spruzzi che irradiavano a mezzo metro d’intorno, ma procedeva al suo calvario con tenacia e ostinazione.

    «I funghi, le salsicce, le mazzole s’erano impastati insieme e insieme lo facevano soffrire dal di dentro».

    Disegno di Demos Bonini

    Lo fecero assistere, povero prete, da una bottiglia di costo, un Riesling italico secco e profumato di colore verdognolo. E il poveretto lo annusava, lo annusava a lungo prima di berlo, ché procedendo gli facesse strada, gli facesse strada perché dopo due cucchiaiate di risotto si vedeva male.

    S’era disteso all’indietro sulla seggiola dall’altissimo schienale e già alcuni premurosi gli eran corsi dietro per sostenerlo. Da quella posizione si vedeva riflesso nelle scarpe di vernice da canonico e soprattutto nelle fibbie d’argento, grandi, lucenti, ma che strano prete vedeva laggiù, sconcertato.

    Sconcertati, attoniti, preoccupati i parrocchiani s’eran raccolti silenziosi, attorno a lui e con lui ansimavano un po’. Alcune donne frettolosamente si segnavano e muovevano le labbra in rapide preghiere. I rumori della tavolata di giovani lì accanto s’erano quietati, la famigliola del tavolo di sinistra se n’era andata, in fondo una coppia maliziosa continuava in quel gioco degli occhi e del corpo che li isolava. I camerieri camminavano adagio e non facevano tintinnare le stoviglie passando accanto.

    L’atmosfera era al culmine quando comparve il più alto dei camerieri con il braccio destro alzato ed il manipolo piegato sull’avambraccio sinistro con l’enorme teglia che diffondeva un tiepido alone.

    Era la grigliata. Un mistico profumo stordì tutti.

    Nel riempirsi il bicchiere, il sacerdote vide attraverso il vino le chele di un astice, enorme, la pancia tesa di un calamarone ripieno, enorme.

    Fu l’enormità a impietosire la folla. Basta, sussurrò per prima una donna ardita che andava sempre durante la messa a raccogliere le offerte. Basta, fece eco con la sua autorità la catechista più anziana.

    Basta, basta chiedevano tutti.

    Far penitenza è giusto e doveroso, ma straziarsi non è più di moda.

    Il rumore della masticazione che gli si moltiplicava nella tuba dell’orecchio rendeva difficile al reverendo di coglier le sottigliezze di tutte le preghiere.

    «Non soffra tanto, ora può fermarsi» disse il direttore didattico che era una persona colta, «la Santa Chiesa è stata sempre magnanima con i suoi figli!».

    Si fermò il poverino e ruminava.

    I funghi, la salsiccia, le mazzole s’erano impastati insieme e insieme lo facevano soffrire dal di dentro.

    Col cibo ruminava quel magnanima.

    Magnanima, magnanima sì, sempre la Santa Chiesa, e, schiaritesi le fauci con mezzo bicchiere di vino bianco, bevuto d’un sorso, gli si illuminarono gli occhi.

    Sì, sì, è magnanima, perdona.

    Nell’animo si sentiva leggero perché nel mangiar carne non c’era stata l’intenzione e la sua dimostrazione di tanta buona obbedienza l’aveva data.

    Grazie, grazie cari parrocchiani. Fatta in breve – l’economo aveva già pronto il conto – la cerimonia del pagare, tutto il gruppo usciva alla spicciolata, ma per consuetudine come fosse in processione, a due a due commentavano, quasi con una lacrima di orgoglio e compassione, la santa penitenza di don Biagio.

    IL TU

    Era entrato in bottega così piccolo che si perdeva fra i trucioli ricci della pialla.

    Lì era cresciuto, e qualche volta a scuola, imparando tutto. Lo aiutavano la sua curiosità e le tirate d’orecchi del mastro falegname che queste confidenze se le prendeva perché era un po’ sadico e lontano parente.

    Guardava tutto e voleva saper tutto. I colori, le venature dei legni, la loro durezza, l’utilità, la durata e soprattutto gli odori.

    Annusava i legni con interesse voluttuoso e si fermava sul taglio fresco dei legni resinosi sino a sentirsi arrivar uno scapaccione.

    «Svelto lì, prendi qua, vai a comperare i chiodi». Era piccolino e faceva ugualmente bene le commissioni.

    Poi crebbe e quando fu maturo la voce del popolo gli affibbiò un soprannome che gli aderì così bene come lo avesse fatto alla nascita la sua mamma. E avendolo veduto bambino molti gli davano del tu e poi per imitazione finirono per farlo tutti anche quando da grande rilevò la bottega.

    E lo accettava senza peso e lo diceva lui: tutti e sempre mi danno del tu. E ricordava anche la prima volta che gli avevan dato del lei.

    Era capitato a Bologna quando già aveva passato i quarant’anni, un bolognese grassottello per un futile motivo per istrada s’era fermato sui due piedi e gli aveva detto:

    «Lei è un imbecille!»

    Mancò poco che finissero lui in galera e l’altro all’ospedale.

    Ma fu un episodio. Pochi in paese lo seppero e tutti continuavano, anche i bambini che andavano in bottega a prendere le assette, col tu familiare che lo lasciava contento.

    Abitava attaccato alla canonica. Tra le due case non c’era distanza di più di tre metri, ma la sua era casa piccola piccola e grande quella dell’arciprete, nera di pietre la sua e bianca bordata di rosa quella del parroco e il suo comignolo, San Leo è fatta così, arrivava all’altezza del buco delle galline della stalla di Don Gino. In più la perpetua era florida e lustra e lui conviveva con la sorella secca, ossuta e balbuziente.

    Nonostante l’età non lo facesse considerar più un partito gli piaceva guardar le donne con bramosia e parlarne.

    I motivi per un poco di invidia oggettivamente c’erano e poi nei paesi si leggono anche gli occhi di chi tace ed eran corse delle voci.

    Io sono stato sempre il chierichetto più allocco che si possa immaginare e seguivo docilmente quel che mi dicevano. Per cui quando quel mercoledì mattina, dopo l’ultima messa dell’Ufficio, l’Arciprete disse parlando a se stesso: «e allora andiamoci a chiarire con questo San Giuseppe da strapazzo!» lo seguii.

    Lui avanti,

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