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Alla scoperta dei segreti perduti di Bologna
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E-book343 pagine3 ore

Alla scoperta dei segreti perduti di Bologna

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Itinerari per scoprire nuovi scorci, leggende, aneddoti e tradizioni

Vi è mai capitato di passeggiare tra le strade e i quartieri medievali di Bologna e avvertire la strana sensazione di trovarvi sospesi nel tempo, al punto di immaginare di poter incontrare le personalità del passato che si sono riunite all’ombra dei suoi portici? O, ancora, imbattervi in una lapide dall’enigmatica iscrizione e avere la curiosità di scoprirne il vero significato? Alcune dimore sono state testimoni di efferati omicidi. Altre, di storie d’amore intramontabili. Bologna è una città dalle molteplici anime, dalla personalità complessa. Come una dark lady d’altri tempi, non cede alla tentazione di svelare i propri segreti. Molte delle mete più suggestive sono celate alla vista del visitatore disattento. Dal fantasma di via Carbonara ai misteri della città sotterranea, dalle mura “della pietra di luna” al vaso rotto sulla torre degli Asinelli, da Panum resis fino a un’inattesa apologia del vino e... della cannabis: strutturato come un viaggio tra le strade di Bologna, questo volume propone un itinerario che è una sorta d’indagine nei segreti di una città che non smette mai di stupire, legando ogni luogo alla sua storia. Una storia nascosta, eppure sotto gli occhi di tutti. 

Un itinerario che svela episodi sconosciuti e luoghi dimenticati di una città che stupisce

Tra i segreti di Bologna:

• Gli affreschi… segreti
• Un palazzo che sembra una fortezza
• Il cardinale del diavolo
• Un papa… goliardo
• I misteri del quartiere ebraico
• La storia nelle porte
• L’uomo che trasportò una torre
• La scienza della tagliatella
• La pietra della… vergogna
• La statua perduta di Michelangelo
• Delitto a luci rosse
• L’università del crimine
• Due notti nella città dei morti
Barbara Baraldi
è emiliana, e come tutte le emiliane ama la buona cucina e la letteratura del mistero. Spaziando dal thriller al dark fantasy, nella sua carriera ha pubblicato nove romanzi, tra cui La bambola di cristallo e Scarlett, venduto all’estero ancora prima di uscire in Italia. I suoi libri sono tradotti in varie lingue, tra cui il tedesco e l’inglese. Insieme ai più grandi giallisti della penisola è protagonista di Italian noir, documentario prodotto dalla BBC sul giallo italiano. Con la Newton Compton ha pubblicato la guida 101 misteri di Bologna (che non saranno mai risolti).
LinguaItaliano
Data di uscita9 nov 2016
ISBN9788854199156
Alla scoperta dei segreti perduti di Bologna

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    Anteprima del libro

    Alla scoperta dei segreti perduti di Bologna - Barbara Baraldi

    382

    Della stessa autrice:

    Misteri, crimini e storie insolite di Bologna

    Pubblicato in accordo con

    Piergiorgio Nicolazzini Literary Agency (PNLA)

    Prima edizione ebook: novembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-5419-915-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    INTRODUZIONE

    Bologna: città delle torri, città dei portici, città dell’università, la più antica del mondo. Bologna la grassa, Bologna la rossa, e… Bologna, la città dei Sette Segreti.

    Come, non lo sapevate? Ebbene, nel corso del tempo l’itinerario dei Sette Segreti di Bologna è diventato un’attrazione turistica così popolare da richiamare visitatori da tutto il mondo, fino ad affermarsi come una delle proposte più frequentate dei tour guidati. Alcuni sostengono che sia stata una guida spagnola, qualche decennio fa, a inventare questa singolare definizione per una città che di segreti, come avremo modo di verificare in questo volume, ne ha molti di più. Ma che si tratti di una recente invenzione commerciale o di una tradizione che affonda le sue radici nel passato poco importa: i Sette Segreti di Bologna sono ormai consolidati come il primo passo per approfondire la conoscenza di una città ricca di fascino, di storia, di suggestioni.

    Perché allora non lasciarci condurre alla scoperta degli aspetti meno conosciuti del capoluogo emiliano, usando come filo conduttore proprio l’itinerario tracciato dai Sette Segreti? Da ognuno di essi scaturiranno innumerevoli connessioni, volte a illuminare gli aspetti più oscuri di una città che non smette mai di stupire.

    IL LUOGO IN CUI OGNI CONFESSIONE RESTA SEGRETA

    Bologna è bella. Gl’italiani non ammirano, quanto merita, la bellezza di Bologna: ardita, fantastica, formosa, plastica, nella sua architettura, trecentistica e quattrocentistica, di terra cotta, con la leggiadria delle logge, dei veroni, delle bifore, delle cornici. Che incanto doveva essere tutta rossa e dipinta nel Cinquecento!

    Giosue Carducci

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    Le due torri di Bologna, uno dei più noti simboli della città, tratta da La Patria di G. Strafforello.

    IL VOLTONE DEL PODESTÀ

    Iniziamo il viaggio dal luogo che nei secoli si è affermato come il centro della vita sociale e delle attività commerciali cittadine: piazza Maggiore, il cuore di Bologna, intorno al quale sono radunati gli edifici principali della città medievale. La vista è da togliere il fiato, scenografica al punto da riempire i sensi. Da qui si possono ammirare palazzo dei Banchi, palazzo dei Notai e palazzo d’Accursio, e incontrare con lo sguardo uno dei simboli più caratteristici della città: la fontana del Nettuno. A chiudere la piazza sul lato nord incontriamo il palazzo del Podestà, sul quale, almeno per il momento, focalizzeremo la nostra attenzione. Sostanzialmente, si tratta del più antico edificio pubblico di Bologna, tanto da essere comunemente chiamato palatium vetus, ossia palazzo vecchio. Costruito come sede per il governo della città, formato all’epoca dal podestà e dai suoi funzionari, è proprio intorno a questo palazzo che, nel lontano 1200, fu progettata l’intera piazza.

    Come era abitudine a quell’epoca, il Comune espropriò torri, chiese e abitazioni per fare spazio a quella che sarebbe stata una delle prime piazze (se non la prima in assoluto) realizzate dopo la caduta dell’Impero romano. Le piazze di Firenze e Siena, infatti, vennero costruite qualche decennio dopo. Nel caso specifico di Bologna, si rispose alla necessità di creare un luogo da adibire al mercato cittadino. È proprio da questo momento in poi che si afferma nuovamente il concetto di piazza come luogo pubblico di incontro e di aggregazione, un po’ come avveniva con i fori al tempo dei romani.

    Va precisato che l’attuale facciata del palazzo del Podestà non è quella originale: a metà del 1400, infatti, Giovanni II Bentivoglio la fece ricostruire in stile rinascimentale, donandole l’aspetto che conosciamo oggi. Parleremo in seguito del principe di Bologna, come è stato definito il Bentivoglio, così come avremo modo di approfondire la figura di colui che fu incaricato di progettare il restauro: il geniale Aristotele Fioravanti, ingegnere dallo straordinario talento le cui imprese sono tuttora argomento di studio.

    La struttura del palazzo del Podestà è rimasta invariata dopo l’intervento, che ha mantenuto l’assetto del palazzo come complesso architettonico attraversato da due strade che si incrociano sotto una volta a crociera, chiamata il Voltone del Podestà, sopra la quale svetta la cosiddetta torre dell’Arengo, dove è collocata una campana, che in passato serviva da richiamo per il popolo in caso di eventi straordinari, come un’assemblea o la chiamata alle armi. Va precisato che la ristrutturazione è rimasta comunque incompiuta per la cacciata dei Bentivoglio dalla città a seguito di una rivolta popolare: la facciata del palazzo è quindi priva di cornicione e di merli.

    Il Voltone del Podestà è sostenuto da quattro pilastri, sor­montati dalle statue dei protettori di Bologna, san Petronio, san Procolo, san Domenico e san Francesco, realizzate in terracotta da Alfonso Lombardi e posizionate nel 1525.

    È proprio all’ombra del Voltone che ci soffermiamo per raccontare il primo dei Sette Segreti di Bologna.

    Il Voltone, infatti, è in grado di trasmettere i suoni da un capo all’altro: posizionandosi in uno degli angoli, è possibile udire ciò che viene anche solo sussurrato all’angolo opposto. Si tratta di una specie di… telefono senza fili naturale, insomma. Secondo una leggenda, questa proprietà veniva sfruttata durante il Medioevo per confessare i lebbrosi: in questo modo i monaci potevano mantenere la distanza per non esporsi al rischio del contagio.

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    Palazzo del Podestà in un’incisione di fine Ottocento.

    Non sappiamo quanto ci sia di vero in questa diceria, quello che è certo è che il Voltone del Podestà è noto alle cronache anche per un altro motivo: è qui che venivano impiccati i condannati a morte, in modo che fossero ben visibili dalla piazza. Alzando lo sguardo al braccio del Voltone rivolto verso la piazza, è ancora possibile vedere due delle forche alle quali venivano fissate le corde.

    DEI DELITTI E DELLE PENE

    Per noi cittadini degli anni Duemila, figli del progresso scientifico, abituati a ogni genere di comfort, capire come doveva essere la vita di un individuo nei secoli passati richiede una certa dose di immaginazione. Nel Medioevo anche gli abitanti di una città come Bologna, progredita sotto molti punti di vista, avevano abitudini che possono risultare persino sconcertanti. Un esempio? Lo spettacolo delle condanne a morte. Non era raro, infatti, uscire di casa e finire per imbattersi in una esecuzione pubblica.

    Come narrato nei racconti storici dell’Ottocento estratti dall’archivio criminale, a Bologna c’erano varie località tristemente conosciute per ospitare le esecuzioni. Agli accusati di tradimento, ad esempio, era riservata un’area nei pressi del ponte di Reno, dove costoro venivano stretti per un piede, proprio come raffigurato nella carta dei tarocchi dell’Appeso, e lì lasciati morire. Con questa pratica ci poteva volere anche molto tempo per spirare, e il sangue che confluiva alla testa lasciava il condannato cosciente fino alla fine.

    Il principale patibolo cittadino, tuttavia, dal Duecento all’Ottocento fu proprio piazza Maggiore, all’epoca conosciuta come piazza del Mercato. Da qui era possibile assistere alle condanne a morte proprio come se si trattasse di uno spettacolo. Uno spettacolo crudele, le cui testimonianze ci giungono dalle cronache cittadine. A partire dal Seicento, infatti, gli atti del podestà stabilirono che le esecuzioni fossero documentate con un dipinto. Grazie a queste raffigurazioni, accompagnate dalle descrizioni dei cronisti, sappiamo ad esempio che tal Junio da Parma, di professione calzolaio, fu condannato per aver abusato della figlia. Fu quindi «vestito di una pelle d’asino e trascinato a coda di cavallo fino al Mercato ed ivi appiccato, poi squartato e finalmente arso sperdendone le ceneri al vento»¹.

    Ci furono periodi in cui la frequenza delle esecuzioni capitali era così alta che, nel 1445, non essendovi più abbastanza forche, il magistrato ordinò che gli impiccati venissero appesi direttamente anche alla ringhiera del palazzo del Podestà. Da qui nacque una leggenda: si dice che Lazzarina, moglie del boia che su quella ringhiera eseguiva le condanne, impietosita, si premurasse di abbellirla con fiori e piante. Finire nel giardino della Lazzarina, da quel momento in poi, significò essere condannati a morte.

    Merita un approfondimento il tema della giustizia nella Bologna medievale. Commettere un reato, all’epoca, significava il più delle volte andare incontro a pene severissime. Dalla caduta dell’Impero romano, infatti, si erano affermate nella penisola delle consuetudini di origine barbarica e i barbari, si sa, quando si trattava di giustizia non andavano particolarmente per il sottile.

    La notifica di un reato avveniva tramite un messaggero comunale il quale, recatosi a casa dell’accusato, dopo aver squillato la tromba annunciava a gran voce il mandato di comparizione presso la magistratura. Nel caso degli studenti, la comunicazione sarebbe avvenuta in un’aula in cui erano stati preventivamente riuniti gli altri studenti e i professori.

    Per giustificare un processo a carico di qualcuno non erano necessarie prove particolari, ma era sufficiente che la magistratura venisse in qualche modo a conoscenza del reato. Una delle possibilità era che pervenisse una denuncia entro un mese dal fatto. In questo caso, naturalmente, l’eventualità che si trattasse di una semplice delazione era concreta.

    La durata di un processo era in genere meno di sei mesi, e a occuparsene erano i giudici della curia maleficiorum, con sede nel palazzo del Podestà. La fase iniziale era chiamata Inquisizione – e questo riguardava sia i reati di natura religiosa che non –, che consisteva in un’inchiesta al fine di raccogliere prove e testimoni. La prova più importante era sempre… la confessione, e per estorcerla la magistratura non esitava a ricorrere alla tortura, ma solo per i crimini più gravi come l’omicidio o i reati contro la comunità. Era considerato molto grave, per esempio, lasciare incustodite le porte d’accesso alla città, facilitare in qualunque modo l’ingresso di forestieri ostili, o cospirare contro le istituzioni. Erano questi i casi in cui la pena era generalmente la morte. Ma attenzione: come vedremo tra poco, c’era modo e modo per infliggere la pena capitale, a seconda della natura del reato. Anche nel caso di furto non si andava tanto per il sottile, dato che i ladri erano così odiati che era permesso seviziare il colpevole da parte delle sue vittime.

    L’interrogatorio dell’imputato avveniva alla presenza dei magistrati, di sei membri del Consiglio degli Anziani (l’organismo preposto al governo della città, che durante il dominio del papato era affiancato – e spesso esautorato – dal Legato pontificio), di quattro ufficiali della Guardia comunale e di un notaio, il cui compito era redigere e autenticare il documento di confessione. In questa fase l’applicazione della tortura era considerata ut reperiatur veritas, ovvero finalizzata alla ricerca della verità. Si trattava, in sostanza, di semplice… ordinaria amministrazione. Erano esentati dalle sevizie corporali, tuttavia, i minori di diciassette anni e le persone che avevano superato i settanta.

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    Una veduta settecentesca di Piazza Maggiore; sulla sinistra il palazzo del Podestà.

    Il sistema più comune era il supplizio della corda, che consisteva nel sollevare l’imputato tramite una fune a cui erano legati i polsi, per poi lasciarlo cadere di colpo, col risultato pressoché inevitabile di provocare la slogatura degli arti superiori.

    Prima di stabilire la pena, venivano ascoltati i testimoni, e ovviamente era sufficiente avere fama di malfattori per essere giudicati colpevoli, e a tal scopo erano avallate anche le… dicerie, i pettegolezzi insomma. Vigeva infatti la regola per cui qualcuno poteva essere considerato reo per veritatem vel famam publicam, ovvero se era comunemente riconosciuto come tale.

    Nella maggioranza dei casi la condanna risultava nel pagamento di una sanzione pecuniaria, che si inaspriva nel caso il condannato si rifiutasse (o non fosse in grado) di provvedere entro il tempo prefissato (in genere una decina di giorni). Attenzione, perché per un condannato a una pena pecuniaria, a seconda della somma dovuta e non pagata entro i termini prestabiliti, c’era una sorta di tariffario, in cui a ogni somma corrispondeva una differente punizione. Tanto per cominciare, la somma poteva essere raddoppiata. Era poi prevista la fustigazione in pubblico e sulla nuda carne, il taglio di un orecchio, fino al taglio di un piede per le somme più alte!

    A quell’epoca era possibile essere banditi dalla città: in questo caso il reo doveva abbandonarla entro l’alba del giorno successivo alla sentenza. Era questo il caso, per esempio, di coloro che venivano sorpresi ad alterare documenti del Comune o coloro che prendevano le difese dei traditori. Altre pene cui si poteva andare incontro erano il trascinamento per le strade legati a un cavallo per i rivoltosi e l’amputazione della mano destra per gli spergiuri.

    Poco sopra abbiamo introdotto il tema della pena capitale nella Bologna medievale. Veniva in genere applicata per i cosiddetti crimini enormi e, a seconda della natura del reato, prevedeva modalità diverse. Era questo il caso dei crimini di natura politica e le pratiche religiose in sospetto di eresia, oltre che, naturalmente, gli omicidi. Ma attenzione: solo quelli che non rientravano in una logica di vendetta – la quale era piuttosto tollerata, persino regolamentata, dalla giurisprudenza dell’epoca. Erano condannati alla pena capitale anche i colpevoli di rapina o di estorsione e i ladri recidivi, così come coloro che avevano appiccato un incendio, i falsari e chi si era macchiato di sodomia con le aggravanti di rapimento e violenza.

    Le modalità erano in genere la decapitazione, l’impiccagione o il rogo, seguendo un criterio quasi di contrappasso in relazione al crimine commesso. La decapitazione era considerata la forma più nobile di esecuzione, dato che coinvolgeva l’uso di una lama che richiamava l’ambito cavalleresco. Era in genere riservata ai colpevoli di omicidio o di crimini contro le istituzioni.

    A Bologna, le decapitazioni venivano effettuato fuori dalle mura, nella zona della Montagnola (un tempo fuori porta), che sorge proprio sopra un antico cimitero di condannati a morte.

    Diversa la valenza simbolica dell’impiccagione, considerata degradante per il condannato poiché il cadavere rimaneva esposto al pubblico. Finiva, inevitabilmente, per coinvolgere il più delle volte le persone di estrazione modesta, i cui reati erano in genere il furto e la rapina. Non mancano esempi di colpevoli di reati che prevedevano la decapitazione che sono finiti impiccati proprio a causa della loro bassa estrazione sociale.

    Per quanto riguarda il rogo, era ritenuto purificatore nel caso di reati come l’eresia, la stregoneria o la sodomia, che si credevano in grado di suscitare l’ira divina, ma veniva applicato anche ai colpevoli di incendio (per analogia con il reato) e ai falsari, ai quali venivano anche distrutte le proprietà immobiliari.

    Da recenti analisi degli atti giudiziari medievali emerge tuttavia un dato sorprendente: di tutte le condanne emesse, solo una frazione (pari a circa un quarto) veniva effettivamente eseguita. Il motivo? Il più delle volte l’imputato riusciva a darsi alla fuga prima del processo, ma c’era anche chi riusciva a ottenere una riduzione della pena o negoziare una conversione – a volte, riusciva persino a beneficiare di un’amnistia. A finire effettivamente sulla forca, nella maggioranza dei casi, erano pertanto i nemici politici, gli emarginati o gli stranieri.

    Queste considerazioni suggeriscono come l’applicazione della pena capitale, nell’età comunale e successivamente in quella signorile, avesse un carattere prevalentemente ammonitorio per la popolazione, e fosse principalmente usata come strumento di consolidamento del potere.

    Come nota conclusiva, si menziona che, a partire dalla seconda metà del XIV secolo, iniziarono a sorgere confraternite che si dedicavano al conforto dei condannati a morte, allo scopo di permettere una buona morte (ars bene morendi) e persino… difendere il cadavere del condannato, concedendogli la sepoltura che le consuetudini dell’epoca gli negavano. Una di queste era la Confraternita della Morte, e avremo modo di riparlarne. La loro opera di assistenza iniziava con la preparazione spirituale del condannato, continuava con l’accompagnamento al patibolo e terminava con la sepoltura del corpo.

    1 Barbara Baraldi, Misteri, crimini e storie insolite di Bologna, Newton Compton, Roma 2013.

    UGUALI, EPPURE DIVERSE

    Sotto le volte del portico del Podestà, sovrastate da una loggia e ornate da eleganti fasce di bugnato, un tempo si radunavano i mercanti, gli artigiani, e persino i notai, prima della costruzione del palazzo in cui esercitare la loro professione.

    Una particolarità che caratterizza il portico sono i rosoni che ornano il bugnato dei pilastri, tante piccole formelle in arenaria, retaggio del lavoro di ristrutturazione voluto da Giovanni II Bentivoglio.

    Il loro numero risulta… misterioso: c’è chi sostiene che siano tremila, mentre secondo altri addirittura dodicimila. Un articolo apparso nel 1927 su un fascicolo di una rivista del Comune di Bologna afferma che le formelle fossero circa millecinquecento. A un’occhiata disattenta sembrano raffigurare ori e rose del tutto simili, ma in realtà sono l’una diversa dall’altra: in alcune appaiono visi che si presume appartenessero ai mercanti del tempo. Forse si tratta di coloro che contribuirono con le loro donazioni a far erigere il porticato, o che avevano lì le loro botteghe.

    Altre raffigurano figure di animali, altre di fiori, e ce n’è una in particolare con una pannocchia di mais. Si presume che sia stata scolpita da un restauratore seicentesco, perché nel Quattrocento il mais non era ancora stato importato dalle Americhe.

    Purtroppo irrimediabilmente usurata dal tempo, una delle formelle più celebri mostrava un servitore nell’atto di trasportare re Enzo in una grande botte, una storia di cui avremo modo di riparlare. La formella in questione si trova al nono ordine del pilastro d’angolo situato a sinistra del palazzo del Podestà, in direzione dell’attuale palazzo Comunale.

    Ai primi del XX secolo, l’urbanista Lino Sighinolfi ha creduto di individuare, tra gli altri, i volti del mercante Andrea Cenni, di Nicolosia Sanuti con la faccia protesa verso una conchiglia, e del cambiavalute Tordino de’ Conti. Ma l’abito, la barba e la cravattina del Cenni, come ci fa notare Guido Zucchini nel suo libro La verità sui restauri bolognesi, riprendono piuttosto un’estetica ottocentesca, epoca in cui il porticato (e le relative formelle) fu restaurato. Lo stemma di papa Pio IX spicca sulla formella posta in uno dei rosoni, verso via Rizzoli. In un altro possiamo ammirare lo stellone d’Italia.

    Si dice che, tra tutte, soltanto due formelle siano identiche. Ed ecco la sfida: riuscirete a trovarle?

    GLI AFFRESCHI… SEGRETI

    Al piano nobile del palazzo del Podestà troviamo uno dei segreti meglio custoditi della città: il Salone del Podestà, lungo ben sessantuno metri e largo quattordici. Raramente, infatti, è permesso l’accesso, limitato a occasioni particolari come cerimonie o mostre.

    Era questa, anticamente, l’Aula di Giustizia, dove venivano celebrati i processi. Sopra le arcate del portico c’è un ballatoio, un tempo delimitato da una ringhiera: è da questa ringhiera che i funzionari del governo annunciavano le decisioni e proclamavano le sentenze, ma a volte vi venivano eseguite anche le impiccagioni, come abbiamo appena avuto modo di scoprire.

    Nel corso dei secoli, persa l’originale funzione amministrativa, il Salone è stato destinato agli utilizzi più disparati: fu teatro pubblico dal 1581 al 1767, ma ancor prima addirittura campo da pallone.

    Ebbene sì, durante il Rinascimento, il Salone ospitò gli incontri indoor dell’antesignano del calcio, ovvero il gioco del pallone,

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