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101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato
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E-book317 pagine3 ore

101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato

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Info su questo ebook

La magia di una terra attraverso i suoi personaggi e le sue leggende

Ci sono infinite storie da raccontare e infiniti modi per farlo. C’è chi racconta per evitare l’oblio, chi per denunciare, chi per divertire, chi per far sognare. Con questa molteplicità di prospettive, le 101 storie sulla Puglia raccontate da Rossano Astremo vogliono dare spazio a tutte le voci di una regione tra le più belle d’Italia, per tratteggiarne il passato, esaltare il presente e mettere in luce le speranze per il futuro. Le innumerevoli dominazioni – greci, romani, francesi, spagnoli e austriaci – le hanno dato un volto nuovo, ne hanno arricchito la storia di sfumature e peculiarità. Il ritratto che emerge è quello di una Puglia inedita e sconosciuta, fatta di uomini e donne che non hanno mai calcato i palcoscenici della Grande Storia, ma che, con le loro vite e le loro azioni, hanno lasciato un segno indelebile nel cuore di molti.

Tra le storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato:

I dolmen e i menhir di Puglia? Non solo cumuli di pietre

Perché gli abitanti di Racale si chiamano pacci

Il passaggio di san Francesco d’Assisi in Puglia

Amore tra fantasmi nel castello di Sannicandro di Bari

Papa Ciro, il brigante di Grottaglie che mise in subbuglio i Borboni

Le macare, streghe del Salento

La nostra Pearl Harbor? Nella notte dell’11 novembre 1940 a Taranto

Antonio Perrone, da studente a boss della Sacra Corona Unita

Alda Merini e Michele Pierri: un amore a Taranto

Il Foggia dei miracoli di Zdenek Zeman

Rossana Doll, ascesa e caduta di una pornodiva

I dinosauri ad Altamura: nuova luce sulla storia della Puglia

2 aprile 2006: la fine di un incubo chiamato Punta Perotti

Rossano Astremo

vive a Roma. Insegna Italiano in un Liceo Internazionale. Ha pubblicato nove libri e curato tre antologie di racconti. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita, 101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato e 101 misteri della Puglia (che non saranno mai risolti).
LinguaItaliano
Data di uscita28 lug 2015
ISBN9788854183100
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    101 storie sulla Puglia che non ti hanno mai raccontato - Rossano Astremo

       1.

    I DOLMEN E I MENHIR DI PUGLIA? NON SOLO CUMULI DI PIETRE

    In Puglia ce ne sono 102: 79 menhir e 23 dolmen, localizzati prevalentemente lungo la fascia costiera barese, il nord tarantino e nel Salento. Si tratta di costruzioni in pietra, erette per lo più nel Neolitico, che non mancano di affascinare il visitatore. Ma qual è il loro significato?

    Per ciò che concerne i menhir, megaliti monolitici che possono anche raggiungere i venti metri di altezza, le teorie più accreditate sostengono che si tratti di osservatori astronomici concepiti, a mo’ di aste delle meridiane, per registrare movimenti, tempi e fasi astrali, e verificare cicli propizi per le varie attività degli uomini.

    I menhir pugliesi sono mediamente alti tre metri. Tra questi, quelli presenti nel Salento mostrano una forma più regolare, con spigoli vivi e con facce ben squadrate. Più informi risultano essere invece i menhir della zona di Bari.

    In Puglia, come nel resto dell’Europa, la Chiesa ha spesso considerato con diffidenza queste costruzioni, emanando divieti di culto e tentando ripetutamente la cristianizzazione di questi monumenti pagani.

    Secondo lo studioso Cosimo De Giorgi, molti dei menhir presenti in Puglia sono stati distrutti nel tempo dalla civiltà contadina. In occasione del ritrovamento di un grosso numero di menhir nei pressi di Giurdignano, nel Salento, lo studioso infatti scrive: «I vecchi contadini del luogo però mi assicurarono che parecchi altri esistessero in quella contrada nella prima metà del secolo scorso, e che furono atterrati quando incominciò a farsi il dissodamento di quei terreni fino ad allora abbandonati al pascolo degli armenti».

    Il dolmen è un tipo di tomba megalitica a camera singola, costituita da uno o più lastroni orizzontali sostenuti da più lastroni verticali. Si tratta di sepolture collettive che venivano riutilizzate nel tempo: ecco perché, in alcuni dolmen, sono stati ritrovati resti umani di centinaia di individui e corredi funerari appartenenti a differenti periodi. Sepolture collettive sì, ma non per tutti. Se si considerano infatti i resti ritrovati in alcuni dolmen di grossa dimensione, si evince che probabilmente molti di essi erano riservati a un gruppo privilegiato della comunità. E il tumulo che in origine sovrastava le costruzioni non aveva soltanto la funzione di proteggere la camera funeraria, ma serviva anche a ostentare la maestosità della creazione.

    Costruzioni di un passato remoto, i menhir e i dolmen conferiscono bellezza aggiunta al già iridescente paesaggio pugliese.

    Un menhir di Porto Badisco

       2.

    LA GROTTA DELLA POESIA, DOVE SI NARRA CHE UNA PRINCIPESSA BELLISSIMA AMMALIASSE SCHIERE DI POETI

    È il 1983 l’anno in cui Cosimo Pagliara, docente di Antichità greche presso l’Università di Lecce, scopre la cosiddetta Grotta della Poesia, ambiente che si sviluppa circolarmente su una superficie di 600 metri quadri, ricco di numerose iscrizioni votive – in alcuni casi anche sovrapposte – di epoche e civiltà differenti, risalenti al periodo che va dal VIII al II secolo a.C., la cui presenza fornisce testimonianze sulla protostoria, la storia messapica, quella greca e romana.

    La Grotta della Poesia si trova a Roca Vecchia e dista da Otranto circa 20 km. Cavità scavata dal mare nel corso dei secoli, è stata prezioso rifugio per la gente del tempo, poiché la zona costiera è sempre stata teatro di numerose incursioni da parte di predoni privi di pietà. Il nome della grotta deriva da posia, un termine della lingua greca del medioevo che significa sorgente di acqua dolce, e fa riferimento a una fonte ora prosciugata, della quale tuttavia restano i segni.

    Non mancano i racconti che popolano la storia della grotta in questione. Si narra che una bellissima principessa venisse a fare il bagno nelle acque della grotta. La notizia presto si diffonde e tutti i poeti del tempo accorrono per ammirare furtivi la bella principessa, fonte d’ispirazione per le loro liriche.

    La grotta, raggiungibile più agevolmente dal mare, per secoli è stata adoperata come luogo di culto dedicato a una divinità maschile, Thaotor Audirahas, successivamente latinizzato in Tutor Adraius. Il culto della divinità è connesso a pratiche di guarigione. Una parte del rituale prevede l’incisione di figure e testi sulle pareti della grotta che, nel tempo, diviene uno smisurato archivio di testimonianze epigrafiche. Ci troviamo dinanzi a un’antica biblioteca giunta per miracolo sino ai giorni nostri che, se interamente indagata, permetterà di compiere importanti progressi nella conoscenza delle antiche culture del Mediterraneo.

    La Grotta della Poesia

       3.

    KALIMERA E TUMULO, ARSI VIVI PER AMORE

    Il contesto è quello che vede contrapporsi la città di Taranto all’assedio imposto dalle belligeranti armate romane. Siamo nel III secolo a.C., pochi decenni prima dell’alleanza che i tarantini siglarono con Pirro, il Re dell’Epiro, per opporsi alla potenza di Roma. In questo periodo si racconta che a Taranto vivesse una bellissima ragazza di nome Kalimera. Durante una mattina come tante altre, Kalimera s’affaccia dalle mura che proteggono la città, getta uno sguardo all’accampamento nemico e, così facendo, incontra quello di Tumulo, comandante dell’esercito romano. Accade l’irreparabile, quello che da generalmente definito un colpo di fulmine. E si sa che davanti a un simile scoccar di scintille poco o nulla è possibile fare. È giusto che il folle veleggiare dei sentimenti si dispieghi in mare aperto. Però qui la situazione è complicata. C’è uno scontro in atto e i due vinti da Cupido non si trovano nelle condizioni migliori per poter dare compimento al loro amore. Tentano svariate volte e in tutti i modi di incontrarsi, ma la presenza delle possenti porte e il perfetto meccanismo del sistema di sorveglianza dei tarantini impediscono a Tumulo di entrare, e a Kalimera di uscire dalla città. Una notte, però, grazie alla sua abilità nell’eludere le sentinelle, Kalimera riesce ad aprire una delle porte, permettendo a Tumulo e ai suoi uomini di entrare all’interno dell’abitato. I tarantini, nonostante quest’inspiegabile accadimento, mettono in campo tutto il loro spirito guerriero, e con una controffensiva disperata ma arcigna, portata avanti casa per casa e strada per strada, riescono a ricacciare gli invasori oltre la cinta muraria e a prendere prigionieri un gran numero di romani, tra cui lo stesso Tumulo. A questo punto si scopre il tradimento di Kalimera. L’amore per il suo Tumulo ha messo a repentaglio la sicurezza della città, e in base alle leggi allora in vigore la bellissima ragazza è condannata al rogo. Terribile, ma necessario. Una pira altissima è eretta nel centro della città e la disperata Kalimera viene issata a scontare nel peggiore dei modi la sua colpa. Quando il fuoco è acceso, ad assistere all’esecuzione c’è un impotente Tumulo, causa di simile disfatta. Le fiamme s’elevano e iniziano a lambire le vesti di Kalimera. Tumulo, con un ultimo, disperato sforzo riesce a liberarsi dalla morsa delle guardie che lo tengono immobilizzato e si scaglia sulla pira per stringere tra le braccia, anche solo per una volta, la tanto amata Kalimera. L’ultima immagine di questa storia vede i due protagonisti stretti l’uno all’altra, consumati dall’imperterrito fuoco, mentre il vento disperde le loro ceneri.

    Una storia toccante, in cui l’amore trionfa sulle rigide regole guerresche. Una storia che si tramanda di generazione in generazione per ricordare la forza furiosa dell’amore. Si racconta che, ancora oggi, in alcune zone di Taranto, di notte si odano nel vento frasi d’amore frammiste a grida di dolore e sofferenza. Sono quelle dei due protagonisti di questa triste e intensa vicenda.

       4.

    IL CAPOLAVORO TATTICO DI ANNIBALE A CANNE

    È il 2 agosto del 216 a.C. È la data da tutti ricordata per la battaglia di Canne, la più grande battaglia della seconda guerra punica, il capolavoro realizzato dal condottiero cartaginese Annibale contro l’esercito romano. Le milizie cartaginesi, scese in Italia due anni prima attraverso le Alpi, sconfiggono i romani sia nella battaglia del Ticino (novembre, 218 a.C.) che in quella della Trebbia (dicembre, 218 a.C.) e soprattutto nel cruento scontro del Trasimeno (giugno, 217 a.C.). Dopo queste nette vittorie Annibale decide di non attaccare Roma poiché il suo esercito, nonostante la grande abilità dimostrata, è fortemente indebolito. I cartaginesi si dirigono, passando attraverso le Marche, in Puglia. In questi mesi l’esercito romano rincorre Annibale e soci senza mai attaccarli frontalmente, ma dando vita a continuate azioni di guerriglia volte a logorare la resistenza dei nemici. Gli invasori giungono a Canne, un piccolo villaggio situato sulla sponda destra del fiume Ofanto, a pochi chilometri da Barletta, all’epoca abbandonato dai suoi abitanti e divenuto un presidio dei romani che utilizzano le case del luogo come magazzini per le scorte alimentari.

    L’esercito romano giunto a Canne è composto da centomila soldati, molti dei quali giovani e come tali con poca esperienza maturata sul campo di battaglia. L’esercito cartaginese è costituito da cinquantamila soldati – la metà dei romani – mentre dei trentasette elefanti dai quali tanto aiuto ha ottenuto nell’attraversamento delle Alpi due anni prima, neanche l’ombra. Sono tutti morti. L’esercito romano è guidato, come consuetudine dell’epoca, da due consoli, Lucio Emilio Paolo e Terenzio Varrone, i quali assumono il comando a giorni alterni.

    Il giorno della battaglia alla guida delle milizie c’è Terenzio Varrone, il quale, a differenzia di Lucio Emilio Paolo che non ama le azioni militari troppo aggressive, vuole presto misurarsi con l’avversario sapendo di poter contare su un numero di uomini altamente superiore.

    Varrone schiera il grande esercito romano su un fronte di due chilometri. Uno spazio esiguo. Annibale come risposta dispone una sola fila di soldati lungo tutto il fronte. Sono per lo più galli e spagnoli. Il condottiero cartaginese sa bene che i suoi uomini saranno massacrati al primo scontro con i romani. Ai lati di questo fronte esiguo Annibale dispone le fanterie cartaginesi e libiche. La cavalleria pesante, guidata dal fratello Asdrubale, viene contrapposta a sinistra a quella romana, comandata da Lucio Emilio Paolo. A destra, invece, contro Terenzio Varrone, colloca la cavalleria leggera numida, guidata da Maarbale. Annibale resta al centro. Varrone non comprende che l’idea del suo avversario di schierare un numero così limitato di avversari lungo tutto il fronte, corrisponde a un tranello. Ordina alla sua fanteria pesante di attaccare e in poco tempo travolge la schiera di galli e spagnoli, vittime sacrificali della tattica di Annibale, riuscendo appena a inserirsi nel varco aperto. Ma la cavalleria leggera romana di Lucio Emilio Paolo subisce l’attacco di Asdrubale e dei suoi uomini. Il console e la sua schiera non hanno possibilità di manovra poiché sono chiusi da un lato dal fiume Ofanto e dall’altro dalla fanteria romana che avanza dopo aver sbaragliato galli e spagnoli. La cavalleria, dunque, è presto decimata e lo stesso Lucio Emilio Paolo muore in battaglia. Subito dopo la fanteria romana viene massacrata dai fanti cartaginesi e libici disposti sui due lati. Non si profila nulla di buono per i romani. A questo punto Annibale ordina alla cavalleria leggera numida di attaccare la cavalleria pesante di Terenzio Varrone. Varrone e i suoi uomini non possono scegliere la via della ritirata a causa dell’arrivo di Asdrubale e della sua cavalleria. La manovra a tenaglia di Annibale ha la meglio: cadono tutti i comandanti dell’esercito romano, a esclusione dello stesso Terenzio Varrone, causa della disfatta. È una vera e propria carneficina. Il genio di Annibale prende il sopravvento sulla forza e l’irruenza di Varrone. Non è sufficiente schierare un numero di uomini in battaglia nettamente superiore per avere la meglio sul generale cartaginese. Dopo nove ore la battaglia ha termine. I romani perdono oltre cinquantamila uomini. Annibale ne perde solo ottomila.

    La battaglia di Canne è una delle più grandi disfatte subite dall’esercito romano nella sua storia e uno dei più fulgidi esempi di strategia militare. Ottima è la descrizione fornita da Polibio nelle sue Storie: «Quanto accadde a entrambi i contendenti e cioè ai Romani e ai Cartaginesi fu opera di un unico uomo e di un’unica persona: quella di Annibale».

       5.

    MARCO PACUVIO, IL GRANDE TRAGEDIOGRAFO AMATO DA CICERONE, NATO A BRINDISI E MORTO A TARANTO

    Anche se vai di fretta, giovane, questo sasso

    ti implora di guardarlo, e che tu legga cosa

    c’è scritto sopra. Qui riposano le ossa del poeta

    Marco Pacuvio. Non volevo che lo ignorassi. Addio.

    Queste sono le parole scelte per il suo epitaffio da Marco Pacuvio, da molti considerato come uno dei più grandi tragediografi dell’antichità. Pacuvio nasce nel 220 a.C. a Brindisi da una famiglia di origini osche, elemento, tra le altre cose, che si evince dalla lingua contaminata utilizzata nelle parti delle sue opere giunte sino a noi. Sua madre è sorella del poeta e drammaturgo Quinto Ennio, nato a Rudiae, città di quella parte della Puglia anticamente denominata Calabria, corrispondente all’attuale Salento. Dopo l’adolescenza trascorsa a Brindisi decide di trasferirsi nella ben più attiva Roma. Qui Pacuvio compone 13 fabulae cothurnatae, tragedie latine di ambientazione e d’argomento greco, di cui oltre metà relative alla guerra di Troia, Armorum iudicium, Teucer, Chryses, Hermiona, Dulorestes, Orestes, Niptra, Iliona, due al mito tebano, Antiopa e Pentheus, e poi Atalanta, Medus, Periboea. Inoltre scrive anche una fabula praetexta, tragedia latina d’ambientazione latina, intitolata Paulus, con la quale celebra le gesta del suo amico Emilio Paolo, il vincitore della decisiva battaglia di Pidna del 168 a.C. e conquistatore della Macedonia. Delle sue tragedie sono giunti fino a noi circa 400 versi, per la maggior parte attraverso le opere di Cicerone che di Pacuvio è stato un grande ammiratore. Dopo la scrittura della tragedia Paulus, Pacuvio è già anziano e decide di trascorrere gli ultimi anni della sua vita nel suo territorio di nascita. Non più Brindisi, però, perché Pacuvio abbandona Roma per Taranto. È il 135 a.C. quando a fare visita all’anziano e malato Pacuvio viene Lucio Accio, giovane tragediografo. In questa occasione, secondo la narrazione di Aulo Gellio nel Noctes Atticae, il giovane autore legge all’anziano tragediografo il testo del suo Atreus. Riportiamo l’estratto che riguarda l’incontro dei due scrittori.

    Coloro che hanno dedicato tempo e passione a studiare e a descrivere la vita e i tempi delle persone colte, hanno narrato questo aneddoto riguardante i poeti tragici Marco Pacuvio e Lucio Accio. Quando Pacuvio, già affievolito dall’età avanzata e da una malattia cronica, si ritirò da Roma a Taranto, Accio, di molto più giovane, in partenza per l’Asia, essendo arrivato in quella città, gli fece visita e, invitato cordialmente e trattenuto per parecchi giorni, lesse a Pacuvio che lo desiderava la propria tragedia intitolata Atreus. Narrano che Pacuvio affermasse che i versi di Accio erano nobili e sonanti, ma che gli sembravano un poco duri e aspri. Al che Accio: «È proprio come tu dici, ma non mi dispiace; spero però che saranno migliori i versi che ancora scriverò. Infatti accade ai talenti come ai frutti: quelli che nascono duri e aspri, poi divengono teneri e saporiti, ma quelli che nascono già teneri, molli e fin dal principio succulenti, non maturano poi, ma imputridiscono. Mi par dunque che per i prodotti dell’ingegno si debba lasciare che il tempo e l’età li facciano maturare».

    In questo brano si manifestano l’attacco velato, da parte di Lucio Accio, all’opera del suo più anziano rivale e la fiera difesa del giovane scrittore della propria opera. Una sorta di virile passaggio di consegna, poiché, dopo la morte di Pacuvio avvenuta a Taranto nel 130 a.C., Accio sarà da tutti considerato il maggior tragediografo in attività a Roma.

       6.

    L’AMORE DI PLINIO IL VECCHIO PER IL FONTE SENZA FONDO DI MANDURIA

    Cosa lega Plinio il Vecchio e Manduria, il comune in provincia di Taranto noto per la forte incidenza che ha avuto la civiltà messapica sul suo territorio e per la produzione dell’ottimo e ineguagliabile vino primitivo?

    Plinio il Vecchio, scrittore morto durante la famosa eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., dopo aver passato la giovinezza nell’esercito, lavora per molta parte della sua vita alla scrittura della Storia Naturale, un’opera enciclopedica di mole smisurata, che si sofferma analiticamente su materie quali l’astronomia, la geografia, la botanica, la medicina, l’arte e l’architettura. Mescolando esperienze personali e testimonianze di fonti antiche, Plinio offre in quest’opera – oltre a innumerevoli e preziose notizie sulle conoscenze scientifiche e letterarie del tempo – un esempio unico della vastità di interessi della cultura latina del I secolo. Nel secondo dei 37 libri della sua Storia Naturale parla anche di quello che, grazie alla citazione presente nell’opera, è da tutti noto come fonte pliniano. Non sappiamo, tuttavia, se Plinio abbia mai visto veramente la costruzione o se ne parla dopo aver ricevuto informazioni da terzi.

    Il fonte si trova oggi all’ingresso del Parco archeologico di Manduria, a breve distanza dalle possenti mura megalitiche di epoca messapica (risalenti quindi a una decina di secoli prima della nascita di Cristo) e dalla necropoli coeva. È un ambiente ipogeo di diciotto metri di diametro e di otto metri d’altezza, al quale si può accedere tramite un’ampia scala a doppia rampa. La luce giunge attraverso un’apertura quadrangolare in lastroni posta al centro della volta, individuabile all’esterno da una struttura cilindrica fatta di massi di pietra, dalla quale spunta l’albero di mandorlo che la leggenda vuole secolare e che è raffigurato anche nello stemma cittadino. Al centro della grotta è presente una vasca cinta da un muro circolare che riceve l’acqua tramite un pozzetto di forma quadrata collegato alla sorgente. I Messapi, che tanta importanza attribuiscono al fonte, prima di ogni loro battaglia, sono soliti bagnarsi con la sua acqua al fine di ottenerne protezione. Non solo, come atto di gratitudine, fondono l’oro che si sono procurati sconfiggendo il nemico e lo dispongono sull’albero che sovrasta il pozzo. Narra una leggenda che, durante una delle loro sortite, le milizie messapiche hanno trafugato dalla vicina Taranto una stupefacente chioccia dalle uova d’oro che nascondono nella caverna del fonte.

    Perché Plinio nella sua enciclopedica opera dedica spazio a questo fonte? L’autore si sofferma su un particolare: l’acqua, nonostante sia utilizzata in grande quantità dagli abitanti di Manduria, non decresce mai di livello. La spiegazione c’è e non è soprannaturale. Il fenomeno avviene perché il pavimento della caverna è posto alla stessa altezza della falda acquifera; di conseguenza l’acqua filtra diffusamente e copiosamente attraverso la roccia rendendo possibile il mantenimento costante del suo livello. Oggi come ieri, ai tempi dei Messapi o dello stesso Plinio, il fonte che porta il suo nome conserva tutto il fascino di luogo arcano e magico, assolutamente da visitare.

       7.

    ALFIO, CIRINO E FILADELFO, I FRATELLI DI VASTE MARTIRIZZATI PER LA LORO FEDE IN CRISTO

    Questa storia si può far cominciare nel 250 d.C., quando l’imperatore romano Decio emana un editto nel quale si comunica che ogni individuo dovrà effettuare un sacrificio alle divinità della religione romana. Il rifiuto di

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