La cucina dell'arzdora: Dal lunedì al sabato
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Anteprima del libro
La cucina dell'arzdora - Grazia Bravetti Magnoni
srl
INTRODUZIONE
Sulla cucina e sulla stessa alimentazione dei contadini romagnoli le fonti storiche sono quanto mai aride e a chi vi si accosti non riservano che poche gocce. Don Girolamo Cirelli, autore dell’«operetta ridicolosa» Il villano smascherato (1694), tramanda qualche scarna notizia intorno al pranzo di nozze, dove -osserva - conta «la quantità, e non la qualità della roba». I cibi che vi si servono - aggiunge - «sono grossolani: carne di bue, vitello e pollami, ma il tutto poco cotto e poco stagionato», ossia non sottoposto alle lunghe frollature e alle interminabili cotture caratteristiche della cucina delle classi alte: ciò che per il Cirelli è una prova schiacciante della barbarie culinaria dei contadini. Così com’è indizio di inaudita rozzezza di costumi il bere il brodo dal piatto, «come fanno i porci», e l’appoggiarsi con i gomiti sulla tavola, «come gli animali alla mangiatoia».
L’altra occasione di pranzo collettivo a cui il Cirelli fa cenno sono le cosiddette «nozze del porco», celebrate nel giorno dell’uccisione del maiale: carne di cui i contadini «sono più che d’ogn’altro ingordi». Nella circostanza è uso cucinare, oltre alla carne suina, «carne di manzo» e «fare i tagliavolini per menestra».
Altrettanto parco di informazioni è Giovanni Antonio Battarra nel famoso «Dialogo XXX e ultimo» della Pratica agraria (1782). Del pranzo di nozze Battarra si limita a citare i «ciambellotti» e la «crema, che qui dicono casadello», offerti dai parenti degli sposi. Un paniere di «ciambelloni» viene donato anche alle puerpere il giorno del battesimo del neonato. Canonica della cena che segue le esequie è invece la «minestra di ceci».
Dell’inchiesta promossa nel 1811 per aver lumi «sulle diverse costumanze, ad anche pregiudizi e superstizioni che si mantengono in campagna» e nota come «napoleonica», si conservano alcune schede su paesi e frazioni del forlivese, quasi tutte di mano di sacerdoti, e il rapporto finale del prefetto di Forlì, il milanese Leopoldo Staurenghi, redatto sulla scorta delle informazioni fornite da insegnanti e podestà.
Sia le schede che il rapporto ci regalano qualche sparsa notizia sui pranzi imbanditi per le feste solenni del ciclo dell’anno e di quello della vita: sul «pranzo del puerperio», che - riferisce il parroco Romiti - è «piuttosto mediocre [e] si chiama impajulata»: vi si servono «un pajo di capponi, pane goloso, ova, formaggio» e, regalato dalla madre della puerpera, «un grosso panniere di bracciatelli fatti col zucchero, ova, e ben lavorati»; sul pranzo di battesimo, otto giorni dopo il parto, in cui «se fu partorito un maschio, mangiano i maccheroni, se una femmina, le lasagne», con trasparente simbologia sessuale; sul pranzo di nozze, «splendido e squisito», per il quale i contadini - moraleggia l’arciprete Vanni - «han Cuore di spendere una gran parte della Rendita del Loro coltivato Podere»; sulla cena funebre, consistente «in minestra ed un lesso che ordinariamente è di carne grossa; la minestra indispensabilmente dev’essere di munfrigoli»; infine sul pranzo di Natale, giorno in cui «presso ogni famiglia si fa una minestra di pasta col ripieno di ricotta, che chiamasi di cappelletti»: «L’avidità di tale minestra è così generale,» continua il malizioso prefetto di Forlì «che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500; questo costume produce ogni anno la morte di qualche individuo per forti indigestioni».
Il forlivese Michele Placucci, che nel 1818 (attingendo a man salva, e senza mai citare la fonte, dall’inchiesta napoleonica) dà alle stampe una memoria sugli Usi e pregiudizi dei contadini della Romagna, ci tramanda scheletrici sunti delle ricette. La minestra del «pranzo del puerperio» (chiamata «Impajolata, o Zuppa, ovvero Tardura») è fatta con «uova, formaggio e pane grattato». Dei «così detti Manfrigoli» della «cena mortuaria» («specie di pasta casalinga, per lo più di uova e di farina ridotta in minuti granellini» spiega Antonio Mattioli nel suo Vocabolario romagnolo-italiano, 1879) è fatto solo il nome. Relativamente dettagliata è invece la ricetta dei cappelletti natalizi, «minestra composta di ricotta, formaggio, uova, aromi; il tutto avvolto in pasta, detta spoglia da lasagne».
Sia l’inchiesta napoleonica che il trattatello del Placucci si limitano a censire questi e pochi altri cibi della festa (gnocchi, maccheroni, lasagne; salsiccia, salame, prosciutto, coppa; carne lessa, carne fritta, galletti in umido, pollo arrosto; ciambelle). Lo stesso farà Antonio Sassi nel 1913, in una nota su Come mangiano i Romagnoli pubblicata su «Il Plaustro». Oltre ai cappelletti e alla tardura citati dal Placucci, il Sassi menzionerà i passatelli, le «pappardelle asciutte condite in perfetta regola», il pollo arrosto e l’ormai mitica piada.
Quel poco che conosciamo, insomma, della cucina in uso nelle campagne romagnole si restringe ai piatti festivi. Del cibo di tutti i giorni, invece, niente sappiamo, o quasi, e non tanto per reticenza della fonti, è da credere, quanto per insussistenza dell’oggetto. Alla fine del Seicento Girolamo Cirelli dichiara, con brutale franchezza, che, «toltone il tempo di nozze, mangiano i villani come porci» (e non allude certo alla quantità, bensì alla qualità del vitto). Come definire altrimenti, del resto, un regime alimentare dove «il primo e principale rifugio di tutto il popolo della campagna» è il pane di «tritello», cioè di pretta crusca rimacinata? Lo testimonia nel 1801 il medico Michele Rosa. Le grandi inchieste sociali dell’Ottocento - dall’Inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola, meglio nota come Inchiesta Jacini, degli anni 1876-1881 all’indagine condotta dal Ministero d’Agricoltura, Industria e Commercio nel biennio 1878-1879, alle inchieste sanitarie del 1885 e del 1899 -riconfermeranno l’ingrata e precarissima alimentazione delle campagne.
Nell’Ottocento, tuttavia, a seguito di un mutamento climatico favorevole e grazie a quelli che Braudel ha chiamato «gli intrusi del Nuovo Mondo», mais e patate innanzi tutto, si diradano e infine hanno termine le fiere carestie che, a partire dal Cinquecento, si erano susseguite con la tragica, impassibile regolarità dei fenomeni naturali. Le ultime carestie sono quelle degli anni 1815-1817 e 1846-1847. Non a torto si è parlato di «rivoluzione alimentare» e la si è messa in rapporto con l’esplosione demografica del XIX secolo, arco di tempo in cui la popolazione italiana quasi raddoppia, passando da 18 a oltre 32 milioni di abitanti.
Dalla metà dell’Ottocento in poi i contadini romagnoli non muoiono più di fame (semmai di pellagra), e questo è già un progresso. Sulla quantità e qualità del cibo feriale le citate inchieste sociali fanno giustizia del radicato mito di una cucina «semplice» e «sana» trasmessa di madre in figlia dalla notte dei tempi e giunta intatta, o quasi, fino ad anni recenti. Propriamente parlando, non si tratta neppure di cucina, ma di un’ingrata, precarissima arte di arrangiarsi.
Fino agli anni Cinquanta di questo secolo il miglioramento dell’alimentazione sarà sì costante, ma tanto lento che gli interessati quasi stenteranno a percepirlo. Grazia Bravetti Magnoni ha ragione ad insospettirsi quando i vecchi contadini le riferiscono che un tempo, nelle campagne, si mangiavano sempre e solo fagioli. Con Liliano Faenza, nel 1959, erano stati altrettanto perentori: «La minestra col brodo e la carne si vedevano solo la domenica a mezzogiorno, perché la sera era ancora piada e scarpegni. Gli altri giorni erano fagioli, polenta e baccalà». Scavando più a fondo, in effetti, si rinviene una cucina, se non più ricca, almeno più