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Un regalo per Miss Violet
Un regalo per Miss Violet
Un regalo per Miss Violet
E-book387 pagine5 ore

Un regalo per Miss Violet

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Info su questo ebook

Il libro evento dell’anno 
Unico e stiloso allo stesso tempo

Bestseller di USA Today

A Madison c’è un negozio di vestiti vintage dove tutte le signore del posto si ritrovano in cerca di consigli e suggerimenti, e non solo sugli outfit. Violet Turner, che lo gestisce, sta cercando di dimenticare il suo passato e rendersi indipendente, soprattutto dopo il matrimonio fallito con un uomo troppo dedito alla bottiglia. Guanti, cappellini, vestiti e scarpe sono il pretesto per raccontarsi e trovare la strada da seguire nella vita. Lei stessa non è mai stata attratta dalle vetrine troppo raffinate, in cui tutto è immacolato, freddo, vuoto, mentre il fascino di un oggetto deriva dalla storia che ha vissuto e, quando non la conosce, si diverte a immaginarla nella sua testa. Storie d’amore tragicamente finite, promesse mantenute e infrante, segreti mai confessati. Tutto questo per Violet continua a vivere nei vestiti che ogni giorno propone alle sue clienti, perché sa bene che un oggetto può continuare a suscitare emozioni. Basta solo trovare il proprietario giusto. E così, quando una ragazza infreddolita si ferma davanti alla vetrina stringendo al petto un meraviglioso abito da sposa anni Cinquanta, la mente di Violet comincia a viaggiare...

Una storia favolosa
Un romanzo unico e romantico dove lo stile è una questione di cuore

«Un’autrice che ha letteralmente stregato i lettori con una storia di redenzione, amicizia e amore.»
Booklist

«Questo romanzo farà impazzire chi ama le storie piene di personaggi carismatici e di emozioni.»
Library Journal

«Susan Gloss ha creato un mondo vivace e accogliente all’interno del negozio di Violet. I suoi personaggi hanno grinta da vendere e ho adorato il tocco glamour di questo romanzo.»
Michelle Wildgen

«Susan Gloss scrive di vestiti e accessori in modo delizioso, ogni pagina è un regalo.»
Susanna Daniel
Susan Gloss
è un’autrice bestseller di USA Today e fa orgogliosamente parte della Tall Poppy Writers, un’associazione di donne scrittrici di tutto il mondo. Si è laureata all’Università di Notre Dame in Inglese e in Spagnolo e ha proseguito gli studi in legge all’Università del Wisconsin. Vive con la sua famiglia a Madison.
LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2018
ISBN9788822730015
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    Anteprima del libro

    Un regalo per Miss Violet - Susan Gloss

    Capitolo 1

    Articolo: Abito da sposa

    Data indicativa: 1952

    Condizioni: Buone, lieve scolorimento sulla fodera interna

    Descrizione: Abito lungo fino alla caviglia, color avorio,

    con scollo a barca e maniche ad aletta;

    taffetà di seta con sottoveste di crinolina

    Origine: Abito ricevuto dalla figlia della coppia,

    venduto poche settimane dopo la morte del padre

    Violet

    Sotto i frassini di Johnson Street, a est del campus, il Vintage Shop si trovava in un edificio di mattoni rossi segnato dal tempo e dagli agenti atmosferici, incastrato tra un caffè equo e solidale e un negozio di ricambi per biciclette. Dietro le vetrine della boutique, Violet Turner stava sistemando un prendisole plissettato su un manichino.

    Sospirò vedendo gli studenti universitari, con le sciarpe colorate e i volti arrossati, correre davanti al negozio senza degnare di uno sguardo né lei né gli abiti esposti in vetrina. In quelle giornate uggiose di primavera la gente era frenetica e badava solo alle questioni concrete. Violet detestava entrambe le cose. Quando erano troppo impegnate, le persone non si mettevano a gironzolare nel suo negozio per comprare monili di bachelite o guanti di velluto di inizio secolo. Persino gli esuberanti musicisti di strada – suonatori barbuti di musica country che in genere si piazzavano sempre nel solito punto del marciapiede – avevano riposto il banjo nella custodia e se n’erano andati.

    Violet si aggiustò una ciocca di capelli neri dietro l’orecchio e si chinò per allacciare il cinturino di un sandalo di tela e corda alla caviglia del manichino. Quando si rialzò, un paio di occhi celesti la stavano fissando. Fuori c’era una ragazza con un giacca di pile, a pochi centimetri dalla vetrina, che stringeva al petto un abito da sposa degli anni Cinquanta.

    Si ricordava di lei. Era venuta qualche settimana prima e aveva provato cinque o sei abiti da sposa prima di scegliere il vestito che aveva con sé in quel momento, agitato dal vento come una bandiera bianca in segno di resa.

    La ragazza entrò nel negozio e distese il vestito sul bancone. «Lo devo restituire».

    «Mi dispiace, ma la restituzione della merce non è consentita». Violet andò dietro al bancone e si lisciò la gonna a quadri sui fianchi.

    «Non potresti rendermi almeno una parte del prezzo che ho pagato?». La ragazza passò le mani sulla seta dell’abito da sposa, indugiando sui nastrini di tulle vicino all’orlo.

    «Vorrei poterlo fare, ma è la politica del negozio», disse Violet. Sentì una folata d’aria calda e secca dal vecchio radiatore alla parete e si tolse il cardigan con i bottoni di perla, rinvenuto nell’armadio di sua nonna, Lou, quando era venuta a mancare.

    La ragazza osservò la fenice lambita dalle fiamme tatuata sul bicipite lentigginoso di Violet, ma distolse subito lo sguardo quando fu sorpresa a fissarlo. «Speravo potesse fare un’eccezione, ecco», disse. «Quei soldi mi farebbero davvero comodo». Gli occhi le si velarono di lacrime, uno strato d’acqua sopra il ghiaccio azzurro.

    Violet fece per mordersi le labbra, poi rammentò che aveva messo il rossetto rosso. Le dispiaceva per la ragazza, ma doveva essere ferma. Le regole erano regole. Dato che vendeva oggetti di seconda mano, non c’era modo di capire se un capo fosse stato rovinato dal cliente che lo riportava indietro. Se avesse concesso la restituzione, temeva che il suo negozio sarebbe diventato una specie di biblioteca con abiti vintage al posto dei libri. Prese un fazzoletto da una scatola lavorata all’uncinetto e lo porse alla giovane cliente.

    La ragazza lo accettò e si asciugò le guance umide. «Scusami, sono un disastro».

    «Non ti preoccupare». Vedere il volto straziato dell’adolescente le ricordò un periodo della sua vita al quale non le piaceva ripensare – il dolore che aveva permeato la fine del suo matrimonio e che era culminato con il trasferimento a Madison, cinque anni prima.

    «Di solito non mi metto a piangere di fronte agli sconosciuti», disse la ragazza.

    «Ti ho aiutato a scegliere il tuo abito. E mi piace pensare di non essere una perfetta sconosciuta. A proposito, mi chiamo Violet».

    «April Morgan». Infilò il fazzolettino appallottolato in borsa, una cartella di cuoio abbastanza malconcia.

    «Bella borsa», commentò Violet. «Sembra degli anni Settanta».

    «Già, era di mia mamma».

    Violet intuì che la ragazza aveva una storia da raccontare, e ascoltare le storie degli altri era la sua specialità. Ogni singolo oggetto in quella boutique aveva una storia alle spalle, dal caffettano di Missoni alla borsa a baguette di Fendi, che aveva ancora il cartellino col prezzo. Quando non conosceva la vera storia di quegli oggetti, amava riempire le lacune con la sua immaginazione. Sapeva, per esempio, che il caffettano era appartenuto a una professoressa di italiano, che l’aveva comprato quando era andata a studiare in Italia ai tempi dell’università, negli anni Settanta. La professoressa le aveva detto di aver avuto una relazione, breve ma intensa, con un cugino alla lontana di Vittorio Emanuele, l’ultimo principe ereditario d’Italia. E Violet le aveva creduto, perché aveva notato come le erano andate a fuoco le guance mentre le raccontava la storia.

    Non conosceva i dettagli del passato della borsa a baguette. Una giovane giornalista che lavorava per una testata locale di informazione alternativa l’aveva venduta al negozio per pagarsi l’affitto e si era limitata a dire che l’aveva ricevuta in regalo. A Violet piaceva immaginare che gliel’avesse data il direttore di una rivista di moda di New York, un uomo crudele ma brillante, nel tentativo di persuaderla a iniziare una nuova vita tra sfilate in passerella e novità di stagione. Forse la giornalista aveva rifiutato il lavoro perché voleva scrivere articoli su argomenti che riteneva più importanti, come la politica o le questioni ambientali, ma aveva tenuto la borsa come promemoria della strada che non aveva imboccato.

    «Gradisci qualcosa da bere?», domandò. «Una tazza di tè? Un bicchierino di whisky?».

    La ragazza parve allarmarsi. «Io, ehm, no. Ho solo diciott’anni».

    Violet rise e attaccò la spina del bollitore elettrico sul tavolino dietro al bancone. Sul tavolino di quercia scandinava della metà del secolo, tutto angoli, c’erano un vassoio vittoriano d’argento e un assortimento di tazze. L’effetto era quello di un’accozzaglia di stili, come la boutique e come la stessa Violet.

    «Sto scherzando», disse Violet. «Non ho alcolici qui».

    «Ma di sicuro hai un sacco di vecchie bottiglie, vedo». April indicò uno scaffale pieno di cristalli d’epoca di ogni forma e sfumatura di colore – verde, cobalto, rosso rubino. «A cosa serve quella grossa brocca lassù?»

    «Non saprei». Violet raggiunse lo scaffale e tirò giù una brocca di porcellana dura con un manico minuscolo, grande quanto un dito. La mise sul bancone. «Non ci sono scritte. Forse qualcuno la usava per i liquori di contrabbando».

    April sollevò la brocca ed esaminò il motivo floreale blu dipinto sul davanti. «Dove l’hai presa?»

    «A Bent Creek, dove sono cresciuta. Me l’ha data il proprietario di una taverna del posto».

    «È qui in Wisconsin?», domandò la ragazza. «Non l’ho mai sentita nominare».

    Violet annuì. «Non vedo perché avresti dovuto, a meno che tu non sia un’appassionata di caccia e pesca. È un paesino nei pressi del lago Superiore. Conta meno di mille abitanti».

    «Ah», fece April, sbirciando di nuovo il suo tatuaggio. «Non l’avrei mai detto».

    «Già, non mi sono mai integrata più di tanto», disse Violet. «Quando ero piccola, mia mamma non faceva altro che rimproverarmi perché andavo a scuola con il mio costume da Halloween o mettevo i guantini della prima comunione per andare al supermercato».

    Ricordò con un sorriso che, in tali occasioni, la nonna materna prendeva le sue difese. Nonna Lou le faceva l’occhiolino e diceva: «Alcune persone sono fatte per brillare più delle altre, tesoro. Tutto qua».

    Violet agitò una mano e mise fine alle domande sul suo passato. Aprì una custodia di mogano e scorse con l’indice le bustine di tè allineate sulla foderina di raso. «Sicura che non vuoi un po’ di tè? Lo sto già preparando per me, quindi non ci metto niente a farne un’altra tazza».

    «D’accordo, va bene». April rimise a posto la brocca e abbassò la cerniera della giacca. «Grazie».

    «Vieni, fammi appendere quel vestito. Altrimenti si sgualcirà tutto». Violet si affrettò a recuperare l’abito da sposa dal bancone. Lo lisciò per bene e lo appese a un alto attaccapanni, accanto al registratore di cassa.

    «Non mi interessa se si sgualcisce», disse April.

    «A me sì. Ci ho messo più di un’ora per trattarlo a vapore prima di poterlo esporre in negozio. Stirare il taffetà di seta è una gran rottura di palle».

    Merda, pensò, rimproverandosi per aver detto una brutta parola davanti a una cliente. Maledetta la mia boccaccia. Lanciò un’occhiata alla ragazza, che non sembrava essersene accorta o, quantomeno, non sembrava averci dato peso.

    «Che tè preferisci?», domandò mentre versava l’acqua calda nelle due tazze di porcellana dipinte a mano. «Ho il tè verde, l’Earl Grey…».

    «Ci sarebbe qualcosa senza caffeina?», domandò April, portando una mano allo stomaco.

    Violet notò la lieve rotondità del ventre della ragazza e si chiese se fosse incinta. La congettura giunse insieme a un’ondata di gelosia e autocommiserazione. Aveva sempre amato i bambini, ma, ultimamente, la voglia di averne uno tutto suo si faceva sentire con inattesa ferocia. Quel nuovo desiderio la turbava, non solo perché aveva trentotto anni ed era single, ma anche perché le piaceva pensare di essere soddisfatta della sua vita così com’era. Aveva Miles, il suo pitbull, e un eclettico gruppetto di clienti con i quali aveva stretto amicizia. I bambini e gli orologi biologici erano, a suo avviso, troppo convenzionali. Violet era fiera di essere indipendente e anticonformista, pur vendendo grembiuli vintage e abiti con corsetti.

    «Vorrei una camomilla, se ne hai», disse April. «Mia madre me la preparava sempre».

    Violet mise le bustine nelle tazze e ne porse una alla ragazza. «Allora, cosa ti ha spinta a comprare un abito da sposa vintage?»

    «Abito in fondo alla strada, perciò passo spesso di qui», rispose April. «E mi piacciono le cose vecchie. Non so perché. Penso che mi piaccia l’idea che ogni oggetto abbia una vita alle spalle, che il passato abbia un significato».

    «Capisco cosa intendi», commentò Violet. «E mi piace anche pensare che un tempo le cose fossero più semplici, ma sono sicura che sia un’illusione».

    «Ancora mi ricordo cosa dicesti a proposito del vestito, che il matrimonio della signora che l’aveva indossato era durato cinquantacinque anni».

    «Wow. Sono felice che qualcuno presti veramente ascolto alle mie storie», disse Violet. «Racconto sempre qualche aneddoto sulla merce che vendo, ma credo che la maggior parte delle persone si limiti ad annuire per educazione senza neanche starmi a sentire. Mi rendo conto che non tutti condividono la mia ossessione per la roba vecchia».

    «Ciò che mi raccontasti è una delle ragioni per cui l’ho scelto. Be’, oltre al fatto che è bellissimo, ed è davvero unico».

    «Davvero?». Violet lanciò uno sguardo nostalgico all’abito da sposa, che manteneva la sua forma malgrado fosse appeso. «È stato fatto a mano dalla sposa. Questo genere di dettagli non si trova negli abiti confezionati a livello industriale».

    «È stata la signora che l’ha confezionato a portarlo qui?», domandò April.

    Violet scosse la testa. «No, è stata la figlia della coppia. I suoi genitori sono morti a una settimana l’una dall’altro».

    «È davvero triste».

    Violet sorseggiò il suo tè. «Forse sì, ma hanno avuto un matrimonio lungo e felice. Ed è più di quanto si possa dire della maggior parte della gente».

    «Triste per la figlia, intendevo». A April si incrinò la voce. «Sei impegnata? Non voglio disturbarti se hai da fare».

    «Oggi non c’è proprio il pienone». Indicò il negozio deserto. «Vuoi parlarmi di cosa è successo? Cioè, perché volevi restituire il vestito?».

    La ragazza fece cenno di no con la testa, sferzandosi le guance con alcune ciocche di capelli biondi. «Non voglio rubarti altro tempo».

    «Stavo solo riallestendo la vetrina in vista della stagione estiva. Niente che non possa attendere». Violet buttò un occhio sui due manichini in esposizione, ora spaiati: uno con un prendisole e l’altro con un maglione di mohair color pesca.

    April appoggiò la tazza di tè sul bancone, accanto al registratore di cassa, facendo cadere una pila di fogli. «Mi dispiace tanto», disse, chinandosi a raccoglierli.

    «Non ti preoccupare. È colpa mia, non dovrei lasciare le mie scartoffie in giro. Un giorno di questi dovrei mettere tutto su un computer, ma il punto è che non saprei proprio da dove cominciare. E poi i numeri non sono esattamente il mio forte», disse Violet. «Preferirei smacchiare camicette di seta o stirare lenzuola del secolo scorso dalla mattina alla sera».

    «Io amo i numeri», disse la ragazza. «Ho vinto una borsa di studio per studiare Matematica all’università. Inizierò il prossimo autunno».

    I campanelli sopra la porta tintinnarono, e una donna con i capelli scuri, avvolta in un sari rosa, entrò nel negozio. Quando si avvicinò al bancone, si sentirono frusciare le pieghe del tessuto lucido.

    «Scusami un secondo», disse Violet.

    «Tolgo il disturbo». April tirò su la cerniera della giacca di pile. «Grazie per il tè».

    «No, non è necessario che tu vada. Ci vorranno solamente un paio di minuti».

    April fece qualche passo verso la porta, poi si voltò. «Oh, stavo dimenticando il vestito». Rivolse uno sguardo implorante a Violet. «Ti dispiace se lo lascio qui? Non mi serve più a niente, e non mi va di doverlo vedere ogni volta che apro l’armadio».

    «Certo, nessun problema», rispose Violet, pensando che forse poteva fare uno strappo alla regola sui resi, solo per quella volta. Si avvicinò al registratore di cassa – un ingombrante aggeggio di metallo con i bottoni rotondi, simile a una macchina da scrivere d’altri tempi. Quando tirò la levetta per aprire il cassetto dei contanti, si inceppò. Lo scrollò leggermente, ma non si muoveva.

    «Se puoi aspettare giusto un momento, cerco di aprire questo coso», disse. Ma, quando alzò gli occhi dalla cassa, April se n’era già andata. La donna con il sari, invece, era di fronte al bancone e stava rovistando nella borsa. Violet notò che aveva una leggera ricrescita bianca lungo la riga dei capelli.

    «Salve», disse, celando la sorpresa con un sorriso. «Come posso aiutarla?».

    Le mani della donna riemersero dalla borsa, stringendo un sacchettino di tessuto rosso. Lo capovolse, e un arcobaleno di braccialetti tintinnò sul bancone. «Vorrei vendere questi», disse.

    Violet ne prese uno: un sottile cerchietto d’oro con alcune pietre blu. «Sono incantevoli. Sono bigiotteria?»

    «Non capisco, cosa vuol dire?». La donna corrucciò la fronte, increspando il bindi rosso al centro.

    «Voglio dire, sono d’oro vero?», domandò Violet.

    La donna scosse la testa. «A casa ho dei bracciali in oro vero, diciotto carati, ma questi non valgono un granché. Quelli lì con le pietre blu sono un regalo di mio marito, dei tempi in cui eravamo giovani e non avevamo soldi».

    Violet rimise giù il braccialetto. «Oh, allora magari quelli blu li vorrebbe tenere? Sembra che abbiano un valore affettivo».

    «No. Non più». La durezza nella voce della donna indicò che non le andava di parlare di suo marito, e Violet lo rispettò. Sapeva per esperienza personale che certe storie erano troppo dolorose per essere raccontate.

    Prese un altro braccialetto con un motivo rosa e arancione inciso nel metallo.

    «Questo era di mia figlia», spiegò la donna. «Ho dato una pulita alla sua camera perché si è sposata da poco e ha comprato un appartamento dall’altra parte della città con suo marito. Ecco perché ho messo il sari, il bindi e tutto il resto». Si sfiorò la fronte. «Li riservo soltanto alle occasioni speciali. Stamattina abbiamo celebrato una puja, una cerimonia di preghiera, per i neo-sposini. Mia figlia si è rifiutata di sposarsi con il rito indiano, perciò io e suo padre ci siamo dovuti accontentare di una puja e di un pranzo insieme non appena fossero tornati dalla luna di miele».

    «È sicura che sua figlia non lo voglia più?», domandò Violet, rimettendo il braccialetto sul bancone.

    La donna annuì. «È stata lei a dirmi che mi sarei dovuta sbarazzare della roba che aveva lasciato a casa. Le ho detto che non c’erano problemi a tenere le sue cose, ma secondo lei era il momento di… com’è che ha detto? Di voltare pagina. Sostiene che io sia troppo attaccata alle cose vecchie».

    «Allora siamo in due».

    «Lei ha figli?», chiese la donna.

    Violet scosse la testa e si sforzò di rispondere con tono allegro: «Anche se ho un cane, che per me è come un figlio». Aprì l’inventario con la copertina di pelle, sul quale annotava tutto ciò che entrava e usciva dal negozio, dai completi eleganti di Chanel ai prendisole fatti all’uncinetto. Dopo aver controllato un paio di voci simili, disse: «Posso darle venti dollari in contanti per l’intero lotto, oppure trenta dollari in un buono da spendere qui nel negozio. Cosa preferisce?»

    «Contanti, se non è troppo disturbo», rispose la donna. «Ho talmente tanta roba a casa. Non solo braccialetti, ma anche altre cose. Potrei passare a portargliele in settimana, se fosse interessata».

    «Volentieri», disse Violet. «Siamo aperti tutti i giorni, dalle dieci alle sette».

    «E come si chiama, nel caso in cui dovessi chiedere di lei?»

    «Sono Violet. Ma non deve preoccuparsi. Sono l’unica persona che lavora qui dentro, e ci sono sempre. Abito al piano di sopra».

    «Piacere di conoscerla, io mi chiamo Amithi».

    «Piacere mio». Violet sorrise. «Mi servirebbe un documento d’identità e abbiamo finito. Devo chiederlo a chiunque venda qualcosa al negozio. È la legge, per evitare che la gente tenti di vendere merce rubata, credo».

    Amithi le mostrò la patente, e Violet aprì il cassetto del registratore di cassa e le pagò i braccialetti.

    «La ringrazio». Amithi mise le banconote in borsa e lanciò un’occhiata preoccupata alle vetrine. «Ecco, spero non pensi che io sia un po’ paranoica… probabilmente non è nulla, ma mi chiedevo se conoscesse l’uomo che ha parcheggiato qua davanti al negozio. Quando sono arrivata non gli ho neanche dato peso, ma ho notato che è ancora parcheggiato nel solito punto e continua a guardare da questa parte».

    «Chi? Quale auto?». Violet si avvicinò alla grande vetrina con la merce in esposizione e guardò fuori, dove i posteggi a bordo strada erano pieni zeppi di macchine, parcheggiate una incollata all’altra, come di consueto in una cittadina universitaria come quella.

    «Quella grigia laggiù, la vede?». Amithi la raggiunse davanti alla vetrina.

    Violet scostò dagli occhi la frangia tagliata alla meno peggio e scorse una Nissan grigia dall’altro lato della strada, ferma di fronte a un centro specializzato in agopuntura. C’era un uomo seduto al volante, ma non riusciva a vederlo bene in faccia. «Ha visto che ha aspetto ha?», domandò. «Da qui non si riesce a capire».

    «Non l’ho visto da vicino, ma penso abbia i capelli castani, con un po’ di calvizie», disse Amithi. «Sembrava un omone grande e grosso. Corpulento».

    Era possibile che Jed, il suo ex, avesse cominciato a perdere i capelli. E a forza di tracannare lattine di birra, cosa che almeno ai tempi in cui erano sposati faceva con regolarità, non l’avrebbe certo sorpresa se avesse messo su anche un po’ di pancetta. All’inizio, subito dopo il divorzio, Jed si faceva quasi cinquecento chilometri in auto solo per ubriacarsi e presentarsi davanti alla porta di casa sua, minacciando di trascinarla a Bent Creek, ma ultimamente accadeva sempre più di rado.

    L’uomo nella Nissan non poteva essere Jed, pensò Violet. Non sarebbe salito neanche morto a bordo di un veicolo che non fosse stato fabbricato in America. Si sforzò di fare un respiro profondo, per calmarsi, come aveva imparato durante le lezioni di yoga che aveva seguito qualche mese prima, nell’infruttuoso tentativo di dare più equilibrio alla sua vita.

    Dall’altro lato della strada, la portiera dell’auto grigia si aprì, e un uomo con due braccia muscolose che sbucavano da una maglietta bianca scese dalla macchina. Aveva l’espressione truce e indecifrabile di chi sta sbrigando del lavoro sporco al posto di qualcun altro.

    «Lo conosce?», domandò Amithi.

    «Non l’ho mai visto prima».

    L’uomo entrò e si richiuse la porta alle spalle, facendo tintinnare le campanelle. «Ops, scusatemi». Scrollò le spalle e abbassò lo sguardo su una cartelletta. «Violet Turner?»

    «Sì?». Si sfiorò il petto con una mano.

    Amithi si tolse dai piedi e andò a esaminare gli scaffali con le scarpe in fondo al negozio.

    L’uomo porse a Violet un voluminoso fascio di documenti. «Mi è stato chiesto di consegnarle questi». Non si mosse dal tappetino all’ingresso con la scritta benvenuti, forse perché aveva intuito di non essere un ospite gradito.

    Violet inforcò sul naso gli occhiali con la montatura di corno e lesse in silenzio il titolo sulla prima pagina: Preavviso di rilascio immobile.

    «Mi state sfrattando?», domandò.

    Senza guardarla negli occhi, l’uomo le allungò la sua cartelletta. «Ora deve mettere una firma su questa riga qua per confermare di aver ricevuto l’avviso».

    «Penso che abbia sbagliato persona», disse Violet. «Ho un regolare contratto d’affitto con diritto di riscatto e diritto di prelazione per l’acquisto dell’immobile. Perciò, non capisco perché mi stiano sfrattando. Parte del canone mensile va a coprire le spese dell’acquisto in vista del saldo finale».

    «Io sono soltanto un ufficiale giudiziario, signora. Non so neanche cosa ci sia scritto in quei documenti. Dovrà parlarne con il suo avvocato».

    «Non ho un avvocato», disse lei a bassa voce, voltandosi a cercare Amithi con lo sguardo. Poi scribacchiò la sua firma.

    «La ringrazio, signora. Le auguro buona fortuna». L’ufficiale giudiziario chinò il capo in un rapido cenno di saluto. «Pare che abbia messo su un bel negozietto». Si infilò la cartelletta sottobraccio e se ne andò.

    Amithi si riavvicinò a Violet. «Mi dispiace di essere rimasta. Visto che ha detto che non conosceva quell’uomo, avevo paura per lei e non volevo lasciarla da sola».

    Violet strinse i documenti con le mani che le tremavano. Apprezzava la preoccupazione di Amithi, ma se c’era una cosa peggiore di aver ricevuto un avviso di sfratto era che una cliente avesse assistito alla scena.

    «C’è niente che io possa fare per lei?», chiese Amithi. «Mi è parso di capire che quell’uomo non le abbia portato buone notizie».

    «No», confermò Violet. «Affatto»

    Capitolo 2

    Articolo: piatti, servizio da sei

    Data indicativa: 1988

    Condizioni: discrete, piccola scheggiatura sul bordo di un piatto

    Descrizione: piatti piani di ceramica assortiti,

    marca Fiesta: due color albicocca, due rosa, due turchese

    Origine: liquidazione patrimoniale

    April

    April era seduta al tavolo rotondo, in cucina, e stava mangiando del pane imburrato e due uova sode. Non le andavano, non voleva mangiare niente, ma l’ostetrica le aveva detto che doveva aggiungere più proteine alla sua dieta, e le uova costavano poco ed erano facili da cucinare. Ne tagliò una ed esaminò le due metà separate nel piatto Fiesta. I due pezzi oblunghi dondolarono sul piatto rosa che aveva ereditato da sua madre – sempre che il caos che si era lasciata alle spalle, un’attività che non stava in piedi e la casa ingombra di ciarpame, si potessero considerare un’eredità.

    April prese il piatto e rovesciò il contenuto nel cestino della spazzatura, captando una zaffata putrida, qualcosa che era andato a male. Corse al lavandino, dove vomitò la colazione. Tanti cari saluti al tentativo di fare qualcosa di buono per il bambino.

    La nausea passò, ma April non si sentiva meglio. Non era giusto, pensò. Charlie avrebbe finito il college di lì a poche settimane e, in autunno, sarebbe partito per andare a studiare Medicina a Boston. Lui sarebbe andato dritto per la sua strada come se niente fosse e, nel frattempo, lei era bloccata lì a Madison, in quella villetta che stava cadendo a pezzi.

    Era cresciuta in quella casa, appollaiata su un istmo tra il lago Mendota e il lago Monona, a pochi isolati dal Campidoglio con la sua cupola bianca e dall’area pedonale di State Street. Era una delle cinque o sei villette a un solo piano del quartiere, tra le vittoriane e le tradizionali abitazioni squadrate protette dai grandi portici davanti all’ingresso. Una casa su quella stessa strada, una bellezza in stile Prairie School con le linee pulite e il tetto piatto, era stata progettata da uno studente di Frank Lloyd Wright.

    Alcune di quelle case, inclusa quella, erano ancora abitate, ma, negli ultimi anni, molti di quegli edifici affittati agli studenti o occupati da singole famiglie erano stati convertiti in centri di yoga, gallerie d’arte e condomini lussuosi. Da bambina, nei sabati d’autunno, April si sedeva sui gradini davanti casa e salutava gli studenti universitari che andavano alle partite di football. Aveva immaginato che un giorno sarebbe diventata come loro, con una felpa rossa e un sorriso spensierato. Adesso non ne era più tanto sicura.

    Aveva superato la ventesima settimana di gravidanza, e ormai non si poteva più tornare indietro. Anche se fosse riuscita a trovare un ospedale disposto a farla abortire così tardi, non si sarebbe mai sottoposta all’intervento. Quel bambino era la sua unica speranza, se voleva avere qualcosa di simile a una famiglia.

    April sfogliò un libro sulla dolce attesa che aveva preso in prestito in biblioteca. Non riusciva a immedesimarsi con le donne sorridenti e dai capelli lucenti delle fotografie. Avrebbe voluto avere sua mamma lì al suo fianco, così le avrebbe potuto chiedere cosa fossero tutte le cose strane che stavano succedendo al suo corpo e alle sue emozioni, e sapere se sarebbero mai andate via. Sfogliò il capitolo sulle complicazioni prenatali, facendo scorrere il dito su tutti i termini altisonanti che descrivevano cosa sarebbe potuto andare storto. Gravidanza ectopica. Polidramnios. Preeclampsia. Erano soprattutto i numeri sulle pagine a catturare la sua attenzione, e si fissava sulle probabilità e sulle percentuali. Dopo dodici settimane, le probabilità di aborto spontaneo si riducono al tre per cento.

    April avrebbe voluto che sua mamma fosse lì con lei anche perché, per una volta, l’attenzione si sarebbe spostata su qualcosa che non fossero i problemi di sua madre. Un bambino, persino un bambino non desiderato, avrebbe potuto dare un’iniezione di normalità agli alti vertiginosi e ai bassi senza fondo che avevano caratterizzato sua mamma negli ultimi anni. I farmaci tenevano a malapena a bada il suo disturbo bipolare, e comunque solo se li prendeva. In più di un’occasione April aveva trovato i flaconi delle medicine nel cestino del bagno, ancora pieni.

    Si sciacquò la bocca con un po’ d’acqua e la risputò nel lavandino, poi tornò a sedersi a tavola e controllò la posta. La maggior parte delle buste era indirizzata alla Clutter Consulting llc, l’azienda che sua madre aveva progettato in piena fase maniaco-ossessiva. Aveva lasciato il posto di lavoro di una vita come segretaria per mettere in piedi un’attività che non era mai decollata. Quando April le aveva domandato come pensasse di riuscire ad aiutare gli altri a organizzare le loro vite quando lei per prima riusciva a malapena a gestire la propria, Kat Morgan le aveva risposto: «Oh, tesoro. Non puoi ridurre tutto alla certezza matematica. A volte si deve correre un rischio».

    Quando le si riempì la bocca di saliva, April si alzò e corse di nuovo al lavandino, temendo di dover vomitare un’altra volta. Checché ne pensasse sua madre, sapeva abbastanza bene cosa significasse correre rischi. Ne aveva corso uno enorme giusto cinque mesi prima, una mattina di dicembre, dopo il suo diciottesimo compleanno.

    Avrebbe dovuto pensarci due volte prima di fare sesso per la prima volta pochi giorni prima di dover rifare i test sat per l’ammissione al college, ma lei e Charlie avevano già aspettato una vita. Quando si era rotto il preservativo, lui l’aveva stretta a sé e le aveva detto di non lasciarsi prendere dal panico. Erano andati insieme a comprare la pillola del giorno dopo da Walgreens, dove un giovane farmacista brufoloso aveva elencato a entrambi i possibili effetti collaterali, come nausea, vomito e crampi allo stomaco. «Questi spiacevoli effetti collaterali colpiscono all’incirca una donna su quattro».

    April non poteva accettare una così alta probabilità di sentirsi male durante i test. Era già stata bocciata quando li aveva fatti a novembre, poche settimane dopo l’incidente di sua mamma. Se voleva ottenere una delle borse di studio per le quali aveva fatto richiesta, doveva andare bene al secondo

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