Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale
La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale
La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale
E-book860 pagine12 ore

La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Come gli alleati hanno sconfitto i nazisti sull’Atlantico

La battaglia dell’Atlantico è stata cruciale nella vittoria alleata.
Se i sommergibili tedeschi avessero avuto la meglio, infatti, la compattezza della flotta anglo-americana sarebbe stata annientata, l’Inghilterra sarebbe stata attanagliata dalla fame e dalla crisi industriale e le armate alleate non avrebbero potuto far più nulla per evitare la totale conquista dell’Europa da parte delle forze naziste. Nemmeno il D-day sarebbe mai avvenuto. Partendo dai diari di bordo e dalle lettere che all’epoca si scambiarono i comandanti delle navi alleate, Jonathan Dimbleby ci offre un’attenta e avvincente ricostruzione dei fatti che getta nuova luce sull’intera vicenda bellica. Sfidando le teorie più accreditate sull’utilizzo dei servizi segreti e sulle campagne di bombardamenti ordinate da Churchill, questo libro ci racconta i retroscena delle strategie che portarono alla vittoria e i rischi che ogni giorno i soldati affrontarono in quei pericolosi mari.

Si legge come un romanzo, ma questa è storia

Lo straordinario racconto della battaglia dell’Atlantico, uno dei momenti cruciali del Novecento

Hanno scritto dei suoi libri:

«Dimbleby sceglie un taglio investigativo e narrativo per il suo libro - avvincente e ben scritto - e giustamente lontano dai dogmi degli accademici.»
The Times

«Un’analisi estremamente arguta.»
Choice
Jonathan Dimbleby
Autore, produttore e documentarista, vive a Devon (Inghilterra). Conduce la trasmissione Any Questions? su BBC Radio 4 e un programma settimanale di approfondimento politico, This Week. Nel 2008 la BBC ha mandato in onda il suo documentario Russia: A Journey to the Heart of a Land and its People, tratto dal suo omonimo saggio. Ha firmato diversi volumi, La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale è il primo pubblicato in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mar 2016
ISBN9788854191754
La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale

Correlato a La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Guerre e militari per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale - Jonathan dimbleby

    Prefazione: una vittoria storica

    Il 4 maggio 1945, con il Terzo Reich che gli si sgretolava attorno, il Führer successore di Hitler, il grande ammiraglio Karl Dönitz, inviò un messaggio ai comandanti di tutti gli U-Boot sparsi per il globo:

    Uomini degli U-Boot! Invitti e senza macchia deponete le armi dopo un’eroica battaglia senza pari. Ricordiamo con profondo rispetto i nostri camerati caduti, che hanno sugellato con la morte la loro lealtà al Führer e alla Patria. Camerati! Conservate lo spirito degli U-Boot, con cui negli anni avete combattuto con coraggio, tenacia e imperturbabilità per il bene della Patria. Lunga vita alla Germania! Il vostro grande ammiraglio.¹

    La più lunga campagna della seconda guerra mondiale e la più devastante campagna navale di tutta la storia si era finalmente conclusa: la Germania era stata sconfitta e domata. Ma sarebbe potuta facilmente andare in tutt’altro modo.

    Rispetto alla perdita di più di sessanta milioni di vite umane, il totale di morti e distruzioni nell’Atlantico durante la seconda guerra mondiale potrebbe sembrare modesto, se mai questo aggettivo si può attribuire alle morti in guerra. Sebbene non esistano cifre precise, si ritiene generalmente che nell’Atlantico siano stati affondati più di tremila mercantili in cui trovarono la morte più di trentamila marinai. Dalla parte delle potenze dell’Asse, in una macabra equivalenza, persero la vita circa ventisettemila tra ufficiali ed equipaggi – ovvero il 75 per cento di coloro che erano imbarcati sugli U-Boot della Kriegsmarine: un tasso di mortalità più alto di quello di qualsiasi altra divisione delle forze armate in entrambi gli schieramenti del conflitto tra il 1939 e il 1945².

    Quando pensiamo ai grandi combattimenti di quegli anni, di solito ci vengono in mente il bombardamento aereo di Londra, El Alamein, Anzio, Arnhem, Mosca, Leningrado, Stalingrado, Berlino, o tanti altri che possono aver coinvolto i nostri genitori o nonni. Malgrado le battaglie terrestri in Europa abbiano inferto il colpo di grazia al Terzo Reich, esse non si sarebbero mai potute combattere, né tanto meno vincere, senza la vittoria alleata nell’Atlantico. Se avessero avuto la meglio gli U-Boot tedeschi, sarebbe stata recisa l’arteria marittima tra Stati Uniti e Gran Bretagna. In mancanza di nafta per i trasporti e il riscaldamento, e senza le materie prime necessarie a fabbricare le armi, sarebbe stato impossibile proseguire la guerra contro la Germania. «Sangue, fatica, lacrime e sudore» sarebbero stati vani. Ma soprattutto, in assenza di alimenti di prima necessità – gran parte dei quali venivano importati da Africa, Asia, Sudamerica e Stati Uniti – il popolo britannico si sarebbe trovato di fronte alla prospettiva, con le parole dello storico militare John Keegan, di «un vero declino malthusiano»³. La fame avrebbe annientato la nazione. Non solo sarebbe stato fisicamente e spiritualmente impossibile «combattere sulle spiagge […] sui luoghi di sbarco […] nei campi e per le strade», ma Churchill – o, con ogni probabilità il suo successore – non avrebbe avuto altra scelta che sollecitare la pace a Hitler. È per questi motivi che Churchill scrisse: «La battaglia dell’Atlantico fu il fattore dominante durante tutta la guerra. Neanche per un attimo dimenticavamo che tutto ciò che accadeva altrove, per terra, per mare o nell’aria, dipendeva in definitiva dal suo esito, e tra le mille altre preoccupazioni, osservavamo giorno dopo giorno le sue alterne vicende con speranza o apprensione»⁴.

    Anche se gli U-Boot non fossero riusciti ad affamare la Gran Bretagna, la sola sopravvivenza non sarebbe stata sufficiente a evitare il disastro. Se i Wolfsrudel (branchi di lupi) fossero rimasti liberi di aggirarsi per l’oceano, avrebbero impedito agli eserciti alleati di attraversare l’Atlantico in numero sufficiente per unirsi agli inglesi nell’invasione dell’Europa: non ci sarebbe stato alcun D-Day. Di conseguenza, è possibilissimo che Stalin avrebbe scelto di stringere uno spregiudicato accordo con Hitler simile al patto Ribbentrop-Molotov stipulato nell’agosto del 1939. In questo caso, l’esito della seconda guerra mondiale in Europa sarebbe stato – dal punto di vista di coloro che credono nella libertà e nella democrazia – disastrosamente diverso.

    Chiunque con un briciolo di immaginazione conosce la paura del mare insita in tutti noi. I bravi marinai sono sempre all’erta. Le distanze risultano distorte e i rischi amplificati. Alla luce del crepuscolo, lattine, copertoni, bottiglie di birra – i detriti inaffondabili – attirano lo sguardo scrutatore diventando temuti pericoli. Al contrario, una luce lontana si rivela una petroliera in imminente rotta di collisione. Il collo di un cormorano o la testa di un gabbiano curioso possono essere scambiati per uno scoglio semisommerso o – tragicamente – viceversa. Tutti, tranne i più incoscienti, sanno che le delizie del mare si accompagnano sempre a una certa preoccupazione, anche quando le acque sono placide e l’aria mite. Quando la natura produce un uragano che trasforma un leggero moto ondoso in giganteschi muri d’acqua che nessuna forza umana può contrastare, qualsiasi marinaio degno di questo nome riconosce il brivido di terrore che gli scorre nel corpo e nell’anima.

    E questo in tempo di pace. Durante la battaglia dell’Atlantico, i marinai di entrambi gli schieramenti erano in tensione per ore, settimane consecutive. Il nemico era sempre vicino, si appostava all’orizzonte, si aggirava sotto le onde. Nell’aria, aerei da combattimento carichi di bombe emergevano d’improvviso dalle nubi per seminare il caos in basso. Navi e sommergibili avevano magari un aspetto minaccioso, ma gli scafi avevano un rivestimento di metallo tanto sottile che, come osservò una volta Winston Churchill riguardo a delle corazzate in azione, assomigliavano a «gusci d’uovo che si prendono reciprocamente a martellate»⁵. Gli affondamenti di norma erano piuttosto rapidi e nelle acque gelide nessuno riusciva a sopravvivere: e questo lo sapeva bene ogni marinaio.

    Gran parte dei morti in mare perdeva la vita in terribili circostanze. I fortunati morivano in fretta, colpiti da siluri o, nel caso degli equipaggi degli U-Boot, da bombe di profondità o fuoco di mitragliatrici. Altri restavano intrappolati negli scafi che affondavano o finivano avvelenati da esalazioni tossiche. Alcuni morivano per le ferite riportate su navi in cui mancavano anestetici o chirurghi o, molto spesso, entrambi; altri annegavano perché le scialuppe di salvataggio urtavano contro i relitti o perché, dopo giorni o settimane alla deriva senza cibo né acqua, soccombevano alla follia e si gettavano fuori bordo.

    Da parte alleata, i superstiti della battaglia dell’Atlantico ci hanno lasciato resoconti di prima mano delle loro fatiche, vividi come quelli di qualsiasi altro fronte bellico. Tuttavia, con la possibile eccezione di comandanti di Marina britannici come Peter Gretton, Donald Macintyre e Johnny Walker, nessuno di loro si guadagnò in vita grande fama. La loro guerra si svolgeva lontano dai taccuini dei corrispondenti o dagli obiettivi dei fotografi. Le loro esperienze passarono quindi in gran parte inosservate, per quanto lo consentivano le dichiarazioni ufficiali del tempo. Fu solo quando Nicholas Monsarrat, che aveva prestato servizio in una corvetta durante la guerra, pubblicò il suo romanzo Mare crudele nel 1951 che un più vasto pubblico fu in grado di comprendere l’inferno della guerra in mare. Nel presente volume, ho attinto ampiamente alle testimonianze scritte e orali di chi combatté nelle navi che salvarono la Gran Bretagna e sopravvisse per raccontare le sue storie.

    Al contrario, gli equipaggi degli U-Boot erano salutati al tempo come eroi del Terzo Reich. I loro più vittoriosi comandanti – cosiddetti assi come Otto Kretschmer, Erich Topp, Joachim Schepke, Günther Prien e Reinhard Hardegen – erano nomi noti in tutta la Germania, le loro audaci gesta diffuse dalla stampa popolare e sugli schermi cinematografici. Celebrati come stelle del cinema, erano insigniti delle più alte onorificenze, spesso dal Führer in persona. Poiché gli U-Boot che venivano distrutti di solito affondavano senza lasciare superstiti, ci sono pochissimi racconti su come fosse inabissarsi con un’imbarcazione colpita, ma l’estenuante combinazione di noia, euforia e terrore è stata vividamente descritta da diversi comandanti di U-Boot e da chi era ai loro ordini. La battaglia decisiva della seconda guerra mondiale attinge ugualmente a queste testimonianze di prima mano.

    Come espressione, per quanto evocativa, battaglia dell’Atlantico è per diversi aspetti fuorviante. Essa suggerisce un unico e conclusivo scontro come la sconfitta dell’Invincibile Armata nel 1588 o la distruzione della flotta francese da parte di Nelson nel 1805. Ma la prima si compì nel giro di dieci giorni mentre la seconda durò non più di qualche ora. La battaglia dell’Atlantico non solo durò dal primissimo all’ultimissimo giorno di guerra ma, lungi dall’essere un’unica battaglia, comprese centinaia di scontri su una gran varietà di fronti, alcuni dei quali durarono poche ore, altri diversi giorni. Non si trattò di una battaglia, ma di una campagna.

    Inoltre, fu una campagna combattuta non solo nella bolla strategica di un unico oceano ma anche lungo le rotte marittime che collegavano e al contempo separavano le nazioni combattenti tramite una rete di arterie. Gli ufficiali di rotta potevano sì tracciare i reticoli di latitudine e longitudine con cui i cartografi hanno distinto l’oceano Atlantico dall’Indiano, dal Pacifico e dall’Artico, ma dal punto di vista strategico e militare essi erano strettamente intrecciati, come le acque che si rimescolano e scorrono le une nelle altre. Trattare la battaglia dell’Atlantico separatamente dalle battaglie navali combattute in queste acque (come anche nei Caraibi, nel Mediterraneo e nel Mare del Nord) è come presumere che la carotide sia l’unico mezzo per pompare sangue nel corpo. Certo, era cruciale, ma le rotte capillari, lungo cui viaggiava una moltitudine di rifornimenti vitali prima di arrivare a destinazione, erano di non minore importanza. Per questo motivo, sebbene argomento principale della Battaglia decisiva della seconda guerra mondiale sia la campagna in quell’oceano, la narrazione non esclude gli altri fronti marittimi.

    Né la guerra in mare si dovrebbe considerare solo da un’ottica militare. Ovviamente, in un conflitto tanto lungo, le strategie e le tattiche adottate da entrambi gli schieramenti erano non solo fondamentali ma cambiavano costantemente a seguito dei trionfi o dei disastri, a loro volta conseguenza di nuovi tipi di armi, tecnologie e passi avanti nella raccolta di importanti informazioni di intelligence. A ogni innovazione, il vantaggio passava d’improvviso e fatalmente da una parte all’altra. Sono tutti elementi importanti per qualsiasi descrizione di questo lungo conflitto marittimo, ma una storia completa della battaglia dell’Atlantico non può prescindere neanche dagli obiettivi contrapposti, le valutazioni e le necessità all’interno e tra gli alti comandi dei principali protagonisti, come avviene in ogni scontro marittimo. Per questo motivo, il presente libro tratta degli individui che esercitarono il potere e il controllo nelle capitali dell’Europa e dell’America in guerra – Londra, Berlino, Mosca e Washington – come anche degli uomini che combatterono e morirono in alto mare obbedendo ai loro ordini.

    I responsabili dell’orientamento della guerra da parte alleata furono rapidi a riconoscere l’importanza cruciale della battaglia dell’Atlantico ma piuttosto lenti a fornire alle loro Marine gli strumenti per svolgere il loro compito. Nei primi anni di guerra, nel tentativo di proteggere la Gran Bretagna dall’invasione e di difendere l’Impero, Winston Churchill si destreggiò tra diverse e opposte priorità. Di conseguenza, le risorse della nazione furono portate al limite e a volte anche oltre, con profonda frustrazione del primo ministro, che trovava estremamente difficile conciliare la propria sconfinata ambizione con la realtà che gli uomini, i mezzi corazzati e soprattutto le navi non erano in forze sufficienti per ottenere tutto subito. Ciononostante, resta uno dei grandi enigmi della sua leadership il fatto che, malgrado avrebbe poi osservato che «la sola cosa che mi abbia mai davvero spaventato durante la guerra era il pericolo degli U-Boot»⁶, abbia mancato di agire di conseguenza fino al momento in cui non fu quasi troppo tardi e non fu superato il punto in cui quel pericolo si sarebbe potuto eliminare. Sin dall’inizio delle ostilità fino all’estate del 1943, ogni mese la Gran Bretagna perse mercantili a un ritmo più veloce di quanto potesse rimpiazzarli, in gran parte perché non erano adeguatamente protetti contro la flotta tedesca di U-Boot in rapida espansione.

    Dal punto di vista britannico, la storia della battaglia dell’Atlantico è anche quella del lungo conflitto tra l’ammiragliato e il ministero dell’Aria, talmente accanito da far dire a un alto ammiraglio che fu «molto più feroce della nostra guerra contro i crucchi»⁷. Le ostilità furono sospese solo quando, dopo tre anni e mezzo di guerra, le perdite alleate nell’Atlantico raggiunsero un livello talmente allarmante da far temere per un certo tempo che gli U-Boot fossero sul punto di tagliare le linee di collegamento vitale con la Gran Bretagna, una prospettiva così catastrofica che impose una risoluzione in favore dell’ammiragliato.

    Questo deleterio contrasto tra due rami del governo in tempo di guerra si dové molto a Churchill. Nell’estate del 1940, mentre nei cieli infuriava la battaglia d’Inghilterra, il neo primo ministro era ovviamente ossessionato non solo dall’esigenza di sollevare il morale della nazione, ma anche di orchestrare un’azione contro la Germania che capovolgesse le sorti della guerra e, col tempo, conducesse alla vittoria. In cerca di soluzioni giunse subito alla conclusione che «un attacco assolutamente devastante e distruttivo da parte dei potentissimi bombardieri di questo paese sulla patria nazista» fosse la «sola via sicura» per sconfiggere Hitler⁸. Le controversie di tipo etico suscitate da quella scelta proseguono ancora oggi. Per contro, le sue conseguenze per l’andamento della seconda guerra mondiale hanno ricevuto meno attenzione. Eppure, la mancata insistenza da parte di Churchill perché un adeguato numero di apparecchi aerei fosse distolto dal bombardamento della Germania per dare battaglia agli U-Boot nell’Atlantico, finché non fu quasi troppo tardi, fu un decisivo errore di valutazione che diede un fatale contributo al fallimento della Gran Bretagna nel neutralizzare la minaccia degli U-Boot e ne rinviò di diversi mesi la risoluzione. Il costo di questo ritardo si potrebbe misurare nelle migliaia di vite umane e centinaia di navi che di conseguenza si persero inutilmente. Si potrebbe misurare anche dal punto di vista delle sue implicazioni strategiche.

    Si apre un affascinante e sconvolgente scenario per gli studiosi attratti dalla scuola storiografica dei se o se solo: se la minaccia degli U-Boot fosse stata annullata diversi mesi prima di quanto avvenne, il trasporto massiccio di truppe e armamenti americani dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna sarebbe cominciato in tempo per consentire un’invasione oltremanica della Francia nell’autunno del 1943? Gli eserciti alleati sarebbero avanzati in Germania prima dell’offensiva dell’Armata Rossa verso la capitale tedesca nell’estate del 1944? E in questo caso, gli Alleati a Jalta sarebbero stati nella posizione di tracciare una mappa dell’Europa della Guerra fredda che riflettesse meglio la loro forza sul campo, quindi a maggior vantaggio non solo dell’Occidente postbellico, ma anche di quei milioni di europei che si sarebbero poi trovati intrappolati dietro la Cortina di ferro?

    È un’idea affascinante che esploreremo più avanti in queste pagine. Ciò che è tuttavia fuor di dubbio è che la prospettiva di una vittoria precedente nell’Atlantico – diciamo all’inizio dell’autunno del 1942 piuttosto che nella prima estate del 1943 – avrebbe avuto un fortissimo impatto sulle diatribe tra Londra e Washington riguardo alla strategia alleata nella lunga preparazione del D-Day (anch’esso descritto in questo libro con un certo dettaglio). In un cablogramma a Roosevelt, inviato nel luglio 1941, Churchill dichiarava di prevedere la liberazione dell’Europa tramite un’invasione dal mare «quando i tempi saranno maturi»⁹. L’unico grosso ostacolo a questa impresa era la minaccia posta dagli U-Boot ai convogli nell’Atlantico. Se questa minaccia fosse stata eliminata prima, le dispute strategiche tra gli Alleati sarebbero state ancora più aspre di quanto divennero nel 1943; in particolare gli inglesi avrebbero avuto maggiore difficoltà a convincere gli americani che la vittoria nel Mediterraneo (passando per il Nordafrica e poi la Sicilia) avrebbe dovuto precedere l’invasione della Francia attraverso la Manica. Ma ovviamente speculazioni del genere, per quanto affascinanti, non hanno senso perché nella realtà dei fatti il primo ministro fu restio a dare la priorità alla distruzione degli U-Boot rispetto a quella delle città tedesche.

    Churchill è stato un leader titanico, la cui visione strategica è stata spesso ingiustamente denigrata ma, riguardo alla guerra in mare, la sua natura irruente lo portò ad aderire a una falsa dicotomia. Contrapponendo il carattere indubbiamente offensivo del bombardamento strategico al compito apparentemente difensivo di forzare un passaggio di sicurezza per i convogli attraverso gli oceani infestati di U-Boot, finì con il favorire le iniziative offensive orchestrate dal ministero dell’Aria a scapito del ruolo difensivo assegnato all’ammiragliato. Tuttavia, il primo ministro non era l’unico a operare questa fuorviante distinzione. Non solo essa era condivisa dai suoi colleghi del Gabinetto di guerra ma anche dai capi di Stato Maggiore, tra cui il Primo Lord del Mare, l’ammiraglio Pound, che aveva moltissimo da perdere. Sebbene questi fosse viepiù costernato dal rifiuto di Churchill di dirottare dal Bomber Command, il Comando bombardieri, gli apparecchi aerei necessari per neutralizzare gli attacchi degli U-Boot, non contestando la sostanza della premessa del primo ministro finì con l’indebolire le sue ragioni. Per via di questa convinzione collettiva si era evidentemente incapaci di riconoscere che i convogli dell’Atlantico non avevano certo una natura meno offensiva delle carovane di pionieri che nell’Ottocento avevano aperto la via per il Midwest americano o (per usare un parallelo del xix secolo) delle scorte militari che si sono fatte strada attraverso il deserto invaso di talebani in Afghanistan per andare in soccorso di città e insediamenti in prima linea. In realtà, la battaglia dell’Atlantico ben presto si trasformò essenzialmente in un conflitto asimmetrico tra i convogli e gli U-Boot, una contesa in cui, mese dopo mese, l’ago della bilancia, in bilico tra trionfo e disastro, oscillò con violenza da una parte all’altra.

    La Casa Bianca era ugualmente consapevole dell’importanza strategica della linea di rifornimento atlantica. Nel maggio 1941, il presidente Roosevelt lo chiarì senza ambiguità in un cablogramma a Churchill: «Credo che l’esito di questo scontro si deciderà nell’Atlantico e se Hitler non riuscirà a vincere lì alla fine non potrà vincere in nessun altro luogo al mondo»¹⁰. Ma Roosevelt considerava la battaglia dell’Atlantico da una prospettiva squisitamente americana e inoltre era sottoposto a pressioni molto diverse e in forte opposizione tra loro. Fino all’attacco giapponese di Pearl Harbor nel dicembre 1941, una considerevole maggioranza del popolo americano – le cui opinioni si riflettevano con forza nei media e nel Congresso – avversava tenacemente qualsiasi coinvolgimento militare degli Stati Uniti in un lontano conflitto europeo in cui non riusciva a vedere alcuna significativa minaccia alla madrepatria.

    Dopo Pearl Harbor, la reazione d’impulso fu che la punizione dovesse essere impartita ai giapponesi a scapito di qualsiasi altro obiettivo. Quest’opinione era condivisa da alcuni dei più influenti consiglieri militari del presidente, in particolare dall’ammiraglio King, il comandante in capo della Marina degli Stati Uniti, la cui malcelata convinzione di dare la priorità al Giappone piuttosto che alla Germania avrebbe esacerbato le trattative con il suo omologo britannico. Tuttavia, grazie a quello che si sarebbe dimostrato il più importante presupposto strategico della seconda guerra mondiale, da tempo Roosevelt si era convinto che la distruzione del nazismo tedesco avrebbe dovuto precedere l’eliminazione dell’imperialismo giapponese: il suo slogan, che tutti i suoi sottoposti dovevano sottoscrivere era: «La Germania innanzitutto».

    Tuttavia, poiché la Casa Bianca doveva non solo prepararsi a una guerra in due oceani ma anche tener conto dell’opinione pubblica, rispetto ai suoi obiettivi strategici Roosevelt doveva muoversi alla maniera di un granchio, e lo faceva con una destrezza che avrebbe fatto invidia a Houdini. Perciò, nell’autunno del 1941, la Marina degli Stati Uniti si stava non solo preparando a intervenire nel Pacifico ma affrontava apertamente il Terzo Reich nell’Atlantico. Con la scusa di estendere la zona di sicurezza, che in tal modo abbracciava praticamente metà dell’oceano Atlantico, Roosevelt aveva de facto – anche se non de iure – dichiarato guerra a Hitler tre mesi prima dell’attacco di Pearl Harbor.

    Ma questa adesione quasi clandestina alla causa britannica aveva anche altri scopi. Per quanto il presidente fosse un anglofilo, il suo sostegno a Churchill era strategicamente interessato. In parte anche grazie all’astuta diplomazia del primo ministro, Roosevelt era convinto che una vittoria nazista in Europa avrebbe alla lunga minacciato gli interessi regionali, se non addirittura mondiali, degli Stati Uniti. Ma, a seguito dell’invasione tedesca della Russia nel giugno 1941, capì in fretta che l’Unione Sovietica era la chiave per la distruzione del Terzo Reich. Per quanto importante fosse la Gran Bretagna, la Russia lo era ancor di più e questo avrebbe causato tra Londra e Washington una tensione quasi pari a quella tra queste due capitali e Mosca.

    Dal momento in cui Hitler lanciò l’operazione Barbarossa nel giugno 1941, priorità dell’America fu inviare rifornimenti militari al regime sovietico sotto assedio. E visto che nell’Artico fluiva l’Atlantico, questo era il tramite essenziale con cui gli Stati Uniti potevano tradurre le parole d’amicizia per Stalin in un reale sostegno all’Armata Rossa. Pur rendendosi conto che l’Unione Sovietica era indispensabile alla sconfitta del Terzo Reich, il primo ministro – per ragioni che esamineremo in queste pagine – trovava continui motivi per ritardare o sospendere i convogli artici. Questo irritava spesso la Casa Bianca e faceva sistematicamente infuriare il leader sovietico. La vasta corrispondenza tra Roosevelt, Churchill e Stalin rivela con estrema chiarezza l’entità delle difficoltà diplomatiche e personali determinate dalle rispettive priorità, sovrapposte ma spesso in contrasto.

    La portata militare dei rifornimenti inviati alla Russia avrebbe sollevato grandi discussioni. Le stime più alte suggeriscono che il 10 per cento o anche più del fabbisogno militare e materiale dell’Unione Sovietica veniva inviato tramite il programma del Lend-Lease di Washington, inaugurato da Roosevelt all’indomani dell’invasione tedesca. Che fosse di quell’entità o piuttosto del 4 per cento (come avrebbero affermato alcuni analisti sovietici), l’aiuto alleato svolgeva indubbiamente un ruolo cruciale nel fornire importanti materie prime ed equipaggiamento militare che Mosca non avrebbe potuto recuperare altrimenti¹¹. Sicuramente, Stalin si comportava come se il sostegno militare dell’Occidente fosse di fondamentale importanza per le possibilità dell’Armata Rossa di arrestare e invertire l’avanzata della Wehrmacht. Delle tre vie di rifornimento per la Russia – Estremo Oriente, Persia (odierno Iran) e oceano Artico – quest’ultima, sebbene inferiore in termini di tonnellaggio totale, fu la più importante nel periodo critico fino al 1943. Quando i convogli artici vennero sospesi, sia perché le condizioni erano ritenute troppo pericolose sia perché le navi erano necessarie ad altre importanti operazioni degli Alleati, Stalin inveì apertamente contro Churchill, e con minore aggressività contro Roosevelt, la cui corrispondenza con l’Unione Sovietica aveva sempre toni più cordiali di quelli adottati dal primo ministro britannico. Con un linguaggio che in altre circostanze avrebbe portato alla rottura dei rapporti diplomatici, i partner occidentali venivano variamente e non di rado accusati di malafede o di violazioni di accordi. Stalin non si faceva fermare da sottigliezze diplomatiche e una volta addirittura Churchill rifiutò di accettare la consegna di un cablogramma particolarmente offensivo, restituendolo di persona senza leggerlo all’ambasciatore sovietico a Londra.

    Se il leader sovietico conduceva i rapporti diplomatici con i partner occidentali come un elefante in una cristalleria aveva le sue buone ragioni. Sia Churchill che Roosevelt gli davano solitamente l’impressione di considerare l’aiuto militare all’Unione Sovietica come un’opera di carità piuttosto che come un contributo essenziale a una causa comune. Questo ovviamente approfondiva in Stalin il sospetto che lui e il suo popolo fossero dati per scontati da Londra e Washington e che il loro eccezionale contributo all’arresto del nazismo venisse sottovalutato o addirittura ignorato. Nella sua corrispondenza, tra le righe è possibile leggere un aspro risentimento e la sensazione che, malgrado le parole cordiali, i due leader occidentali considerassero le vite dell’Armata Rossa più sacrificabili di quelle dei loro soldati, e che fossero ben contenti che l’Esercito sovietico si facesse carico di perdite schiaccianti per poi arrivare a raccogliere i frutti. Vero o no, l’atteggiamento di Roosevelt e Churchill verso Stalin era al limite dello sprezzante. E lo fu in particolare quando si giunse a un motivo ancor più grave di discordia tra Est e Ovest: l’apertura di un secondo fronte tramite un’invasione attraverso la Manica dell’Europa occupata, che divenne non solo una fonte di polemiche tra gli Alleati ma anche di aspre recriminazioni tra questi e Mosca. Una volta accordatesi sulle loro priorità, Londra e Washington non esitarono a far credere a Stalin che una proposta vaga fosse un impegno categorico. Quindi indicarono il proposito di aprire un secondo fronte nel 1942 e, quando questo non si concretizzò, reiterarono la loro determinazione ad aprirlo nel 1943, solo per posporlo nuovamente fino al 1944. Alla luce delle loro priorità strategiche, queste decisioni erano inevitabili, ma, a volte nicchiando e all’occasione decisamente in malafede, si spinsero al limite della correttezza lasciando credere al leader sovietico che gli impegni presi nei suoi confronti fossero inequivocabili. Non c’è da stupirsi se i modi di Stalin spesso tradissero il risentimento per essere ingannato da alleati che dichiaravano di essere ammirati dal valore dimostrato sul campo di battaglia dall’Armata Rossa, ma al contempo si comportavano come se il principale contributo dell’Unione Sovietica alla sconfitta del nazismo si limitasse a esaurire le risorse del Terzo Reich in tempo per la vittoria finale dell’Occidente.

    Per gli Alleati fu una fortuna che arbitro finale della strategia tedesca nella battaglia dell’Atlantico fosse Adolf Hitler e non l’ammiraglio Dönitz, il comandante in capo della flotta degli U-Boot. Come l’ammiraglio Erich Raeder, il comandante in capo della Kriegsmarine, Dönitz considerava la Gran Bretagna la «mortale nemica» della Germania¹². Per fortuna, dal punto di vista alleato, i due ammiragli non si trovavano d’accordo sul modo migliore per sconfiggere il nemico. Dönitz era categorico nel ritenere che priorità militare del Terzo Reich dovesse essere la campagna degli U-Boot per tagliare i rifornimenti alla Gran Bretagna affondando i mercantili più in fretta di quanto venissero sostituiti: la guerra al tonnellaggio, così la chiamava. Raeder riconosceva che gli U-Boot avevano un compito importante ma pensava che un ruolo maggiore l’avessero le corazzate e soprattutto le potenti navi corsare come la Bismarck, la Scharnhorst e la Tirpitz. In assenza della determinazione necessaria per convincere Hitler che priorità assoluta fosse creare una flotta di sommergibili di sufficienti dimensioni e potenza da ottenere la vittoria nell’Atlantico, prima che gli Alleati adottassero le contromisure per attutire l’impatto del suo piano d’attacco, Dönitz fu privato dei mezzi necessari per assicurarsi la vittoria certa.

    Dal canto suo, Raeder si trovò ben presto emarginato da Hitler, che prestava maggiore ascolto a quei membri dell’alto comando più bravi a blandire o a ottenere con toni spavaldi la sua malriposta fiducia. Inoltre, il successore designato di Hitler, Hermann Göring, il subdolo e irrazionale comandante in capo della Luftwaffe, non solo neutralizzò Raeder ma, in quanto Reichsmarschall, ebbe un ruolo determinante nel negare alla Kriegsmarine le risorse necessarie per costituire una flotta di U-Boot con la rapidità sufficiente a infliggere il colpo fatale ai convogli britannici. Questa lotta intestina nell’alto comando tedesco – che rispecchiava esattamente quella tra il ministero dell’Aria e l’ammiragliato a Londra – fu di importanza fondamentale per l’esito della battaglia dell’Atlantico.

    Nel gennaio 1943, dopo aver sopportato dal Führer quella che avrebbe descritto come «un’invettiva violenta e sconveniente»¹³, Raeder fu perentoriamente congedato. Lo sostituì Karl Dönitz, la cui influenza crebbe con tale rapidità che nelle fasi finali della guerra divenne il successore designato di Hitler. Ma, quando si ritrovò al timone della Kriegsmarine, la nave dello Stato stava ormai andando dritta contro gli scogli. Se Dönitz avesse avuto la possibilità di fare la guerra per mare a modo suo, la seconda guerra mondiale avrebbe potuto prendere una direzione inquietante e del tutto diversa. Come Churchill e Roosevelt, aveva compreso che il destino della Germania si sarebbe stabilito nell’oceano Atlantico. Fortunatamente, Hitler non aveva la medesima lucidità strategica.

    Nei capitoli che seguono ho cercato di inserire i temi delineati in precedenza nella narrazione di un lungo dramma in cui le motivazioni e le azioni di ogni singolo combattente – dagli ufficiali superiori degli alti comandi rivali di Londra, Washington, Berlino e Mosca fino ai singoli individui che combatterono e morirono nella battaglia dell’Atlantico – sono di fondamentale importanza per la piena comprensione delle dimensioni epiche di quella campagna. Collocare le storie di chi combatté e morì in mare in entrambi gli schieramenti sullo sfondo dei gravi dilemmi e delle decisioni di coloro che li avevano inviati al fronte non significa sminuire ma evidenziare le dimensioni epiche del loro impegno. In tal modo, spero di poter stabilire che la vittoria alleata nella battaglia dell’Atlantico fu un presupposto essenziale per la sconfitta del nazismo e quindi importante quanto qualsiasi altro scontro sugli altri fronti tra il 1939 e il 1945.

    Note

    1 Peter Padfield, Dönitz: The Last Führer, Gollancz, 1993, p. 419.

    2 Paul Kemp, U-boats Destroyed: German Submarine Losses in the World Wars, Arms and Armour, 1999, p. 8.

    3 John Keegan, The Second World War, Arrow Books, 1990, p. 104.

    4 Winston Churchill, The Second World War, vol. v: Closing the Ring, Cassell, 1952, p. 6.

    5 Fletcher Pratt, The Battleship Comes Back, in «North American Review», 248, 1, autunno 1939, pp. 127-39.

    6 Winston Churchill, The Second World War, vol. ii: Their Finest Hour, Cassell, 1949, p. 529.

    7 Ammiraglio Andrew Cunningham, lettera datata 15 dicembre 1942, citata in Stephen Roskill, Churchill and the Admirals, Pen and Sword, 2004, p. 139.

    8 Churchill, Their Finest Hour, cit., p. 567.

    9 Citato in Andrew Roberts, Masters and Commanders, Allen Lane, 2008, p. 52.

    10 Roosevelt a Churchill, 4 maggio 1941, Elliott Roosevelt (a cura di), The Roosevelt Letters, vol. iii: 1928-1945, Harrap, 1952, p. 364.

    11 Hubert P. van Tuyll, Feeding the Bear: American Aid to the Soviet Union, 1941-45, Greenwood Press, 1989, p. 72.

    12 Padfield, Dönitz, cit., p. 203.

    13 Keith W. Bird, Erich Raeder: Admiral of the Third Reich, Naval Institute Press, 2006, p. 197.

    1

    La strana guerra tutt’altro che strana

    Domenica 3 settembre 1939, alle ore 11:15 del mattino, Nella Last, una casalinga che viveva a Barrow-in-Furness, accese la radio per ascoltare il primo ministro, Neville Chamberlain che, tenendo fede al suo impegno con la Polonia, annunciava che la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania. In ascolto con lei c’erano il marito, di mestiere falegname, e i due figli, uno dei quali appena convocato per il servizio di leva. Più tardi, osservò sulla locale spiaggia di Walney, i suoi «ragazzi» che insieme ad altri riempivano sacchi di sabbia contro la minaccia di incursioni aeree. «Dalle espressioni frastornate sui loro volti, ho capito di non essere stata la sola a credere che qualcosa sarebbe intervenuto per evitare la guerra […]», scriveva sul diario che avrebbe tenuto durante tutti gli anni della guerra e oltre¹. Quella sera, circondata dai suoi familiari, cercò di rilassarsi ma le risultò impossibile: «Ho cercato di fare respiri profondi, di rilassarmi lavorando a maglia e ho preso più aspirine di quanto abbia mai fatto in vita mia, ma riesco solo a vedere quei ragazzi con lo sguardo lontano»².

    Quello stesso giorno, subito dopo l’annuncio di Neville Chamberlain, Winston Churchill uscì di casa con la moglie, Clemmie, e attraversò il centinaio di metri che lo separava dal seminterrato aperto, destinato come rifugio per i residenti del posto e dove si erano già radunati gli abitanti di almeno mezza dozzina di appartamenti. Fermandosi sulla porta, immaginò «scene di devastazione, stragi ed enormi esplosioni che scuotevano il terreno; di edifici che crollavano tra polvere e macerie, di pompieri e ambulanze che correvano nel fumo, sotto il ronzio di aeroplani nemici»³. Dopo il cessato allarme si recò alla Camera dei Comuni, dove si accomodò al suo solito posto sui banchi dei parlamentari senza incarico e a quel punto, scriverà poi: «Fui invaso da una grandissima calma […] sentii una serenità di spirito e avvertii una sorta di elevato distacco dalle vicende umane e personali»⁴. Questa fantasticheria fu interrotta da un incontro con Chamberlain nel suo ufficio, in cui il primo ministro invitò il suo storico fustigatore a servire nel Gabinetto di guerra in qualità di Primo Lord dell’ammiragliato. Entro le 18 di quella sera, Churchill si trovava alla sua scrivania. Gli anni del deserto erano superati. Subito si diffuse la voce e, con sua enorme soddisfazione, il Board dell’ammiragliato inviò un segnale a ogni uomo della flotta: «Winston is back», Winston è tornato. Nel giro di poche ore, gli sarebbe piombata addosso la prima crisi della seconda guerra mondiale.

    Sempre quel giorno, Barbara Bailey, la figlia trentaquattrenne di un avvocato londinese, era una passeggera a bordo dell’ss Athenia quando sentì la notizia che la Gran Bretagna era in guerra. Non appena il capitano affisse la dichiarazione di Chamberlain sulla bacheca della nave, un brivido di apprensione si diffuse rapidamente sull’imbarcazione. Barbara Bailey scoppiò in lacrime, non tanto per la paura quanto per la sensazione di essere sola e senza amici. Due giorni prima, a ridosso della partenza del transatlantico da Liverpool diretto a Montreal, aveva scritto una lettera alla madre dall’Adelphi Hotel. Sconvolta dalla rottura di una relazione sentimentale, aveva deciso di rifarsi una vita in Canada. «Cara, cara mamma», scriveva:

    Forse sbaglio a partire, ma mi lascio guidare dal destino […] È tutto molto strano, ma me la caverò: ti prego non preoccuparti per me, sono io a essere tanto preoccupata per tutti voi. Prendetevi cura l’uno dell’altro. Mi dispiace terribilmente per la mia poca pazienza, soprattutto con papà. Ho tutta l’intenzione di tornare a stare bene e essere di nuovo d’aiuto a tutti voi […] E ora, arrivederci a tutti e abbiate cura di voi, mia cara famiglia. Con tutto il mio affetto.⁵

    Mentre il crepuscolo cominciava a offuscare il cielo serale, l’Athenia affrontava alla velocità di quindici nodi un violento moto ondoso a circa duecento miglia dalla costa irlandese. L’urgenza di fuggire dall’Europa, sempre più minacciata da nubi tempestose, si traduceva in un transatlantico molto più carico del solito. Tra i 1102 passeggeri a bordo c’erano 311 americani, 469 canadesi e circa 150 profughi del continente, tra cui 34 erano ebrei tedeschi. I restanti erano di nazionalità britannica e irlandese, compreso un gruppo di bambini diretti in un luogo più sicuro in Canada. I passeggeri più attenti avevano notato grande attività sul ponte, mentre l’equipaggio toglieva le coperture alle ventisei scialuppe di salvataggio (più che sufficienti a ospitare l’organico della nave), preparava le manichette antincendio e sistemava schermi sulle luci del ponte. Di sera, molti passeggeri avevano ormai ceduto alla nausea e si erano ritirati nelle loro cabine. Barbara Bailey decise invece di cenare nella sala da pranzo.

    Alle 19:43, poco più di otto ore dopo l’annuncio di Chamberlain, a bordo ci fu un’esplosione, il cui frastuono rimbombò lungo lo scafo e per ogni ponte. La nave si inclinò sul fianco sinistro. Sedie e tavoli scivolarono nella stessa direzione, i passeggeri finirono gli uni sugli altri, tendendo mani e gambe in cerca di una maniglia o una ringhiera per reggersi. Barbara Bailey riuscì a restare seduta mentre tutt’intorno si fracassavano i piatti e gli altri ospiti correvano per raggiungere le scale. Quando i suoi due commensali balzarono in piedi per unirsi alla fuga, cercò di trattenerli, alzando la voce per superare il chiasso ed esclamò: «Per amor di Dio, sedetevi. Probabilmente siamo condannati, ma almeno non moriremo schiacciati».

    Quando il siluro colpì, le luci del salone si spensero. I passeggeri si diedero a una fuga precipitosa verso le scale che portavano ai ponti superiori. Sempre nella sala da pranzo, ormai deserta, Barbara Bailey sedeva come paralizzata dallo shock, ma in realtà, invasa da ondate di tristezza al ricordo dell’amore perduto e degli infiniti litigi con il padre, continuava a ripetersi: «Nessuno mi ama, nessuno mi ama»⁶. La riscosse dai suoi pensieri il capo cambusiere che scrutando nell’oscurità urlò: «C’è ancora qualcuno?». La giovane abbandonò la sedia e si unì alla folla sul ponte.

    Mentre l’Athenia affondava sempre di più nell’Atlantico, l’equipaggio agiva con rapidità ed efficienza, cercando di radunare i passeggeri in file ordinate per le lance e di sedare il panico da cui alcuni erano stati colti. Non era impresa facile. Nella confusione, i mariti erano stati separati dalle mogli e i genitori dai figli. Una donna urlava: «Per amor di Dio aiutatemi a trovare il mio bambino». Un bimbo gridava: «Non rivedrò mai più il mio papà». Il caos sui ponti affollati era aggravato dall’incomprensione reciproca. Pochi, forse nessuno, degli anglofoni conosceva il polacco, il ceco, il rumeno o il tedesco. Ed era vero anche il contrario. I profughi dell’Europa occupata dai nazisti, determinati a salire sulle lance stipate stringendo valigie, cestini e fagotti che contenevano i loro pochi beni rimasti, non capivano cosa urlavano loro gli altri passeggeri nella frenesia del terrore. Ma in linea di massima, ben presto prevalse una parvenza di ordine e moderazione. Sulla base di numerose interviste con i superstiti, avrebbe scritto Max Caulfield: «Mentre alcuni erano ancora un po’ isterici e agitati, altri se ne stavano immobili come statue, troppo intontiti per muoversi, e cercavano di conciliare la vista dei corpi sparpagliati attorno al boccaporto n. 5 con le normali attività della nave di appena un’ora prima […]»⁷. A un certo punto, un giovane pastore protestante salì su una parte elevata del ponte e fu visto levare le braccia al cielo. Sotto di lui, recitando ogni sorta di preghiere, si inginocchiò un gruppo di passeggeri.

    Con grande abilità, l’equipaggio riuscì a calare tutte le lance in acqua con pochi incidenti. Fu un’evacuazione complicata. Isabelle Coullie, che era riuscita a farsi strada fino alle scialuppe tra la folla di passeggeri confusi e terrorizzati, scendendo nella barca destinata a lei e al marito John, perse la presa e, come molti altri, cadde nell’oceano. Subito il marito si tuffò per salvarla. Con difficoltà vennero entrambi issati sulla lancia, dove John, insieme ad altri quattro, si mise ai remi per allontanare il loro pesante carico di donne e bambini dal transatlantico colpito. Così facendo, ricordava: «Imbarcammo molta acqua e ci inzuppammo completamente […] A Bell [Isabelle] venne la nausea e poi venne anche a me. Avevamo ingoiato tantissima nafta e il gusto era orrendo. Poi si fece freddo ed eravamo davvero avviliti»⁸.

    Al contrario, Barbara Bailey si era ripresa. Il movimento della barca non le dava alcun fastidio e anzi trovava elettrizzanti gli spruzzi che le sferzavano la faccia. A due donne angosciate perché la lancia aveva cominciato a imbarcare acqua, disse: «Adoro il mare. Il mare è gentile. Non è stato il mare a farvi questo. E se dovesse sopraggiungere la morte, lo farà in fretta»⁹. Con il calare della notte, il mare attorno l’Athenia era punteggiato di scialuppe di salvataggio piene di superstiti, chi più o meno sollevato, chi esausto, chi in ansia, tutti in attesa di venire soccorsi dal gelo atlantico. Ancora a bordo dell’Athenia, il radiotelegrafista era riuscito a inviare un segnale di sos a tutte le imbarcazioni nelle vicinanze. Ben presto un gruppo di cacciatorpediniere e altre navi si diresse a tutta velocità verso il luogo del disastro e molte di esse arrivarono nelle prime ore del mattino successivo. Dopo nove ore alla deriva, i Coullie furono tra coloro che vennero soccorsi da una nave svedese, dove furono avvolti in coperte e ricevettero una minestra calda. Uno a uno, e con difficoltà nelle acque agitate, gran parte dei superstiti dell’Athenia fu tratta in salvo.

    Quattordici ore dopo essere stato colpito dal siluro sul mascone di sinistra, l’ss Athenia s’impennò e, quasi senza un suono, scivolò sotto le onde. In tutto persero la vita 118 persone, di cui 93 passeggeri tra i quali sedici bambini. Se l’Athenia non fosse rimasto a galla tanto a lungo e nella zona non ci fossero state altre navi, le perdite sarebbero state di gran lunga superiori.

    L’affondamento dell’Athenia fu non solo un disastro per chi rimase direttamente coinvolto ma rappresentò un profondo shock per l’ammiragliato, che si era cullato nella convinzione che gli U-Boot tedeschi avrebbero evitato di attaccare navi passeggeri. Queste, infatti, secondo le complesse norme di combattimento, stipulate tra le maggiori potenze navali del mondo negli anni precedenti allo scoppio della guerra, avrebbero dovuto essere risparmiate dalle azioni nemiche. Inoltre, l’affondamento rivelava d’un colpo solo quanto fosse impreparata la Gran Bretagna a un conflitto in cui i sommergibili sarebbero diventati la principale arma tedesca contro le Marine mercantili degli Alleati.

    Nella Royal Navy, il giubilo per il ritorno di Churchill all’ammiragliato fu più incerto di quanto il nuovo Primo Lord avesse voluto immaginare. Da chi ricordava bene la prima guerra mondiale, il segnale «Winston è tornato» fu accolto con sentimenti discordi. Malgrado la sua eloquente belligeranza nei confronti del nemico fosse rassicurante, in quegli anni si era anche distinto per aver interferito in questioni che andavano oltre le sue competenze di ministro. Di conseguenza, era entrato in contrasto con tutta una serie di ufficiali superiori obbligati a rimettersi a lui in quanto autorità politica. Irritava enormemente la sua abitudine di inviare segnali alla flotta senza il consenso dei suoi colleghi del Board e, secondo l’opinione di uno di questi, di emanare «ordini perentori» ai Lord del Mare¹⁰. Era pomposo, impulsivo, intemperante e privo di tatto: caratteristiche che spinsero il fedele biografo di un altro Primo Lord, il principe Luigi di Battenberg, a paragonare il neo incaricato a uno «scolaro viziato e frustrato»¹¹.

    Considerando gli insulti con cui l’avevano ricoperto gli avversari politici e una stampa che aveva reclamato a gran voce la sua destituzione dopo la sconfitta di Gallipoli nel 1915 – di cui era considerato principale responsabile – fino alla comparsa di Hitler sulla scena europea il peso di Churchill era notevolmente diminuito. L’aperta denuncia della politica di appeasement di Chamberlain gli era valsa pochi amici a Westminster, ma la sua solitaria sfida all’establishment politico gli aveva nuovamente conferito un certo peso. Ora, con lo scoppio di una guerra che, praticamente lui solo, aveva previsto e al tempo stesso propugnato, il suo esilio si era concluso. D’improvviso le sue doti politiche erano indispensabili alla compromessa credibilità del primo ministro; e il suo posto nel Gabinetto assicurato.

    «Fu così», scriverà in seguito, «che ritornai nella stanza che avevo lasciato con dolore e affanno quasi esattamente un quarto di secolo prima»¹². Senza pentirsi minimamente del ruolo avuto nella disfatta di Gallipoli, che attribuiva a sfortuna ed errori tattici di altri, non perse tempo a dimostrare che non solo era tornato ma era più interventista che mai. Nel giro di poche ore convocò l’ammiraglio Dudley Pound, Primo Lord del Mare. Churchill aveva criticato aspramente il modo in cui, all’inizio dell’anno, era stata dispiegata nel Mediterraneo la flotta britannica, sotto il comando di Pound. Ora, secondo il racconto di Churchill, «Ci guardammo amichevolmente ma incerti»¹³. Pound era in carica da tre mesi e solo perché il predecessore, l’ammiraglio Roger Backhouse (che a sua volta era stato al comando solo sette mesi), si era ammalato di un tumore al cervello ed era stato costretto ad andare prematuramente in pensione. Essendo in servizio in prima linea, Pound era stato sollevato quando gli era stato preferito Backhouse e aveva detto a un amico: «Non riesco a credere alla mia fortuna […] Pensa, non devo fare il Primo Lord del Mare e posso stare con la flotta un altro anno […] e poi mi vengono a dire che mi nominano Ammiraglio della Flotta e posso ritirarmi immediatamente dal mare»¹⁴. Ora, inaspettatamente, si ritrovava al più alto incarico in un momento critico.

    Pound era figlio di uno studioso di Eton che preferiva la vita nelle campagne del Devon. La madre era una dispotica americana dalle abitudini eccentriche, che comprendevano una tendenza al furto apparentemente incontrollabile. Quando i genitori si erano separati, Dudley, ancora bambino, era stato allevato dal padre in un bucolico posto di campagna dove aveva condotto una vita estremamente normale: aveva gusti convenzionali e attitudini non ben determinate. Nel 1891, all’età di tredici anni, entrò nell’hms Britannia, uno scafo ormeggiato sul fiume Dart che fungeva da centro di addestramento per gli ufficiali di Marina. Nonostante il corso richiedesse buone conoscenze di matematica, era altrimenti noto per la sua mancanza di rigore intellettuale. Come ha notato il biografo di Pound: «I cadetti lavoravano dal punto di vista fisico, ma non intellettuale e si può dire che per molti l’istruzione, contrariamente alla formazione professionale, terminasse a tredici anni»¹⁵. Pound coronò i suoi sforzi uscendo dalla Britannia con qualifiche sufficienti da indirizzarlo verso una carriera in ascesa. «Molto zelante e assennato», recitava il giudizio di uno dei suoi ufficiali superiori. Nel 1915, capitano all’età relativamente giovane di trentasette anni, fu nominato ufficiale di Stato Maggiore sotto l’ammiraglio Fisher, il brillante e vivace Primo Lord del Mare richiamato dal pensionamento all’inizio della guerra.

    Pound non rimase colpito da Fisher quanto lo era stato Churchill, confidando poi a un collega che il settuagenario era «un uomo molto anziano, in grado di svolgere al massimo un paio di ore di lavoro al giorno all’ammiragliato e passava il resto del tempo a suo comodo»¹⁶. Questo era non solo poco gentile, ma anche falso: il giovane capitano dimenticava o non sapeva che Fisher si sedeva alla scrivania alle cinque del mattino, molto prima che gli altri, Pound compreso, arrivassero al lavoro. Ma come molti giovani ambiziosi, Pound non trasudava benevolenza. Il suo addestramento era stato rigido e ristretto e questo si rifletteva nel contegno e nell’atteggiamento. Tuttavia, entro i limiti dell’ortodossia, si distingueva per pacata intelligenza, pensiero lucido, ancorché prudente, e inclinazione al lavoro indefesso. Il suo talento per l’organizzazione scrupolosa forse non suscitava commenti d’invidia ma contribuì a spianargli la strada verso l’alto. Notava un vicino osservatore: «Aveva un’aria lugubre e il suo semplice ingresso in una stanza faceva diventare seri gli astanti»¹⁷. La sua presenza fisica non trasmetteva immediata autorità, ma aveva modi energici e, sebbene fosse solitamente imperturbabile, una percezione assai sviluppata del proprio status si accompagnava a un temperamento irascibile.

    Una volta punì due giovani ufficiali per danni causati ai loro cacciatorpediniere in una burrasca che mise momentaneamente fuori uso entrambe le navi. Con la bava alla bocca per la collera, li fece sfilare sul cassero di poppa e li deferì alla corte marziale. Tuttavia, dopo essersi calmato, venne persuaso a sottoporli a una commissione d’inchiesta, e quando questa li assolse da qualsiasi colpa, si affrettò a riscattarsi dalla propria impetuosità segnalando la notizia all’intera flotta. Questo non fu l’unico episodio del genere. Più grave fu la sua decisione di deferire alla corte marziale un fidato collega, il comandante Norris, per aver fatto arenare il suo avviso durante un fortunale. Norris avrebbe ricordato poi che, nominandolo, Pound gli aveva detto che «se avessi messo il piede in fallo in questo compito dovevo aspettarmi di essere bacchettato […] esattamente come chiunque altro»¹⁸. Anche se Norris era già stato scagionato da una commissione d’inchiesta, Pound insistette per tenere una corte marziale nella sua cabina. Quando anche questa assolse Norris, per festeggiare, Pound regalò subito all’amico una bottiglia di champagne.

    Al tempo della nomina a Primo Lord del Mare, Pound si era ormai guadagnato fama di uomo solerte e onesto. Ma non aveva mai affrontato prove paragonabili alla molteplicità di sfide che lo attendevano. L’affondamento dell’Athenia il primissimo giorno di guerra esplose nell’ammiragliato come un obice e ricordò il terribile periodo della Grande Guerra quando i tedeschi avevano intrapreso una guerra sottomarina indiscriminata contro la Marina mercantile alleata che sarebbe stata disastrosa se gli Stati Uniti non fossero accorsi in aiuto della Gran Bretagna nel 1917.

    Nei primi due anni della prima guerra mondiale, la minaccia di quella nuova forma di tecnologia marittima – il sommergibile – era stata sì riconosciuta, ma non le era stato attribuito il giusto peso. Con la singolare eccezione di un saggio avvertimento dell’ammiraglio Fisher, l’ammiragliato si era convinto che il principale pericolo al grande cabotaggio britannico non provenisse dal piccolo contingente tedesco di U-Boot, ma dalla flotta di grosse navi da guerra del Kaiser Guglielmo ii, le cosiddette navi corsare, che si riteneva nell’era del vapore avessero reso superflui i convogli. Partendo da una tradizione che risaliva alle guerre napoleoniche, gli ammiragli si erano persuasi che le navi alimentate a carbone, che navigavano insieme in gran numero emettendo fumo nell’aria, costituivano per le navi nemiche un bersaglio più evidente delle navi che viaggiavano sole. Inoltre, consideravano antiquato il sistema dei convogli perché i mercantili, che si muovevano in autonomia, potevano ormai essere adeguatamente protetti da una rete di comunicazioni radio tramite cui l’ammiragliato a Londra era in grado di identificare le navi corsare nemiche e inviare incrociatori della Royal Navy per intrappolarle nei punti focali in cui convergevano le rotte commerciali. A queste due supposizioni si aggiungeva l’avversione a usare navi da guerra in forma difensiva come scorte per i convogli, quando potevano essere meglio impiegate in assai più spettacolari operazioni offensive di pattugliamento per affrontare il nemico in battaglia. Non meno importante era stato il fatto che il governo dell’epoca era incalzato da una falange di armatori e speculatori, ferocemente contrari all’idea di far viaggiare le loro navi attraverso la zona di guerra sotto la protezione della Royal Navy. Navigando autonomamente, sostenevano, i loro bastimenti sarebbero arrivati con maggiore rapidità e frequenza a destinazione senza gli intoppi destinati a verificarsi se più di trenta mercantili fossero giunti in massa nello stesso posto. In queste valutazioni ebbe sicuramente un peso il fatto che questa potente lobby traeva uguali profitti sia quando le importanti navi da carico arrivavano in porto sane e salve sia quando su di esse si abbatteva la catastrofe: non è esagerato affermare che più navi venivano affondate dal nemico, più ricchi diventavano questi individui. Ogni volta che andava a picco una delle loro navi traevano vantaggio non solo dagli enormi indennizzi assicurativi, ma anche dalla crescente domanda di natanti che dovevano rimpiazzare le perdite. Malgrado l’introduzione di una tassa sui sovraprofitti, i guadagni restavano eccezionali.

    Per tutte queste ragioni, gli inglesi furono lenti nel riconoscere la crescente minaccia dei sommergibili tedeschi. Alla fine dell’autunno del 1916, non solo la flotta di U-Boot era molto più grande di quanto fosse all’inizio del conflitto, ma la campagna a singhiozzo che aveva intrapreso contro la Marina mercantile sin dall’inizio della guerra era ripresa con maggior vigore. Con grande costernazione del governo britannico, divenne ben presto evidente che le essenziali scorte di viveri – soprattutto di grano importato per il pane – diminuivano più in fretta di quanto potessero ricostituirsi. Nel febbraio del 1917 la crisi incombente si aggravò quando il Kaiser abolì ufficialmente tutte le restrizioni alla guerra sottomarina, avvisando che da quel momento in poi qualsiasi natante in alto mare avrebbe rappresentato un bersaglio per i suoi U-Boot, che puntualmente si scatenarono. Nel mese successivo, il 25 per cento delle navi che partiva veniva affondato prima di rientrare. Di conseguenza gli Stati neutrali limitarono i traffici con gli Alleati, che diminuirono di un catastrofico 75 per cento. Era ormai chiaro che la Gran Bretagna era pericolosamente sul punto di perdere la campagna in mare, e quindi i suoi mezzi per proseguire la guerra contro il Kaiser.

    In questo momento critico, Lloyd George (che aveva scalzato Asquith in qualità di primo ministro in dicembre) cominciò a fare pressioni sull’ammiragliato perché ristabilisse il sistema dei convogli. Gli ammiragli erano non solo a corto di scorte adatte, ma profondamente restii a cambiare tattica, anche se su quelle rotte in cui erano cominciati i convogli l’impatto era stato immediato. Tra marzo e maggio su tre rotte attraverso la Manica, i documenti dello Stato Maggiore navale riferiscono che «si sono perdute solo nove navi – tutte di notte – su un totale di quattromila. Di giorno sono state fornite scorte aeree»¹⁹. Ciononostante, l’ammiragliato era lento a imparare la lezione.

    A luglio, il Kaiser decise di alzare la posta. Apparentemente per rappresaglia al crescente successo del blocco della fame imposto dagli Alleati agli Imperi centrali²⁰, egli annunciò che la Kaiserliche Marine (la Marina imperiale) non avrebbe più osservato le regole del cosiddetto Diritto di preda, secondo cui nessun mercantile poteva essere affondato da un sommergibile prima che fosse stato perquisito e il suo equipaggio messo in salvo. La decisione del Kaiser distruggeva ciò che restava del consenso internazionale sulla condotta di una giusta guerra in mare: da quel momento in poi, gli U-Boot avevano l’autorizzazione non solo a impegnarsi in una guerra indiscriminata contro tutte le navi mercantili che entravano nella zona di guerra ma anche ad affondarle a vista e senza preavviso.

    A seguito di questo ripudio unilaterale delle norme del Diritto di preda, la cifra totale di affondamenti crebbe bruscamente. Questo fece balzare l’ammiragliato alla conclusione che i due eventi fossero collegati: che l’impennata di affondamenti fosse una diretta conseguenza dell’aggressività indiscriminata della Germania. In realtà, come dimostravano i dati disponibili, la causa era dovuta al simultaneo aumento del numero di U-Boot in ricognizione, che da poco meno di trenta all’inizio della guerra erano arrivati a quasi settanta nella primavera del 1917. Di conseguenza, per diversi mesi gli U-Boot continuarono a seminare il caos in quei tratti di oceano in cui ai mercantili mancava la stretta protezione delle navi da guerra alleate e, ove possibile, il pattugliamento aereo (dirigibili compresi).

    A quel punto, però, erano entrati in guerra gli Stati Uniti. L’affondamento del Lusitania il 7 maggio 1915 con la morte di più di mille persone, tra cui 128 americani, aveva indignato l’opinione pubblica in America e nel mondo ma in sé non era stato considerato un casus belli dalla Casa Bianca. Ci furono altri fattori, ma l’episodio che infine spinse il presidente Woodrow Wilson a dichiarare «una guerra per porre fine a tutte le guerre» contro la Germania il 6 aprile 1917 fu l’affondamento di sette inermi mercantili statunitensi alcune settimane prima. L’intervento americano fu la rovina del Kaiser. Non solo contribuì a sferrare il colpo di grazia sul campo di battaglia ma, con il dispiegamento di circa quaranta navi da guerra statunitensi in servizio di scorta, cambiò anche l’andamento della guerra in mare. Secondo lo storico dello Stato Maggiore della Marina, che attingeva a cifre dettagliate all’epoca disponibili all’ammiragliato, quando i mercantili erano sotto scorta, gli U-Boot erano praticamente impossibilitati a sferrare attacchi efficaci: «Si avvistava un sommergibile dopo l’altro e venivano tutti attaccati prima che si immergessero, o erano costretti a farlo per non essere individuati […] Fino alla fine di dicembre del 1917 ci fu un solo caso di una nave in un convoglio scortato da mezzi aerei affondata da un U-Boot»²¹. In questo modo, gli Stati Uniti non solo salvarono la Gran Bretagna dalla resa per fame ma dimostrarono senza ombra di dubbio lo straordinario contributo del sistema dei convogli, a cui l’ammiragliato si era opposto tanto a lungo, alla catastrofe che travolgeva ora la Germania.

    Fu in questo contesto che, nel 1921, dopo il Trattato di Versailles, il governo degli Stati Uniti convocò a Washington un incontro tra le principali potenze marittime. Il suo scopo era di prevenire una corsa agli armamenti navali e, soprattutto, imporre una nuova serie di norme sulla guerra marittima per controllare la minaccia posta dai sommergibili in eventuali conflitti futuri. I partecipanti, invece, si fecero sedurre da una complicata quadriglia diplomatica che sarebbe durata per i successivi diciotto anni, in cui Gran Bretagna, Stati Uniti, Francia e Italia avrebbero cercato di accrescere la propria potenza navale gli uni rispetto agli altri, bloccando al contempo la minaccia posta dalla Germania, personaggio dissenziente al centro di questa messa in scena.

    Nell’entusiasmo della vittoria, la Gran Bretagna cercò di dirigere le danze incalzando perché i sommergibili fossero dichiarati illegali come armi da guerra. La proposta fu presentata come se si trattasse di una campagna morale contro una disumana forma di guerra, ma non convinse chi era in grado di individuare l’egoistico motivo dietro l’istanza britannica. In confronto a una corazzata con cui una grande nazione marittima poteva dominare i mari, il sommergibile era più economico da costruire e, con un solo siluro, riusciva a infliggere un colpo mortale a qualsiasi nave da guerra di superficie; a gran discapito dell’Impero britannico, il sommergibile minacciava così di alterare l’equilibrio delle potenze marittime. La proposta dell’ammiragliato venne respinta.

    Gli americani proposero invece una nuova legge internazionale che definisse regole di combattimento secondo cui i sommergibili sarebbero stati soggetti agli stessi protocolli di altre navi da guerra, e in particolare a norme ancora più severe di quelle ripudiate dal Kaiser. Non solo i comandanti degli U-Boot dovevano perquisire un mercantile prima di catturarlo e affondarlo solo dopo che l’equipaggio fosse sbarcato, ma, se questo si dimostrava impraticabile, secondo il primo articolo della risoluzione statunitense dovevano «desistere dall’attacco e dalla cattura e permettere al mercantile di proseguire indisturbato»²². Malgrado le energiche obiezioni di francesi e italiani, Washington ebbe la meglio. Il 4 febbraio 1922 venne firmato da tutte e quattro le nazioni un nuovo codice per i sommergibili, redatto praticamente negli stessi termini proposti originariamente dagli Stati Uniti, che costituiva un elemento chiave di ciò che sarebbe poi diventato il Trattato navale di Washington.

    Ben presto, i francesi fecero marcia indietro, rifiutando di ratificare l’accordo. Questo portò a ulteriori discussioni nella Conferenza navale di Londra del 1930. Ancora una volta la Gran Bretagna (la cui supremazia marittima si basava sulla flotta di superficie della Royal Navy) propose che gli U-Boot, come le armi chimiche, dovessero abolirsi del tutto. Stavolta gli Stati Uniti, allarmati dalla rapida produzione di sommergibili in Giappone, si dissero d’accordo. La Francia ancora tentennava, sostenendo che i sommergibili erano strumenti di guerra non offensivi ma difensivi. Ci vollero diversi mesi di trattative prima che i rappresentanti britannici redigessero una bozza finale su cui, entro l’autunno del 1930, Stati Uniti, Francia, Germania e Giappone si decisero ad apporre la firma.

    Il Trattato navale di Londra, come venne chiamato, era formulato in modo talmente ambiguo da lasciare irrisolte quasi tutte le questioni importanti. Sei anni dopo, nel marzo del 1936, malgrado – o forse grazie a – queste intrinseche ambiguità, più di trenta nazioni, tra cui Germania e Unione Sovietica (ma non Giappone e Italia che si rifiutarono) apposero la loro firma a quello che si era trasformato nel Secondo trattato navale di Londra. Questo documento modificava il primo in aspetti minimi ma lasciava intatti i suoi elementi essenziali, in particolare con una serie di protocolli che vietavano la guerra indiscriminata in alto mare. Come commentò Churchill, era «il culmine della credulità» supporre che qualsiasi nazione belligerante si attenesse a quel codice²³.

    L’ammiragliato si convinse che la campagna di guerra indiscriminata sottomarina del Kaiser si era dimostrata talmente disastrosa che nessun leader tedesco avrebbe mai rifatto lo stesso errore. Preoccupati dalla minaccia che nell’Estremo Oriente i giapponesi ponevano all’Impero britannico, gli ufficiali di Stato Maggiore della Marina tralasciarono di analizzare i dati (disponibili sin dal 1920) che dimostravano in modo inoppugnabile che era stata l’introduzione dei convogli scortati, ove possibile coadiuvati dall’Aviazione, a salvare la nazione dal collasso nel 1917. Si rincuorarono piuttosto per il fatto che il capo della delegazione tedesca, Joachim von Ribbentrop, aveva apposto la firma su un accordo anglo-tedesco che imponeva una limitazione permanente alle dimensioni della Kriegsmarine rispetto alla Royal Navy (in rapporto di poco più di 1 a 3). Finché Hitler avrebbe osservato questo trattato, la Royal Navy sarebbe stata libera di affrontare i giapponesi nel Pacifico. Col senno di poi, il desiderio dell’ammiragliato di prendere in parola Ribbentrop era incredibile quanto lo spirito di appeasement che chiaramente animava i negoziatori britannici. Mentre erano ancora in corso le trattative, una comunicazione interna dell’ammiragliato riferiva: «Nella presente disposizione della Germania è probabile che il modo più sicuro per persuadere i tedeschi a moderare le loro attuali prestazioni sia concedere loro in teoria ogni considerazione. In pratica è più verosimile che raggiungano la parità sottomarina se ci opponiamo al loro diritto teorico di farlo che se ammettiamo che abbiano una giustificazione morale»²⁴.

    La prontezza dell’ammiragliato a sorvolare sulla rinnovata minaccia degli U-Boot a favore del mantenimento di una flotta da guerra in Estremo Oriente era dovuta anche alla tradizionale passione della Royal Navy per corazzate e incrociatori. Dopotutto, erano queste grandi navi da guerra che nel corso della storia avevano combattuto il nemico in battaglie preparate a tavolino come quelle che avevano reso illustre l’ammiraglio Nelson e che, nonostante i migliori sforzi dei tedeschi nella battaglia dello Jutland, avevano consentito alla Gran Bretagna di continuare a dominare i mari. Paragonato alla foga e all’eccitazione di assaltare e corseggiare gli oceani, il compito

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1