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Una casa troppo tranquilla
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E-book333 pagine4 ore

Una casa troppo tranquilla

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Info su questo ebook

Ai primi posti delle classifiche di tutto il mondo

Un grande thriller dall’autrice del bestseller Una famiglia quasi perfetta

Per Beth incontrare Albie, chirurgo dalla carriera in ascesa, ha significato ricominciare da zero e lasciarsi il passato alle spalle. Adesso Beth sembra avere tutto ciò che desiderava: un marito nuovo di zecca, una vita da inventarsi da capo e un futuro luminoso davanti a sé. Per conto suo, anche Albie pare attraversare un buon momento: il suo mentore, Ted, l’uomo che con autorevolezza e fascino magnetico tiene le fila dell’intero ospedale, gli ha fatto capire che intende fare di lui il suo “erede”. Ma quello che non sa, o che la sua ambizione sfrenata gli impedisce di vedere, è che qualcosa si sta già incrinando nella sua vita perfetta. E in lontananza si scorgono i lampi che annunciano l’arrivo di una tempesta di dimensioni catastrofiche…

Dall’autrice del bestseller numero 1 in classifica Una famiglia quasi perfetta

Esiste veramente il matrimonio perfetto?

«Leggi Jane Shemilt e l’inquietudine è assicurata. Oggi il brivido è donna. E i gialli al femminile hanno un’arma in più, i travagli dell’anima.»
Il Venerdì di Repubblica

«Jane Shemilt sa come tenere alta la suspense e la sua prosa eloquente dipinge alla perfezione il tormento.»
Booklist

«Un Macbeth moderno, con un senso del luogo irresistibile, ottimi colpi di scena e un finale intenso e teso.»
Sarah Vaughan, autrice bestseller di Anatomia di uno scandalo
Jane Shemilt
È un medico di professione e ha conseguito una laurea in Scrittura creativa alla Bristol University e una specializzazione all’università di Bath. Il suo romanzo d’esordio, Una famiglia quasi perfetta, è diventato un bestseller internazionale e le ha dato un’immediata notorietà. La Newton Compton ha pubblicato anche Un delitto quasi perfetto e Una casa troppo tranquilla. Vive a Bristol con il marito, professore di neurochirurgia, e i loro cinque figli.
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2018
ISBN9788822719232
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    Anteprima del libro

    Una casa troppo tranquilla - Jane Shemilt

    Prologo

    Hampstead Heath

    Al crepuscolo, Londra ha uno sfolgorio da luna park.

    A questa distanza, le stradine e le file di case si perdono. I graffiti e le bande, gli ubriachi e i ladri, le volpi e i bidoni dell’immondizia, tutto svanisce nella semioscurità. Quello che si vede non è quello che è, quello che si vede non è neanche la metà di quello che c’è.

    Ci sono quattro donne sotto gli alberi. Condividono uno spinello; la luce scivola lungo un piercing argentato, evidenzia la punta di un naso, tatuaggi di un sodalizio.

    Non parlano molto, non è necessario. Il piano è stato ideato anni fa.

    È una questione di tempismo. È una questione di vita e di morte, soprattutto di vita. Chi salveranno e chi no. Si stringono insieme e sussurrano, la rovina è nell’aria. Fumo si leva dalle bocche.

    I loro cani sono irrequieti, il pelo bagnato emana un cattivo odore. Tirano i guinzagli, impazienti di andare.

    Aspettate, dicono. Arriverà anche il vostro turno.

    Londra scintilla, una ragnatela offuscata dalla pioggia.

    Atto primo

    1

    Londra. Fine estate 2015

    Comincia con uno sguardo. Beth si chiede, e lo sguardo intanto le diventa fisso, se dovrebbe andarsene, lasciare la festa, evitare la possibilità di complicazioni e delusioni, tornarsene sana e salva al monolocale sopra al lavasecco, al bicchiere di vino vuoto sul comò, la tazza nel lavandino, i depositi granulosi lungo l’orlo.

    Anche se in quel momento ha ancora una scelta, è già troppo tardi per farla. Era troppo tardi settimane fa. Avrebbe dovuto ignorare l’invito affisso alla bacheca della sala caffè e non uscire di casa; avrebbe dovuto fermarsi sulla porta della sala riunioni o andarsene prima che lo sconosciuto comparisse dietro Ted. Ora che l’ha visto in faccia, è in trappola.

    Sta insieme a delle colleghe e ascolta in modo distratto le loro chiacchiere. L’accento dello Yorkshire di Stephanie è confortante: a volte Beth ha immaginato di appoggiare la testa contro quel petto morbido e raccontarle tutto. Helena è un tipo forzuto coi capelli sottili e rappresenta il sindacato degli infermieri. Con quel suo muovere la testa come un uccello pare che osservi con aria scaltra e raccolga informazioni. Beth le ha incontrate fuori per caso ed è entrata con loro, sorridendo, come se il coraggio non l’avesse abbandonata sulla soglia. Arrivano altre infermiere, soprattutto madri. Durante la settimana è stato tutto un parlare su cosa indossare, su come convincere i mariti a badare ai bambini, su quanto tardi poter rientrare. Beth ha ascoltato senza dire niente. Voleva rivedere Ted, ma a distanza, osservarlo con la famiglia. Le sue più recondite motivazioni sono avvolte dalle tenebre, anche se la principale è il castigo. Il rimorso di Ted e il castigo, per quanto ancora senza forma.

    Lungo il soffitto sono sospese delle bandierine. Ci sono palloncini color pastello attaccati agli schienali delle sedie. La musica si diffonde da invisibili altoparlanti. Il tavolo lungo è stato spinto contro la parete e ricoperto di tovaglie. Già ci sono macchie di vino, resti sparsi di lattuga, l’odore penetrante dell’insalata di cavolo e quello sulfureo delle uova sode. Bottiglie verdi dal collo imperlato emergono dal ghiaccio e tre ragazze si muovono per la sala con vassoi di coppe piene fino all’orlo di champagne. Le offrono senza un sorriso. Beth si sente giudicata da quegli occhi bassi, vergognandosi delle risatine sciocche delle amiche che afferrano bicchieri a ogni passaggio di vassoio.

    La stanza si riempie rapidamente, il caldo e il frastuono aumentano. I primari sono in gruppo al centro, tra loro un paio di chirurghe, in eleganti abiti di seta e in volto i segni della stanchezza. I colleghi sono per lo più floridi uomini di mezza età. I dottori più giovani si aggirano ai bordi di questi capannelli, dondolando sui tacchi, giocherellando con i telefonini, guardandosi a vicenda. Attorno al collo pendono superflui stetoscopi. Nel Serengeti con Ted anni fa, aveva visto giovani leoni girare attorno ai più anziani, in cerca di inclusione prima, supremazia poi.

    Fra gli uomini, alcuni lanciano uno sguardo verso il suo gruppo, superano all’unisono le amiche e si posano su di lei. I volti si fanno seri, tradiscono interesse. Stasera Beth ha un look esotico, più da seduttrice che da infermiera. La chioma scura le ricade pesantemente sulle spalle, ha un laccio nero attorno al collo, eyeliner nero, uno squarcio rosso di rossetto. Gli zigomi scintillanti. Le amiche in abiti scollati di seta sono un po’ più anziane, meno curate; nel vederla hanno strillato per lo stupore, come se il suo aspetto fosse dovuto a magia più che abilità. In mezzo alla loro morbidezza si sente tagliente, luccicante come un coltello.

    Nota subito Ted: è facile da individuare. Alto, biondo, la postura. Beth si avvicina lentamente, nascosta tra la folla, un’outsider di passaggio. Gli è accanto la moglie, si tengono per mano. Beth si ferma, ricalcola. Non teneva mai Jenny per mano. Otto anni fa, quando l’ha conosciuto, marito e moglie stavano ai lati opposti della stanza. Oggi, Jenny indossa abiti ampi color grigio, la figura è sommersa dalla stoffa. I capelli ribelli legati in uno chignon e venati di bianco. Beth vede lo sguardo azzurro saettare nella sua direzione e poi spostarsi. Jenny sa esattamente chi è Beth, probabilmente lo sa da anni. Ormai deve aver trovato una casella in cui inserirla. Ci sono anche i gemelli, riconosce Ed. Sta accanto ai genitori, scuro e spigoloso come la madre, a cui volta la testa, come se cercasse di allontanarsi. Ted diceva sempre che il ragazzo era più legato a lui che a Jenny; si prendeva il merito di avergli fatto superare la riabilitazione, non gli era mai venuto in mente che potesse essere lui parte del problema. Dietro Ed c’è una ragazza dai capelli rossi in abito verde, gli cinge la vita con il braccio, stringendosi a lui, timida. Accanto a loro, un’immagine speculare maschile della giovane scruta attentamente la sala: i tratti delicati della ragazza sono affilati in un muso volpino. Si volta a parlare con Ed, che annuisce e ride. Un gruppo dentro il gruppo, facile da decodificare: Ed, la sua ragazza, il di lei fratello maggiore che sembra legato a Ed. A occhio e croce, è venuto prima lui e poi gli ha presentato la sorella. Il figlio incasinato e tossico di Ted si è attaccato al padre di successo. Theo, il fratello fotografo, agile e chiaro come Ted, ciondola in un angolo della stanza con una macchina fotografica al collo. La sorella non c’è, ovviamente.

    Ted è il centro gravitazionale della sala, un re con la sua corte. I giovani dottori che gli stanno più vicini fanno a gara per farsi notare. Ha gli occhi limpidi, il gonfiore è scomparso. Deve aver smesso di bere. Ha lo sfolgorio di un uomo che ha vinto le proprie battaglie, che ha seppellito profondamente gli antichi dolori. Si china per bisbigliare qualcosa all’orecchio di Jenny, lei sorride: dunque ha ricucito il matrimonio, quando prende una decisione è difficile resistergli. Anche lei è stata convinta, una volta. Ha dell’amaro in bocca, il sudore le pizzica il collo. Ted si raddrizza e sorride, sa di avere tutti gli occhi addosso, ma non immagina che ci sia lei, non invitata e ormai esclusa dalla sua vita. Beth brinda silenziosamente a lui. Dopo la scomparsa della figlia di Ted, al centro dell’attenzione per un po’ c’è stata la tragedia familiare. Quando i corrispondenti di guerra parlano di danni collaterali, Beth sa cosa significa.

    Il vino ha un gusto salino, costoso. Il preferito di Ted. Era quello che bevevano sempre i primi anni mentre si spogliavano a fine giornata, prima che lui tornasse a casa. Il martedì e il giovedì. Beth sorride con le amiche, ma altri fantasmi le si accalcano intorno. Dalle ombre echeggia la risata ebbra della madre: alle feste aleggiano sempre i genitori. Morti da vent’anni, egocentrici e quasi sempre ubriachi. Non c’era spazio per nessun altro, e sicuramente non per lei. Di certo stavano litigando prima dell’incidente, litigando e urlando come al solito. L’altro fantasma è radicato più in profondità: l’altra figlia di Ted, quella che lui non ha mai visto.

    Ted sta ascoltando un uomo dalle ampie spalle con i capelli ricci ramati che è seminascosto dietro di lui, ma con gli occhi scruta anche i presenti: i primari, gli infermieri, i giovani medici, gli anestesisti e i radiologi. Osserva tutti coloro che lo osservano e che si stia godendo il momento è evidente dal modo in cui atteggia la bocca, con una smorfia di trionfo. Una vanità nuova e sgradevole. La camicia è tesa sulla pancia, quando si raddrizza mette la mano dietro la schiena. Ha dei capelli bianchi, rughe più profonde in faccia, e crudeli attorno alla bocca. Dovrebbe ormai essere arrivato ai sessanta. Beth ha meno della metà dei suoi anni.

    Se ci si può innamorare dall’altra parte di una stanza, ci si può anche disamorare, come quando si cade dall’alto per atterrare in un posto diverso con uno scossone che ti sconvolge la mente. Forse in tutto questo tempo si è sbagliata. Forse in realtà non lo vuole, non lo ha mai voluto. Vuole quello che lui ha: famiglia, sicurezza, denaro. Amore. Cose semplici e inimmaginabili. I figli gli sorridono, la moglie lo tiene per mano.

    Due flash. Theo è accovacciato contro la parete, sorride e scatta a ripetizione. L’uomo con i capelli ramati ha fatto un passo avanti e batte il bicchiere con un coltello. Al tintinnio del metallo sul vetro le teste si voltano, il chiacchierio scema. Le spalle e il colore dei capelli le sono familiari. L’ha visto da lontano nel parcheggio parlare con Ted o camminare in fretta per i corridoi dell’ospedale, a testa china, circondato da un gruppo di persone. Un uomo di corsa che crea movimento intorno a sé. Ora si è infine rivelato, volto fresco e attraente. Ha indosso un kilt, una giacca di tweed appoggiata alle spalle. I colori spiccano accanto all’abito nero di Ted. Ha un’ossatura più forte di molti dei presenti, zigomi alti, occhi distanti. Nordico, vichingo. Ha l’aria di un soldato prima della battaglia, calmo e pronto a combattere. Le lentiggini lo fanno sembrare molto giovane.

    «Signore e signori, un momento, prego». La voce è sicura, scozzese. «Siamo qui per celebrare i successi di un uomo eccezionale. Grazie al professore stiamo mettendo a punto cure per alcune delle più gravi patologie esistenti».

    Mentre parla gli si muovono le spalle, i piedi vanno avanti e indietro. Se fosse un animale sarebbe un cavallo in forma perfetta, da cui si sprigiona energia simile a calore. Un tempo anche Ted era così.

    «Sono in corso ricerche scientifiche molto speciali, con entusiasmanti prospettive», dice il giovane agli astanti. «Da quando il National ha strappato Ted da Bristol quattro anni fa, il nostro dipartimento è andato di bene in meglio». Uno scroscio di applausi. «Mi ha seguito da quando ho iniziato un paio di anni fa. Amico, mentore, il miglior maestro che abbia mai avuto: è un onore far parte della sua équipe». Pare sincero come un bambino. Leva il bicchiere. «Innanzitutto un brindisi a Jenny; sapete come si dice: dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna…».

    Due donne. Per sette anni è stata lei, Beth, a stare nell’ombra dietro Ted, più vicina a lui di Jenny. Come a comando, Ted si volta verso la snella sagoma della moglie, la cinge con le braccia e l’attira a sé per un bacio. Ed distoglie lo sguardo prima che riprendano le risate e si levi una breve acclamazione.

    «Al professor Edward Malcolm, nuovo presidente dell’Associazione dei neurochirurghi britannici!».

    Altri applausi. Ted alza le mani per schermirsi e fa un passo avanti. Si ravvia i capelli, alza il mento e comincia a parlare. Le parole si susseguono senza intoppi, ringrazia il giovanotto per l’elogio con un sorriso autoironico, fa diverse battute e si interrompe per lasciare spazio alle risate. Annuisce ai presenti con sorrisi riconoscenti che sembrano personali. Ringrazia la sua équipe, la moglie, i figli. La performance è magistrale.

    Beth si è spostata avanti, vicino al giovane scozzese che è ora accanto a Ed. Mentre osserva Ted, i tratti gli si sono ammorbiditi. Sarà un aiuto di livello intermedio, che lavora sulla parte teorica del tirocinio forse, chino su un microscopio in laboratorio. Intelligente e ambizioso, Ted assume solo persone a lui simili. Provenienti da Oxbridge, di solito, anche se questo pare abbia affrontato un percorso più duro. Di profilo, il naso si abbassa quasi alle labbra; sulla tempia c’è una cicatrice a triangolo, e una frastagliata sul mento.

    La voce di Ted si alza, siamo alla fine del discorso. «…Perciò brindo a Baird McAlister, una star in erba». Leva il bicchiere al giovanotto. «E alla prossima generazione di dottori, che porteranno avanti questa ricerca a livelli che possiamo solo immaginare». Sorride a Ed, che dovrebbe essere ormai specializzato. Il figlio guarda accigliata in terra, con le guance rosse per l’imbarazzo. L’amico volpino gli mormora all’orecchio e Ed alza la testa con un ghigno. Beth è abbastanza vicina da afferrare la conversazione, voltando la testa per non essere riconosciuta.

    «…dinamiche familiari in atto, davvero interessante».

    «Sta’ zitto, Jake Valance». Ed sembra irritato. «Non fa notizia».

    «Potrebbe invece. Il padre celebre, il figlio ribelle; perfetto per il Sunday Times».

    «Non avresti il fegato».

    Scoppiano a ridere. Quindi l’amico di Ed fa il giornalista: un osservatore di professione che si guarda intorno è stato a sua volta esaminato. Beth si allontana mentre Ted si riunisce alla famiglia durante un lungo applauso. La musica si fa più alta e le luci si abbassano. Diverse infermiere cominciano a ballare in cerchi. Un paio di medici del Pronto Soccorso, giocatori di rugby dal collo taurino, si muovono nella sua direzione. Beth si avvicina a Baird McAlistair. Ha i capelli color del fuoco. Se potesse toccarglieli ha l’impressione che si scotterebbe le mani. Come se avvertisse la sua presenza, si volta a guardarla. Per prima cosa Beth nota le iridi, grigie venate di arancione, il colore della brace, e poi il proprio riflesso nelle pupille: volto pallido, corpo fasciato. Concentrata.

    «Bel discorso», dice, levando il bicchiere.

    Nella giacca, ci sono fili verdi, blu e arancioni; da vicino odora di asciugamani puliti e disinfettante. Lui scuote il capo ma sul volto balena un’espressione di piacere. Socchiude gli occhi, il riflesso di Beth sparisce.

    «Quello del mio capo è stato di gran lunga migliore». Indica Ted che sta ora tracannando un bicchiere di rosso dopo l’altro come a recuperare il tempo perduto. Theo scatta fotografie in rapida successione, i due del Pronto Soccorso sono scomparsi. «Queste cose gli vengono spontanee».

    Non è vero. Si esercita, Beth lo sa. Cammina su e giù, esercitandosi finché il discorso non è perfetto. Non c’era niente di vagamente spontaneo in quel discorso. Si chiede se Baird l’abbia già notata, come lei ha notato lui, e se i pettegolezzi l’abbiano associata a Ted. Aveva lasciato intendere di avere un ragazzo, un imprenditore di successo, spesso all’estero. Quando erano cominciate a circolare le voci di una relazione di Ted, nessuno aveva sospettato della distante e assorta Beth. Volta le spalle al gruppo di Ted, non vuole comparire nell’album di famiglia.

    «Il tuo era meglio».

    Arrossisce fino all’attaccatura dei capelli, tra loro passa un momento di tacita approvazione, poi le sorride. Sorride con tutta la faccia: la bocca si schiude, gli occhi danzano, persino le orecchie si muovono leggermente. Difficile non ricambiare il sorriso.

    «Sei molto legato a Ted».

    «Certo. Gli devo tutto».

    «Gli devi?». Ha un tono leggero, quasi divertito, ma sa bene come si sente: anche lei un tempo si sentiva a quel modo.

    «Da tutti i punti di vista. Mi ha dato opportunità per cui molti aiuti avrebbero fatto carte false. Sono stato sotto la sua ala protettrice fin dal principio. All’inizio ho commesso uno stupido errore e lui se n’è preso la colpa». Una rapida occhiata in tralice. «Non avrei dovuto menzionarlo, non dirlo a nessuno».

    «Non c’è niente da dire». Gli sorride guardandolo negli occhi. «Parola di scout».

    Il giovane ricambia il sorriso, sembra sollevato. In effetti c’è in lui qualcosa del boyscout; gli si potrebbero attribuire parole come innocenza, lealtà, probabilmente anche bontà. Ingenuità, forse. Non c’è da stupirsi che Ted si sia legato a lui, una persona da poter plasmare, la cui devozione accresce il suo ego. Il suo successore: forse dovrebbe metterlo in guardia.

    «Giurerei di averti già vista da qualche parte». Gli occhi grigi frugano nei suoi. «In reparto, forse. Sei una dei dottori appena specializzati incaricati di proseguire la mia ricerca?».

    Quindi l’ha notata. Vorrebbe dirgli che avrebbe potuto essere una dottoressa se avesse avuto più soldi, se i suoi genitori fossero stati sobri abbastanza per risparmiarli. È uno di quei tipi che starebbe ad ascoltarla.

    «Sono infermiera di sala», risponde, sollevando il mento. «Ortopedia».

    «Lavoro duro». Pare che lo dica con sincerità. Non può sapere quant’è duro stare in disparte come una serva, porgendo bisturi quando vorrebbe fare lei il taglio, delicato, preciso. L’ha visto così spesso che a volte pensa di poterlo eseguire a occhi chiusi.

    Si avvicina una cameriera, con un vassoio pieno di fumanti Yorkshire pudding, coppe in miniatura con dentro pezzi di carne rossa e il sangue che cola dalla sfoglia. La ragazza è un po’ troppo giovane, a occhio e croce sui quindici anni, una bionda platino con occhi obliqui color dell’acqua. Ha la bocca piegata in giù: è lì di malavoglia. È vestita di nero con un grembiule bianco decorato a volant come se recitasse la parte della cameriera in una commedia con il costume giusto. Ha il volto inespressivo. Preferirebbe stare da qualche altre parte, in un’altra commedia. La mano che regge il vassoio trema, alla base del pollice c’è il tatuaggio di un minuscolo topo.

    «Carino», fa Beth con un sorriso.

    La ragazza gira la mano per reggere il vassoio da sotto, nascondendo il pollice. Ha occhiaie verdastre: una studentessa stanca che fa un lavoro serale. Anche Baird McAlister l’ha notato. Sorride alla ragazza e prende un pudding, poi un altro e un altro ancora. Se li mette in bocca e spariscono come per magia.

    «Come facevi a sapere che stavo morendo di fame?», scherza, ma la ragazza indietreggia come se avesse scoperto di essere caduta in un tranello. Beth vede aggirarsi per la sala le altre due cameriere. Sembrano più anziane. Una è alta, poco sotto i trenta, sguardo obliquo e folti capelli grigi legati su una faccia ossuta; la più bassa ha spavaldi occhi marroni e un naso all’insù: con i suoi riccioli rossi assomiglia a un gatto tartarugato. Malgrado i colori diversi sono simili, versioni diverse della stessa ragazza. Un’azienda familiare. Beth si trattiene, lacerata come sempre. Sorelle. Le avrebbero cambiato la vita.

    «C’è qualcosa nel roastbeef che riesce a ripristinare l’autostima», dice Baird McAlister, chinandosi un poco verso Beth. «Prendine un pezzo».

    «Buon cibo e una bella donna. Come diavolo fai, Albie?». Dietro Baird è comparso un giovanotto pallido. Una nuvola opaca di capelli gli spumeggia sul colletto della giacca viola. «Sono Bruce». Gli occhi socchiusi luccicano.

    «Beth», replica lei con un sorriso.

    «Io e Albie siamo compagni d’armi. Ci contendiamo le risorse, come i nostri ratti da laboratorio». Si avvicina per appoggiarle una mano da talpa sul braccio. «Dov’è che sono finite quelle bellezze coi vassoi?». Fa un’espressione da animale che emerge dalla tana in cerca di cibo.

    «Svanite nel nulla, devono averti visto arrivare», gli dice Baird McAlister con una punta di irritazione.

    Per Beth è un buon momento per andarsene. Baird sa il suo nome e dove lavora: meglio che sia lui a cercarla. Mentre si accomiata, Baird sposta lo sguardo su qualcuno alle spalle di Beth e fa un ampio sorriso. Voltandosi, vede Ted che la fissa, la bocca atteggiata a un mezzo sorriso.

    «Vedo che hai conosciuto Albie», mormora, come se spartissero un segreto, come se nulla fosse cambiato. Gli trema la voce.

    Una calda sensazione di trionfo le invade la gola; lo supera, con un leggero sorriso. Chiunque osservi la scena penserà che lo conosca a malapena, che sia poco interessata, un po’ annoiata.

    Neanche si accorge del tragitto fino alla stazione o della corsa del treno fino a casa, non prende il bicchiere sul comò, né lava la tazza nel lavandino. Si mette a letto ma non dorme. Tende la mano verso la striscia di luce che cade sul letto dal lampione sulla strada e allarga le dita più che può come a cercare di afferrare la stecca luminosa tra i morbidi margini d’ombra. Il volto del giovane chirurgo le brilla nella retina come un’immagine residua del sole, eclissando completamente Ted.

    2

    Londra. Autunno 2015

    Il palcoscenico. Un attore, le sue vittime. Il testimone. Ambizione, Fato, Destino ecc.

    Testimone: con la presenza e la percezione può vedere, ascoltare o conoscere.

    Il testimone può essere uno spettatore, un nemico, un amante. Un osservatore. Può essere qualcuno che all’inizio neanche si nota.

    Ambizione: si aggira dietro le quinte.

    Fato: annunciato da un rullo di tamburi nella fossa dell’orchestra.

    Destino: dirige l’azione a modo suo.

    Le gabbie si susseguono lungo tre pareti dello stabulario al decimo piano. Sono numerate e ricoperte di segatura e nastri di carta. Quattro ratti ciascuna. Squittii e strascichii attutiti riempiono la stanza, insieme all’odore dolciastro e polveroso del mangime per animali.

    Il nuovo assistente di laboratorio non è arrivato. Albie curva le spalle, il camice blu gli sta stretto sulle braccia. La settimana scorsa ha notato appeso dietro la porta un camice bianco abbandonato di una taglia più grande degli altri. In una tasca sul permesso di plastica per il parcheggio c’era scritto Professor Malcolm, piano inferiore, solo primari. Albie ha tenuto con le mani il camice valutandone le dimensioni e poi l’ha rimesso a posto. Ted non ci farebbe caso, ma Bruce sì. Lo prenderebbe in giro. Un pretendente. Bruce dovrebbe essere già lì a lavorare per il PhD; è in ritardo come al solito. Dichiarerà qualche pittoresca avventura sessuale della notte precedente, poi tirerà fuori dalla tasca un foglio stropicciato, una brillante analisi dei risultati, scarabocchiati a penna verde e completati sull’autobus. Un pericolo e no. Da bambino, ad Albie la storia della lepre e della tartaruga è sempre parsa giusta: nelle lunghe notti in laboratorio compare a sostenerlo la sagoma di una piccola tartaruga grigia, con l’occhio scintillante sotto la palpebra, che supera lentamente la lepre sdraiata.

    I minuti passano, niente tecnico. Albie apre la gabbia numero otto e tasta all’interno. La lunga bestia bianca gli si contorce tra le mani. La solleva, tenendogli ferme le spalle e la coda. Nella sala operatoria, la sistema nella scatola rossa anestetica e preme un pulsante: il ratto si ripiega dolcemente in terra. Molle, sembra più pesante. Gli inietta nella vena caudale della ketamina poi lo sistema in una morsa, con sbarre mobili di metallo tra le orecchie per tenere ferma la testa. Aprendo la minuscola mascella, colloca un’altra piccola sbarra contro il palato duro. Si lava a fondo le mani per diversi minuti per evitare qualsiasi contaminazione: questi ratti sono stati allevati in ambiente sterile. Un’amara beffa: sono tenuti e operati in condizioni di scrupoloso igiene in modo da poter sopravvivere per essere studiati come vittime della malattia letale che gli inietterà. Non arresta la preparazione, quel pensiero gli è ormai familiare. Dopo aver indossato guanti e mascherina, incide il cuoio capelluto lungo la sezione sagittale, tira i morbidi lembi di pelle, poi trapana il piccolo cranio. Si raddrizza per dare sollievo alle spalle poi prende la siringa e infila senza intoppi l’ago nel cervello. Una volta in posizione, inietta quattro microlitri di liquido, denso di cellule tumorali. Ha visto ieri una bambina con quel tumore. Ted l’ha chiamato in ambulatorio. Il padre era un ricco imprenditore abituato a controllare ogni situazione: i suoi appunti sui sintomi erano sulla scrivania, rappresentati in un grafico, come se questo potesse permettergli di dominare la malattia. La figlioletta gli stava accoccolata in grembo, con un sorriso sdentato e delle ali trasparenti appuntate alla giacchetta rosa. Messa in piedi, aveva sbandato di lato e attraversato la stanza barcollando. Un occhio era rivolto verso l’interno. La tac evidenziava un tumore delle dimensioni di una noce nel tronco encefalico. Sarebbe morta nel giro di sette mesi. Dopo l’orario di ambulatorio Ted l’aveva chiamato.

    «Cosa ne pensi, Albie?».

    Aveva un tono indagatore. Non cercava solo una sintesi delle possibili terapie, voleva sapere cosa provava Albie.

    «Compassione. Rabbia», aveva risposto lentamente Albie. Aveva cercato le parole per trasmettere lo slancio di determinazione che aveva provato rientrando in laboratorio.

    «Va’ avanti».

    «Se proseguiamo su questa strada, potremo aiutare bambini come quella. Mi ha aperto gli occhi. Mi ha fatto capire…». Non era stato capace di comunicare la pena e la certezza che lo animava: temeva di apparire troppo emotivo.

    «Che vale la pena fare quello facciamo», aveva completato per lui Ted.

    Si era stupidamente limitato ad annuire al telefono.

    «Sei una brava persona», aveva detto nel silenzio Ted. «Ho sempre pensato che avessimo

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