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L'ingrediente segreto dell'amore
L'ingrediente segreto dell'amore
L'ingrediente segreto dell'amore
E-book260 pagine3 ore

L'ingrediente segreto dell'amore

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Info su questo ebook

Sembra Colazione da Tiffany, ma potrebbe accadere davvero...

Il signor Johns è un avvocato milanese piuttosto abitudinario. Compra la cena nella solita rosticceria, fa l’aperitivo sempre nello stesso locale. Vive solo, in compagnia del gatto Artù. Un giorno, rientrando a casa, trova una ragazza in bagno. Una ladra? Nient’affatto. Si tratta di Irene, la nipote della signora Matilde, la proprietaria dell’appartamento. Johns deve ospitarla a casa sua finché non troverà una sistemazione, ma si era dimenticato del suo arrivo. Nella convivenza forzata, lui, uomo rigido e geloso della propria privacy, cerca con cura di evitarla, mentre lei, completamente a suo agio, comincia a dedicarsi alla cucina, prepara da mangiare per il gatto e lascia sempre qualcosa anche per Johns. Ma che cos’hanno di particolare i piatti di Irene? Sono sempre diversi da quel che appaiono, come se la ragazza utilizzasse qualche strana spezia o aggiungesse un ingrediente segreto capace di conquistare non solo il palato, ma anche il cuore.

«Una bellissima storia d’amore raccontata con leggerezza e molta ironia. Un libro che mi ha colpito fin da subito. Complimenti all’autrice, spero di leggere presto altri suoi libri!»
Silvana Giro
è nata a Milano, dove vive. Lavora da molti anni nell’ambito dell’outsourcing e del contract management per una società farmaceutica multinazionale ed è un’esperta conoscitrice dei Fiori di Bach. L’ingrediente segreto dell’amore è il suo primo romanzo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 giu 2016
ISBN9788854196506
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    Anteprima del libro

    L'ingrediente segreto dell'amore - Silvana Giro

    1285

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9650-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Sebastiano Barcaroli

    Cover: © Rekha Garton / Trevillion Images

    Silvana Giro

    L’ingrediente segreto dell’amore

    A Enrico e Filippo, autentici water violet…

    e ogni cosa si spiega.

    A Biagio, ovunque tu sia.

    1

    Uno strano incontro

    CACAO

    Ingrediente base del cioccolato, di una rinfrancante tazza di cioccolata calda e di innumerevoli dolci e liquori. La cucina creativa lo vuole anche in preparazioni salate. Regala una predisposizione positiva verso i fatti della vita, amore ed eros compresi.

    Il signor Johns quella sera non rientrò tardi. Erano da poco passate le sette, l’ora giusta per il consueto aperitivo al bar dell’angolo. Era un individuo piuttosto schivo, non amava chiacchierare, né, tantomeno, intrattenere il pubblico. I suoi unici punti fermi nella vita erano il gatto e l’aperitivo serale. Per punto fermo intendeva qualcosa che gli procurasse un reale benessere fisico e mentale, qualcosa in cui nessuno potesse entrare, che nessuno sentisse così come lui sentiva.

    L’aperitivo, vino bianco gelido e resinato, a contatto con il suo palato diventava un nettare inebriante.

    Al signor Johns piacevano i locali intimi, con poche persone, magari con giardino, nei quali l’ombra nasceva dagli alberi e non da ombrelloni o tettoie. I bicchieri dovevano essere di vetro trasparente incolore, a calice piccolo, con il gambo piuttosto corto e senza tutte quelle scagliette di ghiaccio sul bordo che riteneva del tutto inutili e ineleganti sul piano estetico. Il bar dell’angolo rispondeva ai requisiti richiesti.

    Si trovava al confine del parco, a un passo dalla bottega del caffè, che era un altro dei suoi negozi prediletti. Vi si poteva trovare di tutto: mattonelle di tè essiccato scolpite ad arte provenienti dall’est asiatico, cioccolato di sconosciute marche piemontesi, caffettiere di tutti i tipi per la preparazione di caffè americano, napoletano o greco, caramelle balsamiche contenenti potenti intrugli altoatesini, teiere egiziane in latta o inglesi in splendida porcellana dipinta.

    In alternativa al bar dell’angolo, se non era troppo tardi, si faceva portare da un taxi nella zona dei Navigli. Dopo l’aperitivo e prima di rientrare a casa, si soffermava a guardare i barconi che navigavano o se ne stavano a sonnecchiare ormeggiati alle rive.

    Il signor Johns aveva un gatto, o meglio il gatto aveva il signor Johns.

    Artù rappresentava qualcosa di magico. Lo amava forse per i suoi movimenti, così armonici, dolci, perfetti; forse per lo sguardo, di cui riusciva a interpretare tutte le espressioni: quelle che precedevano un assalto oppure le fusa; forse perché era l’unico che, solitario e distaccato, nei momenti più tristi gli si accoccolava accanto, senza chiedere, indagare, o dare consigli. Il signor Johns provava un benessere profondo quando guardava Artù dormire. Prima le fusa, poi i piccoli movimenti involontari (scapola, zampa, orecchio), poi lentamente il respiro si confondeva alle fusa, poi finalmente il sonno.

    Il suo sonno esprimeva una calma, una pace, una felicità che difficilmente un essere umano – quantomeno da adulto – avrebbe potuto raggiungere.

    Tutto questo gli serviva per rilassarsi dopo una giornata di duro lavoro e quotidiane frustrazioni. Nello studio legale dove lavorava, il signor Johns era molto formale nei suoi rapporti con il prossimo. Non che fosse un fanatico, ma si dimostrava molto convinto del ruolo che, di volta in volta, si trovava a ricoprire. Pur non manifestando entusiastiche accoglienze, era apprezzato dai clienti, che si sentivano compresi e tutelati in modo adeguato.

    Ironico a sufficienza per non risultare del tutto asociale, non si sentiva a proprio agio nei rapporti informali. Poco tollerante e tendenzialmente solitario, l’ironia non gli veniva in aiuto nelle situazioni imprevedibili o inconsuete. Al di fuori del mondo lavorativo, le persone spesso lo annoiavano e, a seconda delle circostanze, escogitava frequenti scappatoie, plausibili anche se improbabili. Talvolta, nel corso di cene conviviali, si ritrovava a non poterne più. Prodigandosi in scuse pressoché esaustive, simulava chiamate urgenti da parte di clienti molto influenti. Recuperato il primo taxi disponibile (impresa non facile), si disperdeva nelle nebbie milanesi e si dava alla macchia per i giorni successivi. Aveva solo quarant’anni, ma già da dieci indossava un imperturbabile completo grigio scuro in inverno e chiaro in estate.

    Essendo un tipo elegante e, soprattutto, ordinato, il signor Johns ricomprava i due completi ogni anno. In questo modo, si era trovato ad avere dieci abiti estivi e dieci invernali assolutamente identici, a parte la consistenza del tessuto e le sfumature di colore.

    La casa in affitto in cui viveva non era enorme, ma molto ben organizzata e gradevole.

    Aveva faticato parecchio a trovarla. Milano era una città che offriva molti alloggi, tutti estremamente costosi. Aveva fatto estenuanti ricerche per ottenere un buon compromesso e una soluzione che non gli prosciugasse metà dello stipendio. Era stato sul punto di perdere la speranza, quando aveva visto un bigliettino attaccato in modo malfermo a un portone nella zona di corso Sempione, proprio di fronte al parco. L’aveva interpretato come un colpo di fortuna. In quella zona era praticamente impossibile trovare appartamenti.

    L’annuncio recitava: Matilde deve andare fuori città. Vuoi affittare la sua casa? Se sì, chiedi al portiere.

    Aveva quindi ottenuto il numero di telefono dal portiere. Dopo vari tentativi era infine riuscito a parlare con la proprietaria, che aveva scoperto essere una cliente dello studio legale. Si erano accordati per un contratto di locazione con un canone d’affitto sostenibile sul piano finanziario e la possibilità per la signora Matilde di accedere gratuitamente ai pareri legali di Mr Johns, qualora necessari.

    La porta d’ingresso si apriva su un grande salone, cui forniva molta luce; dal lato opposto, una vetrata che affacciava su una terrazza molto ampia, piena di fiori. I vasi erano di semplice e rigorosa terracotta.

    Sul lato destro della terrazza era posizionato un tavolino in ferro battuto, completo di quattro sedie, dalla linea essenziale.

    A sinistra, tra due finte palme in legno dipinto era appesa un’amaca. Il signor Johns l’amava molto, anche se l’aveva utilizzata forse quattro volte in tutto da quando l’aveva acquistata (due anni prima).

    Ma per lui non era tanto importante servirsi realmente degli oggetti che acquistava; l’essenziale era trarne un intenso benessere squisitamente estetico. Per questo anche per la terrazza aveva un’attenzione e una cura che rasentavano il maniacale: vasi con fiori bassi da una parte, con fiori alti da un’altra. Petunie con petunie, begonie con begonie. I colori dei fiori dovevano essere accesi ma non eccessivi, e intonati gli uni agli altri. In una ciotola di vetro colma d’acqua, al centro del tavolino in ferro battuto, galleggiavano bolle di vetro soffiato: erano forate in modo da contenere sempre qualche fiore scelto con cura tra quelli che stavano appassendo.

    La vetrata del salone non era oscurata da tende, in modo da poter sempre avere una panoramica sui fiori della terrazza.

    Nella stanza, sulla sinistra, una coppia di divani bianchi a tre posti disposti a

    L

    . Due poltroncine in legno di ciliegio con cuscini turchesi ne rappresentavano il terzo lato e, a chiudere, due enormi cuscini a motivi cachemire, bianchi e tabacco, giacevano direttamente sul parquet.

    Al centro, un tavolino ricavato dalla parte bassa di una madia in noce dei primi del Novecento, perfettamente conservata.

    Un vaso di ceramica di Deruta a fiori turchesi e arancioni e, al suo fianco, un posacenere di vetro di Murano arredavano il piano del tavolino. Il signor Johns non fumava, ma aveva espresso il desiderio di possedere un posacenere da utilizzare all’occorrenza. Un’amica glielo aveva regalato in occasione di un compleanno.

    Sulla parete, svettava una libreria bianca che conteneva prevalentemente riviste d’arte o a tema floreale e parecchi romanzi spesso di poco conto. Alcuni libri di geografia e di storia delle etnie minori spuntavano qua e là. Nel complesso, la libreria aveva un aspetto gradevole, poiché le diverse copertine si intonavano piuttosto bene al resto della stanza. L’unica stranezza era rappresentata da una serie di boccali da birra, realizzati in ceramica, con disegni bizzarri, che interrompevano a intervalli i blocchi di libri. Al centro della libreria era sistemato un grande televisore a schermo piatto.

    Nella parte destra del salone, riposava un pianoforte verticale datato all’incirca fine Ottocento, che il signor Johns aveva recuperato in un locale fumoso e maleodorante durante uno dei suoi viaggi al Nord. Il signor Johns non sapeva suonare, ma si era ripromesso di imparare appena avesse avuto un po’ di tempo libero, o non appena la pigrizia consueta lo avesse abbandonato, almeno per un periodo. Il pianoforte, sul lato superiore, aveva ancora i cerchi impressi dal fondo dei bicchieri degli avventori del bar. L’aveva ripulito grossolanamente, con una di quelle cere per il fai da te, ma l’umidità aveva fatto ingrossare il legno e, nonostante il trattamento, gli aloni erano rimasti, anche se perfettamente lucidati.

    Vicino allo strumento musicale, a due metri della parete, troneggiava un enorme ficus benjamin, che invadeva la stanza con allegre e minute foglioline.

    E per finire, nell’angolo destro, si allungava un tavolo fratino che aveva recuperato in un antico convento disabitato, dietro pagamento di una consistente mancia al guardiano della proprietà. Quattro semplicissime sedie di legno da osteria con la seduta di paglia intrecciata completavano il tutto.

    Alle pareti c’erano stampe moderne, di autori vari pressoché sconosciuti. Il signor Johns amava comprare produzioni di artisti di strada. In un angolo era appesa una foto autografata che riprendeva il suo profilo e quello di una donna in controluce.

    Due gradini davano accesso alla cucina, situata in una rientranza piuttosto ampia accanto alla porta d’ingresso. Una parete alta circa due metri, che sulla sua sommità ospitava una serie di piante grasse, la separava dal resto della stanza. Piccole finestre circolari, nella parte superiore del muro, permettevano alla cucina di ricevere la luce dal salone. Sul lato interno, c’erano una panca e un tavolo rettangolare lungo e stretto con un piano di piastrelle colorate. La cucina era completa di tutti gli strumenti necessari alle esibizioni più fantasiose di un cuoco esigente: forno elettrico, forno a microonde, friggitrice, tritatutto, spremiagrumi elettrico, cavatappi da osteria e una serie di utensili di cui al signor Johns era tuttora oscuro il significato.

    Dal salone si entrava in una piccola anticamera, e da qui si accadeva al bagno, allo studio e alla camera da letto.

    Le stanze erano accomunate da una particolarità: l’assoluto rigore nello stile o, per meglio dire, la totale mancanza di fantasia.

    La camera da letto era occupata da un armadio grigio con le ante a specchio che il signor Johns aveva ereditato dall’inquilino precedente e che non si era ancora deciso a cambiare. Detestava ogni genere di armadio, mentre adorava le cabine-armadio. Sarebbe però stato troppo oneroso ristrutturare la stanza per ospitarne una.

    Il letto era di legno, molto semplice, quasi francescano.

    Non lo aveva voluto matrimoniale perché due piazze gli erano sembrate esagerate e una piazza troppo piccola, quindi aveva optato per una piazza e mezza. Il problema erano le lenzuola. Sul mercato riusciva a trovare solo lenzuola che non lo soddisfacevano. Si trovava quindi costretto a comprare il tessuto necessario e a commissionare le lenzuola all’uomo dei vetri (così lo chiamava, perché ogni mese si occupava della pulizia dei vetri di casa). L’uomo aveva una moglie portata per le attività manuali e il tutto gli costava non poco.

    Ma il signor Johns era un tipo preciso e ci teneva alle lenzuola, che si faceva confezionare prevalentemente nei colori bianco, azzurro e tabacco. Al posto di un comodino, vicino al letto c’era un cesto piatto di paglia, dove buttava tutto in ordine sparso (libro, orologio, l’acqua che non beveva, ma che preferiva comunque avere accanto a sé).

    Nel complesso la sua casa si divideva nettamente in due aree: la zona giorno piacevole e rilassante, la zona notte fredda e sterile. Il tutto avvolto da un ordine e una pulizia quasi maniacali.

    Quella sera, quindi, il signor Johns rincasò piuttosto presto. Era il periodo dell’anno che preferiva. Fine marzo, non più freddo ma non ancora caldo. Gli alberi cominciavano a risvegliarsi e la forsizia aveva già regalato la sua solare energia.

    Fece meccanicamente tutte le azioni che ripeteva ogni giorno. Salutò il portiere, prenotò l’ascensore, schiacciò l’8, infilò le chiavi nella toppa, ma a quel punto successe qualcosa di imprevisto. Il gatto scappò fuori di corsa, fece la prima rampa di scale e si fermò sul pianerottolo che conduceva al solaio. Perché?, si chiese. Artù era abitudinario. In genere lo aspettava in terrazza, sul cornicione. Sentiva il suo arrivo fin dalla strada, di questo ne era convinto. Non aveva mai dimostrato la benché minima voglia di uscire di casa, anzi se ne guardava bene. Quando doveva portarlo da qualche parte, tipicamente dal veterinario per le vaccinazioni di rito, impiegava almeno un’ora a convincerlo che la cesta non conteneva nulla di pericoloso, che poteva fidarsi e varcare la piccola porta di vimini.

    Dopo aver osservato il gatto, quasi volendo trovare nei suoi occhi spaventati una risposta, aprì con calma la porta. Guardò all’interno. Non c’era nulla di anormale, il salone lo attendeva con i consueti colori del tramonto che filtrava dai vetri. L’ordine imperturbabile delle cose non era stato infranto. Eppure, cos’era quell’odore? Cipolla? Sì, senza alcun dubbio era cipolla, ma c’era anche della salvia. Guardando più con più attenzione, notò che la porta che dava sulla zona notte era aperta. Da lì uscivano rumori sinistri. Doccia? Chi faceva la doccia nel suo bagno? Dimenticandosi dell’odore di cipolla o di salvia o di quello che fosse, si precipitò verso il bagno. Proprio in quel momento il rumore cessò. Dalla porta del bagno lasciata aperta intravide qualcuno vicino alla cabina-doccia, con indosso il suo accappatoio grigio con il bordo bianco.

    «Ma chi diavolo è lei?», chiese seccamente.

    «Ah!», esclamò quasi gridando la sagoma avvolta dall’accappatoio.

    Mentre si girava, il signor Johns poté notare che si trattava di una ragazza. Una ragazza dai capelli chiari, con la punta del naso e le gote rosse. Quel colore spiccava sul suo volto, di un bianco latte. Del resto non si intravedeva nulla, e, d’altronde, il suo pessimo umore non gli avrebbe permesso di notare altro. In ogni caso la ragazza stringeva a tal punto il cappuccio dell’accappatoio che sembrava quasi volersi soffocare.

    «Mi ha fatto venire un accidente. Pensavo che mia zia l’avesse avvisata. Non è così?».

    Il signor Johns sbiancò in viso per la sorpresa e il malumore.

    Tagliò corto. «Ah sì, lei deve essere…».

    «Irene Pakoronias».

    «Già, Irene».

    Lui si guardò attorno. Notò i suoi asciugamani gettati per terra, gocce d’acqua ovunque, tre ditate sullo specchio. Non indossa neppure le ciabatte, pensò. Ma lasciò perdere e continuò.

    «Bene, piacere, Johns. Mi scusi per la rudezza di prima. Non sono abituato a ricevere visite».

    «Non si preoccupi, lo so».

    «Lo sa? E come lo sa?»

    «Zia Matilde mi ha avvisato».

    «Bene, comunque non c’è problema».

    «Ne sono certa», sorrise Irene. «Ora, se non le spiace, vado a vestirmi». Tornò verso lo specchio. Prese una spazzola e iniziò a pettinarsi come se nulla fosse successo.

    «Ma certo», rispose lui, e intanto gli rivenne in mente Artù, che doveva assolutamente far rientrare.

    Si domandò se non fosse diventato pazzo. Come ho potuto accettare tutto questo? Era consapevole che ormai era troppo tardi.

    Il profumo di salvia diventava sempre più intenso. Veniva voglia di respirare a pieni polmoni per assorbirne l’aroma intenso. Si mise a sedere sul divano e guardò verso la terrazza. In un lampo di speranza si morsicò la lingua. No, non stava sognando. Così, oltre alla triste realtà, provava pure un dolore acuto in bocca.

    Squillò il telefono.

    «Pronto», rispose controvoglia il signor Johns.

    «Avvocato, è lei? Che piacere. Ha già incontrato la mia nipotina?»

    «Certo, cara Matilde, è deliziosa», mentì, ben conscio di farlo.

    «Non avevo dubbi, vedrà che andrete d’accordo. Come le dicevo, Irene è un’ottima cuoca. Ha un carattere deciso, ma saprà ringraziarla preparandole manicaretti speciali».

    «Non vedo l’ora», rispose lui, abituato alla consueta diplomazia che impongono i doveri professionali. Sapeva infatti che le proprie abitudini culinarie erano ben diverse.

    Carattere deciso, pensò. Che significava? Non lo aveva detto prima.

    «Bene, mio caro Johns, ora la saluto. Chiamerò Irene più tardi. Domattina il suo collega le consegnerà il nuovo contratto. Me lo invii al più presto!».

    «Certamente e buon viaggio».

    Ora ricordava tutto. Si rammentò della telefonata di Matilde risalente a circa un mese prima.

    «Avvocato Johns?»

    «Sì, chi parla?»

    «Salve, avvocato, sono Matilde, l’affittante della sua casa. Affittante,

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