Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia
I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia
I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia
E-book309 pagine3 ore

I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia

Valutazione: 4 su 5 stelle

4/5

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Perché Aldo Moro doveva morire?

La storia vera

Prefazione di Antonio Esposito

Documenti inediti

Trentacinque anni non sono bastati per far luce sul caso Moro.

Inchieste giudiziarie e parlamentari, saggi, articoli e film non sono serviti a illuminare tutte le zone d’ombra del delitto che – forse più di ogni altro nella nostra storia repubblicana – ha colpito la coscienza del Paese e incrinato il rapporto tra società civile e mondo politico. Ecco perché vale ancora la pena di analizzare la dinamica dei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro, nel tentativo finalmente di dare delle risposte diverse dalla versione ufficiale dei fatti.

Grazie a nuove testimonianze esclusive e documenti inediti, Ferdinando Imposimato – giudice istruttore del caso Moro, su cui non ha mai smesso di indagare – ricostruisce l’agghiacciante scenario del sequestro, con rivelazioni bomba che lasceranno i lettori senza fiato. Perché la verità, finalmente, abbia nomi e cognomi.

Hanno scritto di La repubblica delle stragi impunite:

«Le verità d’Italia oltre i tribunali: il saggio di Ferdinando Imposimato, un nobile tributo alla memoria.»

Antonio Ferrari, Corriere della sera

«Non si limita a elencare i fatti di sangue che hanno sconvolto il nostro Paese e riesce invece a offrire una visione d’insieme.»

Silvana Mazzocchi, la Repubblica

«Occupa un posto unico in quel tipo di letteratura che da tempo ormai ripropone come romanzo la narrazione dei fatti veri. Qui l’alterazione manca del tutto, il verbale è integro, le frasi vere. Eppure la narrazione tiene col fiato sospeso.»

Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano

Tra i temi trattati nel libro:

* La pista americana contro Moro

* Il ruolo della RAF e della STASI

* La pista sovietica

* Chi sapeva del sequestro?

* I giorni di Giuda

* I piani Victor e Mike

* Dalla Chiesa e Santillo tentarono di salvare Moro

* Il ruolo di Gladio

«Con il solito coraggio, e con la consueta passione documentale, Ferdinando Imposimato ha ora deciso di rileggere i troppi disastri della cosiddetta strategia della tensione.»

Il Sole 24 ore

Ferdinando Imposimato

Nato nel 1936, avvocato penalista, magistrato, è Presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione. È stato giudice istruttore in alcuni dei più importanti casi di cronaca degli ultimi anni, tra cui il rapimento di Aldo Moro, l’omicidio di Vittorio Bachelet, l’attentato a Giovanni Paolo II. Grand’ufficiale dell’ordine al merito della Repubblica italiana, ha ricevuto diverse onorificenze in patria e all’estero per il suo impegno civile. È stato anche senatore, prima nelle liste del PDS e poi del PD. È autore di numerosi saggi, tra cui ricordiamo Vaticano. Un affare di Stato e, con Sandro Provvisionato, Doveva morire e Attentato al Papa. Con la Newton Compton ha pubblicato nel 2012 La Repubblica delle stragi impunite. Per saperne di più potete visitare la sua pagina Facebook.
LinguaItaliano
Data di uscita30 apr 2013
ISBN9788854153271
I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia

Correlato a I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Storia per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia

Valutazione: 3.75 su 5 stelle
4/5

6 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I 55 giorni che hanno cambiato l'Italia - Ferdinando Imposimato

    L’antefatto

    Il tragico destino di Aldo Moro non inizia il 16 marzo 1978, con il sequestro di via Fani, ma quindici anni prima, con l’arrivo in Italia, nel luglio 1963, di John Fitzgerald Kennedy. Il presidente americano era un convinto sostenitore del leader democristiano e della sua politica di dialogo coi socialcomunisti contro il parere dei conservatori statunitensi e dei grandi petrolieri. Questo sguardo comune ai due statisti verso le nuove frontiere dell’occidente li avrebbe condotti a divenire bersagli degli stessi nemici, tra America e Italia, ostili a qualunque dialogo con le forze progressiste.

    La mia indagine incrociata sui due maggiori omicidi politici del XX secolo nacque per caso nel corso dell’istruttoria sul caso Moro a seguito della scoperta del profondo legame che univa i due uomini. Pur essendo, come cattolici, convinti anticomunisti, entrambi non accettavano la demonizzazione del comunismo, riconoscendo in esso una grande rivoluzione sociale che aveva coinvolto, con nuove speranze di riscatto e di eguaglianza, miliardi di persone.

    Il primo approccio, a livello internazionale, era scaturito dalla scoperta della pista bulgara nel 1981 e delle sue molteplici trame in Italia e in Europa. La cosiddetta bulgarian connection aveva destato un enorme interesse della stampa internazionale, della CIA e dei servizi segreti dei vari Paesi occidentali. Avevo accertato che il capo dell’intelligence di Sofia in Italia, Ivan Tomov Dontchev, diplomatico bulgaro, aveva progettato un attentato contro il capo di Solidarność Lech Wałęsa, in visita a Roma. Questa indagine, iniziata nel bel mezzo della Guerra Fredda, aveva attirato l’attenzione del congresso americano e mi era valsa un contatto con un uomo della CIA nella capitale. Indagando tra mille ostacoli sulla tragedia di Aldo Moro, dopo due anni di vani tentativi per penetrare nel muro di silenzio delle BR, l’istruttoria aveva subìto una svolta importante con le rivelazioni di alcuni terroristi, arrestati durante la liberazione del generale americano Lee Dozier, sequestrato dai brigatisti nel 1981 perché comandante NATO dell’Europa meridionale. Due membri del commando che avevano sequestrato il militare avevano parlato dell’esistenza di una rete di spie di Sofia a Roma, manovrate dai Servizi sovietici, che avevano allacciato rapporti con le BR per sfruttarne la capacità di attacco al sistema, attaccare papa Giovanni Paolo II e lo stesso Partito comunista italiano, che si stava sempre più allontanando dalla guida di Mosca. I bulgari, quasi tutti protetti dalla immunità diplomatica, erano interessati a sostenere le BR con armi e fondi, per uno scopo ben preciso: indurre i brigatisti a intensificare l’azione terroristica contro le basi NATO in Italia. Si stava verificando una transizione dal terrorismo a una sorta di guerra non convenzionale contro gli USA che veniva combattuta non solo sul nostro territorio ma anche in Germania, ove la RAF aveva sferrato un attacco proprio ad alcune basi americane¹³ . Ecco perché i bulgari erano anche a caccia di notizie sulle strutture NATO in Europa.

    Durante le indagini, senza che l’avessi lontanamente immaginato, venne alla luce una rete diffusa e articolata di spie che operavano a Roma, alcune delle quali annidate nei sindacati¹⁴. In quel tempo idilliaco nei rapporti con gli USA, fioccarono gli inviti all’ambasciata americana a Roma e negli Stati Uniti. Fu proprio durante un ricevimento per il giorno del Ringraziamento, organizzato dall’allora capo della diplomazia americana per celebrare anche qui da noi la loro tradizionale ricorrenza, che conobbi un giovane funzionario dell’ambasciata. Capii solo in seguito che si trattava di un uomo della CIA.

    Quella sera al party c’erano politici italiani e USA, magistrati, carabinieri, poliziotti, finanzieri, funzionari ministeriali e tutta la fauna di persone che gravitano negli ambienti della politica e delle istituzioni. L’invito nella splendida residenza dell’ambasciatore ai Parioli, Villa Taverna, con i suoi giardini verdi, i fiori, le vasche con fontane zampillanti, le siepi e i viali illuminati, fu per me l’occasione per nuove conoscenze di personaggi che lavoravano nel campo della giustizia italiana e internazionale. Era da poco tempo partito da Roma il mio amico Michael Jeweler, agente FBI, con cui avevo indagato su Michele Sindona, sotto processo negli USA per bancarotta fraudolenta e truffa, a Roma per simulato sequestro e ricatto, a Milano per l’omicidio Ambrosoli, a Palermo per traffico di droga, oltre che per riciclaggio. Michael, dopo avermi aiutato a risolvere il caso – con un’incredibile perizia tecnica che accertò la presenza delle impronte digitali di Sindona sulla scheda di imbarco dell’aereo NY-Roma – aveva fatto ritorno in patria dopo quattro anni di permanenza nella capitale.

    L’agente CIA che conobbi quella sera a Villa Taverna aveva come nome in codice Louis. Mi fu presentato da un funzionario italiano come addetto all’ufficio legale. Era basso, magro, portava gli occhiali, aveva i capelli rossicci, silenzioso e dai modi cortesi e gentili. Aveva l’aria di un perfetto gentleman, un personaggio all’apparenza insignificante. Tutto sembrava tranne che un agente della leggendaria CIA. Era un tipo molto diverso da Michael Jeweler, aperto, allegro e sorridente. Ma, come Michael, anche Louis non dubitava della mia fede anticomunista. Le BR mi minacciavano continuamente nei loro comunicati. Ed avevano già ucciso il procuratore Francesco Coco a Genova e il magistrato Riccardo Palma a Roma.

    Ogni tre o quattro giorni il misterioso yankee mi incontrava nella hall dell’Hotel Cicerone nella via omonima della capitale, a pochi passi dal mio ufficio, il bunker di piazza Adriana, dove lavoravo di fronte a Castel Sant’Angelo. Dopo qualche tempo, io e Louis, nonostante i dissensi su molte cose, diventammo amici: era entusiasta del lavoro che stavo svolgendo, e mi disse che l’allora presidente Ronald Reagan, eletto nel 1981, e il dipartimento di Stato americano erano molto interessati alle inchieste che stavo conducendo sulle BR e agli sviluppi della pista bulgara. Per il mio impegno contro le BR e i servizi dell’Est, Louis mi vedeva come difensore della democrazia in occidente, un eroe nazionale da proteggere, un combattente della lotta senza frontiere al comunismo internazionale. Da me voleva sapere tutto ciò che riguardava il terrorismo di ogni colore e matrice. E soprattutto i piani terroristi contro le basi NATO in Europa. Ma in seguito a vari incontri, un giorno Louis mi confidò: «La morte di Moro è stata un bene per l’Italia e gli Stati Uniti. Non era amato né da Kissinger, né dagli americani». E aggiunse, di fronte alle mie perplessità: «Moro, come Kennedy, dialogava troppo con i comunisti»¹⁵. Nei nostri incontri, tornammo spesso sulle aperture di Moro e Kennedy alla sinistra in Italia, e anche della nuova frontiera inaugurata dal presidente americano, ma la sua strategia per favorire una più stretta ed equilibrata relazione degli USA con la Russia era vista con ostilità negli Stati Uniti. Ricordo a tal proposito un nostro dialogo in particolare:«I russi sono pericolosi in tutto il mondo. Ci hanno portato il comunismo in casa. A Cuba. Tutta l’America Latina è diventata una polveriera, piena di odio per gli americani, gli yankees! Se fosse stato rieletto, Kennedy sarebbe stato una rovina per l’America», disse Louis.

    «Non era un comunista», replicai. «Voleva evitare un conflitto mondiale. Sarebbe stato fatale per l’intera umanità!».

    «Sì, ma non c’era bisogno di allacciare la linea diretta tra la Casa Bianca e il Cremlino, mentre i russi diffondono la rivoluzione mondiale. In Sudafrica, in Angola, in Vietnam, in Nicaragua e in tanti altri Paesi».

    «Ma non è con la Guerra Fredda che si combatte il comunismo».

    «Ma neppure con il cedimento, come volevano Moro e Kennedy. Alla fine la storia ci darà ragione!». Louis, a ben pensarci, diceva cose sensate sul pericolo comunista. La storia aveva dimostrato che il comunismo era stato una grande illusione che mascherava ingiustizie sociali e nefandezze degne del peggiore Hitler. Per combatterlo, l’America aveva fatto ricorso a tutti i mezzi, compresi gli omicidi su commissione, di alcuni capi di governo: Patrice Lumumba, uno a Fidel Castro mancato per poco, Rafael Trujillo, Ngo Dhin Diem e Renè Schneider¹⁶. L’America aveva probabilmente interesse a liberarsi di Moro. Cominciai, allora, a pensare all’ipotesi di un complotto nell’uccisione dello statista DC. I miei dubbi su una congiura si estesero, con il passare dei giorni, anche all’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Per questo chiesi a Louis di aiutarmi. Mi disse che non sapeva molto dell’affare Kennedy, ma aggiunse: «A occuparsi di quella storia sono state la magistratura di New Orleans, la polizia di Dallas, l’FBI, la CIA, la Commissione Warren e uno speciale comitato parlamentare – l’HSCA¹⁷ – che si era interessato anche dell’omicidio di Martin Luther King. […] Non sono venute fuori prove decisive per sostenere la tesi del complotto. Ma penso che J.F. Kennedy sia stato ucciso perché filocomunista. Come Moro. Ed è stato un bene che siano morti».

    Cominciai allora a leggere tutto ciò che era stato scritto e detto su Kennedy. Volevo capire quali interessi avesse intaccato.

    La catena di morti seguita all’attentato a John Fitzgerald Kennedy, come quello al fratello Robert e poi a Aldo Moro, confermava come quel primo assassinio emanasse una luce potente e duratura, mettendo in mostra piani e legami tra le varie storie. Ma, per capire, bisognava operare difficili scelte selezionando i fatti rilevanti da quelli del tutto insignificanti. La selezione non poteva fondarsi sulla autorevolezza ufficiale della fonte, bensì sull’attendibilità della persona o del documento. Anzi, spesso la fonte autorevole era quasi sempre interessata a coprire la verità perché essa stessa implicata nel fatto.

    Il problema della ricerca della verità, nelle inchieste su grandi delitti politici che attengono alla storia dell’umanità, come l’assassinio di J.F. Kennedy, l’omicidio di Aldo Moro, sta tutto qui. Nella capacità di selezionare una prova o più prove o indizi tra molti altri, partendo dal dato dell’errore possibile dei testimoni e degli imputati. Ma anche dall’esistenza e dalla possibilità di avvenimenti che vanno ben oltre la nostra capacità di immaginazione e di conoscenza. «Molte cose ci son tra cielo e terra che non conosce la tua filosofia», dice Shakespeare nell’Amleto. Ciascuna delle persone che ha assistito a un episodio drammatico come l’assassinio di Kennedy o il sequestro di Aldo Moro lo ha poi raccontato in modo del tutto diverso dagli altri. E tutti erano in assoluta buona fede. Spesso l’errore dei testimoni riguarda il riconoscimento delle persone. Sovente poi all’errore dei testimoni si aggiungono le scempiaggini degli esperti ufficiali, nominati da chi ha interesse a nascondere la verità, creandone una di comodo, difficilissima da smantellare.

    L’ambiente socio-politico in cui maturarono gli attentati a Moro e a Kennedy

    Il delitto, come qualsiasi evento, si inserisce in una serie causale: ha degli antecedenti ed è esso stesso antecedente ad altri eventi, in quanto modifica il mondo reale, sia lasciando delle tracce materiali, sia imprimendosi nella percezione delle persone o cose. Qualsiasi situazione ci troviamo a osservare, la stessa può essere letta come una serie di eventi sconnessi o come un testo. Se consideriamo i singoli fatti, spesso rischiamo di perdere di vista la realtà e la verità complessive.

    Anche nei casi Kennedy e Moro si trattava dunque di ridurre a unità la massa dei singoli elementi sconnessi. Ma il problema era quello di trovare tutti gli elementi sconnessi e collegarli tra loro. Occorreva valutarli attentamente nel loro insieme, trasformandoli da fenomeni scollegati in una «sequenza coerente». È compito dell’inquirente dare ragione di tutti gli eventi constatati e di ricostruire il teatro nel quale il reato è stato commesso, intendendosi come tale non solo la realtà materiale modificata dalla condotta delittuosa, ma anche il contesto socio-politico in cui esso è avvenuto.

    Come ho accennato, dopo le utili indicazioni di Louis ho cercato quindi di ricostruire l’ambiente dei due delitti, e in particolare il teatro in cui era maturato l’attentato di Dallas, di cui quello di Moro sembrava quasi la logica e inevitabile prosecuzione.

    Il primo luglio 1963, J.F. Kennedy, invertendo una direttiva dell’amministrazione Eisenhower e superando le obiezioni del dipartimento di Stato¹⁸, venne in Italia per benedire il progetto di Aldo Moro di un governo con i socialisti. Fu allora che i destini dei due statisti della nuova frontiera si incrociarono e divennero tragicamente inscindibili. Kennedy avrebbe pagato cara la sua sfida ai poteri massonici e conservatori, venendo ucciso un mese e mezzo dopo, il 22 novembre 1963, a Dallas, da due colpi sparati da Lee Oswald. Ed è per questo che occorre ricostruire, prima del sequestro Moro, il suo assassinio, quello del suo esecutore, e quello di Jack Rubinstein, che uccise lo stesso Lee Oswald. Nell’autunno del 1963, JFK, osannato e idolatrato all’estero, si dibatteva sul piano interno in considerevoli difficoltà. La sua battaglia per i diritti civili gli aveva attirato l’implacabile ostilità dei conservatori del Sud degli USA. Il Congresso aveva bloccato buona parte dei suoi disegni di legge e i grandi interessi economici dell’America gli rendevano la vita difficile. Mancava soltanto un anno alla rielezione del 1964. JFK intendeva chiedere il rinnovo del mandato presidenziale, anche se prima doveva preoccuparsi di risolvere alcune situazioni locali particolarmente delicate, che potevano compromettere l’esito dell’imminente consultazione: una di queste era nel Texas, uno Stato in cui Kennedy aveva ottenuto nel 1960, una maggioranza inferiore ai 50.000 voti e dove un conflitto tra il governatore John Connally, più conservatore, e il senatore Ralph Yarborough, di tendenze liberali, rischiava di spaccare in due il Partito democratico. Il viaggio di J.F. Kennedy a Dallas venne deciso il 5 giugno del 1963 all’Hotel Cortez di El Paso nel corso di una riunione alla quale parteciparono il vicepresidente Lyndon Johnson e lo stesso Connally. Costui fu il coordinatore dei festeggiamenti in occasione della visita di Kennedy in Texas¹⁹. Johnson nutriva un forte risentimento verso i fratelli Kennedy, che avevano deciso di estrometterlo dalla campagna elettorale del 1964 perché secondo loro era politicamente

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1