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Ricette avventurose: Memorie e preparazioni culinarie di un gentleman-chef
Ricette avventurose: Memorie e preparazioni culinarie di un gentleman-chef
Ricette avventurose: Memorie e preparazioni culinarie di un gentleman-chef
E-book314 pagine4 ore

Ricette avventurose: Memorie e preparazioni culinarie di un gentleman-chef

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Info su questo ebook

Questo libro di Fabio Greppi è un diario appassionato e avventuroso della sua vita, trascorsa tra il Veneto, Milano, la Sicilia, la Svizzera, l’America Latina e l’Africa, tra ong e ambasciate, in veste di psicoterapeuta, professore universitario, consulente per lo sviluppo di paesi coinvolti in guerre e sottosviluppo economico. Ciò che lo porta a viaggiare in tutto il mondo, con ogni mezzo di trasporto, tra avventure indimenticabili e uniche, è anche e soprattutto un’instancabile ricerca di uno stile di vita incondizionatamente libero e in costante movimento, sulle tracce di nuove culture, tradizioni culinarie e culturali, conoscenze stimolanti, esperienze che segnano profondamente tutto il suo percorso umano e lavorativo.
Durante questo affascinante viaggio, Greppi ha l’occasione di approfondire la sua innata passione per la cucina, scoprendo, di paese in paese, nuovi ingredienti, nuovi cibi e nuove ricette, che qui ci ripropone insieme a ricercati e divertenti consigli: abbinamento dei vini alle pietanze, preparazione dei cocktail, abbigliamento, scelta di dischi e musiche perfetti da ascoltare durante la preparazione di questi piatti – alcuni complessi, altri molto semplici, altri ancora rielaborati dalla ricetta tradizionale, ma tutti rigorosamente eccentrici e curiosi –, il tutto per gustare al meglio sapori, profumi, compagnia e nuove avventure.


«Avendo ormai il vizio d’inondarvi di stimoli sensoriali, mentre preparate questo piatto, suggerirei di bervi tutta intera una buona bottiglia di vino bianco secco, un Tocai di Lison della zona del Piave per esempio. E che ne dite d’ascoltare Il cimento dell’armonia e dell’invenzione di Vivaldi? I Pink Floyd non erano ancora arrivati a suonare di fronte piazza San Marco ma Ravy Shankar si faceva vedere spesso, potrebbe essere un’alternativa».
LinguaItaliano
Data di uscita6 ott 2015
ISBN9788861555563
Ricette avventurose: Memorie e preparazioni culinarie di un gentleman-chef

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    Ricette avventurose - Fabio Greppi

    Fabio Greppi

    Ricette avventurose

    Memorie e preparazioni culinarie di un gentleman-chef

    Collana: Con i piedi sotto il tavolo n. 2

    Copyright © 2013 Giraldi Editore

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati.

    commerciale@giraldieditore.it

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    ISBN 978-88-6155-556-3

    Proprietà letteraria riservata

    © 2013

    Edizione digitale realizzata da Fotoincisa BiCo

    Ogni riferimento a fatti e persone realmente esistenti è puramente casuale o utilizzato dall’autore ai fini della creazione narrativa.

    Paranaguà, marzo 2011

    Ai miei amici

    Patrizia Barassi e Gianni Vivi,

    alla loro bontà, gentilezza e generosità.

    Vivere veramente

    non puramente trascorrere i giorni.

    Ernest Hemingway

    ANTIPASTI

    CONCHIGLIE POLARI

    Questa è la mia prima autonoma, originale, ideazione culinaria, nata quando vivevo in quasi eremitaggio con i miei due cani pastori bergamaschi a Punta Chiappa, sul monte di Portofino.

    La casa era a strapiombo sul mare, immersa nella macchia mediterranea di uno dei luoghi più belli del mondo, il Parco naturale del Monte di Portofino se la merita la posizione nella classifica. Ero l’unico residente della zona, come successe poi in Sicilia in un altro luogo marino, tutto si popolava solo all’inizio dell’estate. Nelle altre stagioni rimanevo in quasi completa solitudine: di quando in quando, per poche ore, apparivano la proprietaria di un piccolo hotel ed il custode di un ristorante, ambedue aperti solo nella stagione estiva; in quelle rare occasioni pranzavamo insieme, a volte da me, altre volte da uno o dall’altra a turno, era simpatico.

    Per interrompere la solitudine provvedevo anche ad invitare per telefono volta per volta, quasi ogni fine settimana, varie fidanzate, oltre naturalmente a Paola che era la più ufficiale, anche se condivisa con l’allora amico Marco, magistrato a Milano col quale poi si sposò. A volte Paola e Marco arrivavano insieme e lui con dignità dormiva per conto suo lasciando che lei dormisse con me. D’altronde ambedue abitavano a Milano ed avevano tutto il resto della settimana per spassarsela. Era un diritto acquisito. Lei penso se la godesse un mondo.

    Ricevevo anche con molto piacere l’amico Gianni che da Milano, dove viveva, giungeva a Camogli per i weekend: aveva lì un appartamento e gli era facile arrivare da me con una piccola barchetta che faceva servizio pubblico tra la terraferma e la Punta. Sì, perché alla mia casa si arrivava solo in barca da Camogli o con un’ora di sentiero in mezzo ai boschi. Si partiva da San Rocco dove c’era la chiesa degli animali benedetti e da lì si iniziava a scendere per una tortuosa antica scala che già di per sé era un viaggio all’interno dei propri istinti e delle proprie emozioni. Si scendeva stretti da case non abitate come i nostri pensieri rimossi. A volte il sentiero era per brevi tratti in piano e concedeva un poco di respiro a coloro che risalivano. Si oltrepassava un’altra testimonianza di fede prima d’immergersi nel regno dell’Es dominato da altre certezze e da altre passioni. Poi dopo un più lungo e rassicurante tratto pianeggiante si giungeva ad uno specchio d’acqua chiamato Porto Pidocchio, tanto era piccolo. Improvvisamente si risaliva richiamando alla mente quel po’ di coscienza che ci rimaneva per entrare dopo poco svuotati e stanchi nella mia casa.

    Al tempo praticavo psicoterapia ipnotica per poche pazienti che avevano la costanza di raggiungermi per la loro terapia settimanale, spesso a piedi dopo una camminata di un’ora d’inverno sotto la pioggia. Forse era proprio per evitare questo sacrificio che miglioravano rapidamente...

    Pescavo con la canna dagli scogli della Punta che si inoltrava nel mare per qualche decina di metri come un indice puntato verso l’orizzonte, mi piaceva andarci alla fine del pomeriggio quando il cielo era nuvoloso e il mare mosso spruzzava gli scogli di spuma. A volte si apriva uno squarcio nelle nubi e un raggio del sole basso all’orizzonte batteva sull’acqua, tutto esplodeva in mille gocce di luce iridescente ed ero io che venivo catturato dalla bellezza e dal profumo della salsedine: meno male perché di pesci ne prendevo pochi, ma tornavo a casa contento ed inzuppato di sale, di vento e di luce.

    Sulle pendici del monte, dietro l’hotel Stella Maris, anni prima era scoppiato un incendio tra gli uliveti, vi andavo a far legna per la stufa, ne trovavo in abbondanza e quando la usavo per le grigliate profumava le carni con aromi speciali.

    Spesso passeggiavo con i cani lungo i sentieri che si inoltravano nei boschi, dopo ore di cammino si poteva arrivare sino all’insenatura di San Fruttuoso, dove c’era la bella ed antica Abbazia con le tombe dei Doria, nobile famiglia genovese. Curavo l’orto ed il giardino senza grandi risultati, ma una primavera dopo molto lavoro e sforzi riuscii ad ottenere una sola pianta di pomodori che mi diede solo un piccolo frutto, lo mangiai appena colto, lì in piedi, come un Adamo ancestrale, e fu il più buon pomodoro della mia vita. Riuscii a far fiorire anche qualche giglio, mentre le piante grasse, l’azalea e gli iris che trapiantai attecchirono bene. La rucola mi diede solo due piatti d’insalata ma era fresca e profumata. I nasturzi erano quelli che mi davano più soddisfazioni, peccato che allora non sapessi quanto fossero deliziosi da mangiare.

    Studiavo i casi delle mie pazienti e le future strategie terapeutiche da adottare, utilizzavo specialmente le tecniche di Programmazione neurolinguistica e la terapia ipnotica del grande maestro Milton Erikson. Mi ero anche portato l’arco e mi esercitavo nel tiro al piccolo bersaglio dei 20 metri.

    In cucina all’epoca sperimentavo nuove ricette della Nouvelle Cousine di Gualtiero Marchesi e di Paul Bocouse ma non abbandonavo certo i minestroni ed i pollastri alla brace che arrostivo in un terrazzamento dietro casa dove avevo preparato un focolare nel terreno con supporti per lo spiedo.

    Ascoltavo la musica di Frank Zappa, Miles Davis e David Byrne, leggevo trattati di falconeria, i romanzi di George Bataille e i saggi sugli stati alterati di coscienza di G. Tart.

    Insomma, così passavo le giornate in quell’angolo di paradiso. Dovevo essere a Milano solo due giorni alla settimana per dirigere psicoterapie di gruppo, avevo quindi molto tempo a disposizione per esplorare nuovi orizzonti culinari, perfezionare le mie tecniche di pesca, individuare sistemi più produttivi d’orticoltura casalinga e sognare terre lontane (da lì a poco mi sarei inaspettatamente trasferito ai Caraibi...).

    È una ricetta ottima da preparare in un pomeriggio d’estate per una cena a strapiombo sul mare, aspettando l’arrivo per il weekend dell’amica del momento come mi succedeva quasi ogni fine settimana. Forse è nata proprio così, ma non ricordo bene...

    Per 6 brave persone

    2 radicchi di Verona (quello a forma di palla per intenderci, non quello di Treviso che è lanceolato)

    1 pollo o 1 gallina ruspanti (sembra una pubblicità, ma è vero: ruspante è importante! non quelli dei supermercati...)

    1 mazzetto odoroso (carota, cipolla, sedano, prezzemolo, 1 foglia d’alloro)

    1 bicchierino di marsala

    100 gr di carne macinata di vitello

    colla di pesce

    3 uova

    olio di semi

    olio extra vergine di oliva

    1 limone

    sale

    (½ cucchiaio di zucchero, aceto bianco)

    Preparazione

    Ponete a bollire il gallinaceo in 2 litri d’acqua fredda anche con testa, collo e zampe (senza interiora naturalmente) insieme al mazzetto odoroso. Schiumate di tanto in tanto.

    Una volta cotto toglietelo dal brodo, scartate collo, testa e zampe e lasciatelo raffreddare. Scartate il mazzetto odoroso, sgrassate il più possibile il brodo e fatelo anch’esso raffreddare. Quindi lasciatelo in frigorifero per una mezz’ora.

    Nel frattempo, come se non andassero più d’accordo, separate i tuorli d’uovo dalle chiare e tenete queste ultime da parte.

    Con i tuorli, i due oli nella proporzione del 75% d’olio di semi e 25% d’olio extravergine d’oliva più il limone ed il sale, fate una maionese che risulti abbastanza soda. Se preferite potete renderla acidula con l’aceto al posto del limone.

    Ritirate il brodo dal frigorifero, il grasso restante si sarà condensato galleggiando in superficie come isolette di ghiaccio del pack siberiano (siamo in tema), facilmente quindi potete toglierlo completamente. Filtrate il brodo attraverso un colino.

    Mettete ora le chiare d’uovo in una casseruola insieme alla carne di vitello e a 4 cucchiai d’acqua, mescolate il tutto e versateci il brodo. Mettete sul fuoco senza smettere di battere con la frusta sino a che cominci a bollire. Continuate il leggero bollore per 20 minuti.

    Aggiustate di sale e versateci il bicchierino di marsala.

    Controllate il colore che deve risultare ambrato. Volendolo più scuro aggiungetevi gradualmente dello zucchero caramellato (un cucchiaio di zucchero con un goccio d’acqua lasciato sul fuoco per diventare marrone scuro) sino al colore voluto.

    Il brodo ora dovrebbe essersi ridotto ad 1 litro. Usatene la metà, il resto lasciatelo per altre preparazioni dopo averlo filtrato.

    Al mezzo litro che userete aggiungete la giusta quantità di fogli di colla di pesce (secondo le percentuali indicate sulla confezione) dopo averli lasciati ammollire in poca acqua fredda e poi strizzati.

    Ora rendiamo il brodo limpido: prendete un panno di cucina bagnato, strizzatelo bene e attraverso questo filtrate il brodo senza spremere.

    Miracolo! Il brodo sarà ora limpido e cristallino con tonalità di topazio. Lasciatelo finalmente riposare raffreddando, se l’è meritato.

    Staccate dai cespi di radicchio 18 foglie. Separatene 6, quelle con più dignità ed altolocata presenza, avranno la forma di grosse conchiglie rosse striate di bianco. Tagliate le rimanenti 12 in pezzetti grandi come francobolli o a strisce larghe come tagliatelle o come vi pare, non litigheremo per questo.

    Ugualmente fate con la carne del pennuto. Riunitela in una terrina con l’insalata, aggiustate di sale e mischiatela con una congrua quantità di maionese.

    Disponete questa insalata polare nelle 6 conchiglie di radicchio. Mettete in frigo o nel congelatore se avete spazio e per guadagnare tempo. Devono risultare ben fredde (ma non congelate, intendiamoci) facendo onore al loro nome.

    Ora rivolgete la vostra attenzione al brodo che sarà ormai in procinto di trasformarsi in gelatina, cioè denso, sciropposo ma non ancora nella sua metamorfosi finale solida. Versatelo a cucchiaiate (4-5) su ogni conchiglia ora già ben fredda.

    Riponete in frigorifero fino a che la gelatina termini la sua metamorfosi.

    Servite.

    *****

    Sembra troppo laborioso per un semplice antipasto o un leggero secondo estivo ma la qualità lo richiede: un buon brodo per fare una buona gelatina, una buona maionese, una buona gallina. Certo, si può fare con preparati di gelatine chimiche, maionesi industriali, super polli d’allevamento intensivo, il tutto in un quinto del tempo. Ma non illudetevi, ricavereste al massimo delle Conchiglie Findus, non certo delle originali Conchiglie polari.

    Per me valgono il tempo che gli dedico, col fantastico abbinamento di pollo, maionese, l’amarognolo del radicchio e la freschezza dell’ambrata gelatina. È una questione di qualità, come insegna lo scrittore Persig nel suo bel libro Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta. Vi consiglio di leggerlo.

    Se proprio volete semplificare, rinunciate completamente alla gelatina, meglio così che usare quella industriale.

    E comunque credete: è più complicato leggerla che farla, provate a leggere le azioni e le prodezze del marchese de Sade, sembrano complicate ma nella pratica realizzazione poi vengono facili facili...

    Vi suggerisco di cucinare le Conchiglie polari bevendo un meraviglioso Pigato d’Albenga ed ascoltare, in preparazione della serata e della ragazza che avete invitato a cena, una musica dolce e romantica, potrebbe essere qualcosa di Peter Hammil o di Anthony Hegarty...

    GUACAMOLE

    Quando mi trasferii in Guatemala provenendo da Montevideo rimasi qualche settimana in hotel cercando casa in affitto. Non era facile, io ero esigente, la volevo completamente ammobiliata e con un bel giardino. Inoltre, per ragioni di sicurezza, doveva essere vicino al mio ufficio (il paese scottava: dittatura travestita da democrazia, guerriglia, rifugiati, sequestri, per il mio lavoro avevo direttamente a che fare con tutto ciò).

    Finalmente affittai da una signora la villa nella quale viveva, lei era disposta a trasferirsi in un appartamentino per integrare le sue entrate con i miei dollari. Bella casa, moderna su di un piano con saloni, camino, tutta una parete di vetro che dava sul grande giardino con fontana, ammobiliata in stile un po’ hollywoodiano ma niente male, grande area dove lasciare il motoscafo da corsa che dall’Italia mi aveva accompagnato prima a Montevideo ed ora sino a lì e che mi avrebbe seguito anni dopo in Brasile.

    La casa era vicina al mio ufficio che si trovava all’ultimo piano dell’edificio più moderno della città, due torri gemelle con shopping center nella zona 10, appositamente non mostravamo segnali identificativi, placche o citofoni con nome e se non si conosceva il percorso non si riusciva ad arrivare sino alla nostra porta. Portieri e guardiani avevano l’ordine di non sapere nulla di noi.

    Tra altre cose ci occupavamo di far uscire rifugiati politici dal paese e da quelli vicini: Honduras, San Salvador, Nicaragua, Panama... Erano tempi difficili ed eravamo nel mirino della polizia segreta militare, dei contras, di infiltrati di altri paesi, di servizi più o meno ufficiali, in teoria protetti dall’immunità diplomatica che in pratica non contava nulla.

    Poco prima del mio arrivo avevano sequestrato e fatto fuori l’ambasciatore tedesco, poi freddarono per strada di giorno un mio amico diplomatico del Nicaragua, sequestrarono una suora della missione americana che rilasciarono quando gli States (che sono lì vicino e in quattro e quattr’otto con un saltello ti arrivano sotto casa che nemmeno te ne accorgi) iniziarono a far la voce grossa... non c’era da scherzare.

    Io ero il capo missione ad interim, il mio omologo se ne stava quasi sempre a Panama, non so realmente bene perché, né a fare cosa... Per le attività che riguardavano i rifugiati lavoravo in sinergia e stretto coordinamento con la missione della Croce rossa internazionale (CRI), riuscivamo a fare uscire dal paese gli oppositori politici al regime diretti in Svezia e Norvegia, dove venivano accolti. Questioni di urgenze umanitarie e tanto.

    Il capo missione della CRI era l’amico Jean Pierre, cenavamo spesso insieme, a volte a casa mia, a volte nella sua. Una di quelle notti gli buttarono una bomba in ufficio. Esplose creando crepe nelle cose e nella nostra tranquillità fatta della cartapesta dell’illusoria invulnerabilità.

    Avrebbe potuto succedere a me.

    I nostri telefoni erano controllati e quando avevamo bisogno di parlarci per lavoro ci si doveva per forza incontrare. Il mio tragitto casa/ufficio e viceversa veniva spesso cambiato, procuravo strade diverse ed alternative, insomma cercavo di migliorare le mie chances. La sensazione di essere sul filo del rasoio, un brividino nella schiena, un po’ di paranoia, ma poi passava tutto, non ci si pensava più di tanto e si era soddisfatti del lavoro compiuto, ne abbiamo salvati tanti...

    Non sempre però le cose erano così pulite. Un giorno mi arrivò un fax dalla mia sede centrale a Ginevra chiedendoci di avviare un programma di trasferimento negli Stati Uniti di centinaia di ex militari nicaraguensi della passata dittatura del generale Somoza, ricercati e minacciati di morte dal nuovo regime sandinista. La faccenda non mi piaceva per niente: il generale Somoza era stato il dittatore più spietato, violento e cruento della storia occidentale moderna, non mi piaceva aver a che fare con i suoi militari che avevano materializzato le paure più nascoste, i fantasmi di violenze archetipe, i peggiori spiriti del male. D’altra parte sono sempre stato contro la pena di morte e se li volevano far fuori era meglio portarli via da lì.

    Sempre da Ginevra mi si chiedeva di lasciare a disposizione di funzionari dell’Ufficio Migrazioni degli USA tre stanze del mio ufficio. Mai successo nulla di simile, cos’era questa storia?

    Iniziò il programma, arrivarono i funzionari americani, iniziarono ad arrivare gli ex (?) militari somozisti per essere poi trasferiti negli Stati Uniti come rifugiati. Brutte facce, brutti corpi, brutte anime, gli uni e gli altri. Guardavo quei militari di Somoza e mi chiedevo quante persone quel tipo avesse ucciso con le proprie mani, torturato, seviziato, donne, bambini, insomma le usuali cose che succedono sotto una dittatura militare e, ripeto, quella era stata la peggiore di tutte. Guardavo i funzionari americani che mi sembravano più agenti della CIA che non dell’immigrazione.

    Bingo! Più tardi venni a sapere che era stato proprio così.

    Per farla breve: il governo americano aveva pensato bene di provvedersi di una forza di primo intervento militare nella regione latinoamericana per invasioni e cose simili senza rischiare, nelle fasi iniziali, perdite sul campo di cittadini americani. Naturalmente di sicura fede anticomunista. Gli ex somozisti erano perfetti per questo e sarebbero stati accolti e riaddestrati in caserme negli USA. Poi successe l’invasione di Panama, di Grenada... Questo programma non risultò scritto in nessun Annual Report ufficiale, né nostro né dell’immigrazione USA, non era mai esistito. Nessuna relazione ai membri del Consiglio del mio organismo internazionale che, essendo governativo, doveva render conto ai rappresentanti degli stati membri.

    Mi dissero che io non c’ero e se c’ero dormivo. Non verranno mica adesso a rompermi le scatole perché lo racconto dopo tanti anni, no?

    Il Guacamole è un tradizionale piatto del Messico e del Guatemala e mia moglie ne era golosa.

    Per 6 brave persone

    2 avocado

    2 pomodori maturi

    1-2 denti di aglio

    1 cipolla

    il succo di un limone

    un mazzetto di erba cipollina

    peperoncino Habanero a gusto

    sale

    (cilantro, olio extra vergine d’oliva)

    Preparazione

    I pomodori vanno senza pelle (già sapete come si fa: un minuto in acqua bollente e la pelle viene via che è una bellezza), strizzati bene con le mani per togliervi tutta l’acqua di vegetazione, poi metteteli nel frullatore insieme a tutto il resto tagliato a pezzi, una scossettina e via sino a formare una densa crema.

    Mi preoccupo per voi solo rispetto alla quantità dell’Habanero: leggetevi la ricetta degli Spaghetti della morte súbita, così da regolarvi al riguardo, io vi ho avvertiti. Potete aggiungere nel frullatore dell’olio extra vergine d’oliva ma la ricetta originale non lo prevede.

    Odio il cilantro ma se volete provare aggiungetene un poco, starete nel classico ma senza la mia approvazione.

    Può essere che lo preferiate un po’ più granuloso, in questo caso tritate tutte le verdure ed incorporatele col limone alla polpa d’avocado stemperando il tutto con una forchetta.

    Usate il Guacamole come se fosse un paté da spalmare su crostini di mais messicani o di pane tostato.

    *****

    Nessuna ombra di dubbio, perché risulti come dev’essere, durante la preparazione del Guacamole bisogna bersi un Cuba Libre, siempre! Non è male prepararne subito dopo una versione differente sostituendo il rum col gin, in questo caso si ottiene un England Free, always!

    Ci sarebbe poi la versione con la vodka... col saké... con la tequila... cognac... grappa... bourbon...

    Per scherzare con voi sarei tentato di consigliarvi d’ascoltare qualche canzone di gruppi Mariaci messicani, no, meglio di no.

    Fate invece l’abbinamento col gruppo cubano Buena Vista Social Club. Un son è ciò che ci vuole.

    Soli senza compagnia? Come sempre il calendario Pirelli appeso in cucina è meglio di niente. Vi sarebbe piaciuto una bella centroamericana, eh?

    HO PRESO UN GRANCHIO!

    Io e Josi, subito dopo il nostro arrivo in Guatemala, ci formammo un bel gruppo di amici e amiche, come era successo anni prima a Montevideo. Il primo fu Giorgio dell’ambasciata italiana che mi aveva accolto al mio arrivo; poi conoscemmo Mati, la sua eterna fidanzata; c’era Roberto, l’italiano che lavorava per un’industria calzaturiera; Amid, l’amico libanese che produceva ed esportava semi di cardamomo (il Guatemala ne è il maggior produttore mondiale); Sergio, il fratello della mia amica Console generale del Guatemala a Montevideo, lui era un allevatore di bestiame che commerciava in seme congelato di tori riproduttori; Susy ed Edgar, poi, gli amici colleghi dell’Associazione dei Diplomatici della quale facevo parte, le amiche dell’Associazione Donne brasiliane che mia moglie Josi frequentava assiduamente, e tanti altri.

    Si invitava e si era spesso invitati per ogni occasione: allegri brunch domenicali, animate feste notturne, cene conviviali e riflessivi tè pomeridiani. La mia casa era particolarmente accogliente, era al bordo di un bel bosco ed avevo un grande giardino dove vivevano anche un’oca, le papere ed Isabella, detta Isa la dolce.

    Era un bellissimo barbagianni che stazionava sul suo trespolo e quando non dormiva osservava ogni cosa con la massima attenzione, controllando ogni angolo a 360 gradi senza muovere il corpo, solo girando la testa con una mobilità del collo eccezionale. Sempre col corpo fermo, il suo capo a volte danzava eseguendo impressionanti coreografie che sembravano un segreto linguaggio non verbale dettato dalle musiche delle sfere e dai gorgoglii del suo stomaco insaziabile. Lei attirava subito l’attenzione dei miei ospiti che però venivano prima avvertiti di non avvicinare le mani perché Isa poteva essere molto pericolosa (come tutti i rapaci il pericolo non sta nel becco, come a volte qualcuno crede, bensì nei poderosi affilatissimi artigli, molto più lunghi, acuminati e micidiali di quelli d’un gatto. Il rapace li può stringere a pugno proprio come noi facciamo con le dita, le unghie entrano nella carne come nel burro e lui non molla più la presa, come essere catturati inesorabilmente dalle proprie paure senza possibilità di scampo o di redenzione, solo molto, molto più doloroso...).

    Il momento più impressionante era il suo pasto giornaliero: per la loro salute è bene che i rapaci mangino il più frequentemente possibile animali vivi, di piuma o di

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