Mazzarrona
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È una storia d’amore di ragazzi affamati di vita, rischiando ogni giorno di farsela scivolare dalle vene e sfidarla di continuo. Siamo in una periferia siciliana terribile come tante, come il quartiere Zen di Palermo o le Vele a Napoli. Mazzarrona non è solo indicazione del quartiere in cui si muovono i personaggi: rappresenta la durezza della realtà, gli adulti violenti, i sogni che continuano a crescere pure nel degrado e la forza disarmante degli adolescenti, vivissima e pura. La voce della protagonista appartiene a una ragazza che si muove tra la scuola, le compagne, il ballo del liceo, il suo amore Massimo che morirà d’overdose mentre lei avrebbe voluto salvarlo, crocerossina fallita, in un tempo delle mele macchiato di nero. Le piste alle tre del pomeriggio, la scuola e le ragazze, le spade, le baracche. Il ballo inaspettato. Massimo mi ami? L’attesa di parole, parole troppo lunghe, il sicomoro a Mazzarrona. La divisa delle case, quella vita un po’ più vera. L’eroina che la accende e si consuma. Quando mi amerai? Romina è donna vera a Mazzarrona, ma ha pochi anni come Ilaria, l’amica della scuola. Tra loro due c’è lei, la voce del romanzo: Buzzati e Pratolini come sogni nel degrado e rivolta nella scuola, dove il professore che imbastisce questo corpo adolescente vale molto, perché sa dedicarsi al di là dell’offerta formativa. Mazzarrona è la sua assenza anni Novanta, e personaggi incandescenti: supernove sempiterne. La vita che persiste nella morte reiterata.
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Anteprima del libro
Mazzarrona - Veronica Tomassini
Tavola dei Contenuti (TOC)
Mazzarrona
golem / romanzo
©
2019
Miraggi Edizioni
via Mazzini 46,
10123
Torino
www.miraggiedizioni.it
Veronica Tomassini è rappresentata dall’Agenzia Stradescritte
Progetto grafico Miraggi
In copertina: illustrazione di Francesca Marzia Esposito
Finito di stampare a Borgoricco (PD)
nel mese di gennaio
2019
da Logo srl
per conto di Miraggi Edizioni
su Carta da Edizioni Avorio – Book Cream 80 gr
Prima edizione digitale: febbraio
2019
isbn
978-88-3386-036-7
Prima edizione cartacea: gennaio
2019
isbn
978-88-3386-034-3
Ai miei amati assenti
Non so, non vorrei fare tardi. Ha sempre qualcosa da dire col tempo.
O ha paura di far presto, o ha paura di far tardi.
La sostanza, Nino Marino
Mazzarrona
Il sentiero con i cardi è lì, lo intuisco da dietro la siepe del sicomoro. Gli spuntoni lungo la campagna graffiano le mie gambe. Non indosso le calze, come non le indossava Mary, nemmeno d’inverno. Le sue belle gambe, aveva le caviglie sottili. Indossava ballerine rosa, lucide, con la punta di solito rovinata. Eccolo il sentiero, scendo, di corsa come un tempo. Sono bella e sorrido. Avanzo di fretta come se dovessi incontrare qualcuno, lui, fragile, pallido, dal tenero costato, il costato di un ragazzo. Quando mi amerai?
.
Sono tornata.
Sono tornata a Mazzarrona. Le baracche. L’umanità vile e sregolata. Non sorrido più. Sono sveglia. Guardo l’ora. Sono le 10.45. Sono tornata a Mazzarrona. Ritrovo intatte le case gialle e i falansteri di Buzzati, li ho riveduti simili, topaie in serie, promiscuità e tanfo di umori indicibili che promanano dalle rampe, promontori secchi e duri su monti di lamiera, tunnel fangosi confusi tra le steppe, sentieri di borragine o spuntoni di cardi, la luce degli Iris, il loro azzurro innocente, il mare, la ferrovia. Guardavo verso i calanchi, l’abisso e la linea sulle fabbriche – l’orizzonte – dove finivano i soliti fumi delle torrette. Era la stessa terribile scure da cui osservavamo la vita svolgersi stoltamente, la immaginavamo così parziale e persino ingiustamente, io e Romina.
Romina: non so dove sia, viva o morta, ma credo sia viva, era capace di sopravvivere sempre. Un giorno – le dissi stupita, ammirata anzi – un giorno sarai viva più di me, tu sopravvivrai più di me e degli altri, perché te lo hanno insegnato qui. Qui? Replicava scettica, nella sua posa da dura: qui? In questa merda, mi hanno insegnato qualcosa? Eppure ne arrossiva, fumando la Marlboro, scoprivo le sue guance, nella pelle spessa e olivastra, arrossire gentilmente. Arrossire era una forma di gentilezza allora, l’unica rivelata in quel tempo, in quel luogo di castigo che mi sembrava Mazzarrona o la periferia. C’era un catorcio, con una vecchia ape, prossimo ai casermoni, oltrepassate le colline di mondezza, le lamiere, lì incontravo il mio amore, si chiamava Massimo, si bucava. Massimo era sempre fuori, arrivava tardi, dimenticava qualcosa, me, il colore dei miei occhi. Cantava le canzoni di Morrissey. Fragile, le piste sul braccio, le maniche di camicia fermate al polso anche d’estate, bianco, un cencio, anche d’estate. Non era la giovinezza, erano deserti. Oh, la giovinezza. Si svolgeva lungo i sentieri di piante selvatiche, nelle campagne di Mazzarrona. Pensavo tuttavia che fosse possibile essere liberi, malgrado le catene che quei luoghi, quella gente, quel condominio misero di panni duri stesi al sole, mi trattenevano alle caviglie. Volevo essere libera e felice, io ero l’aspidistra, non il simbolo detestato da Gordon Comstock di Orwell o forse sì, l’opaca rispettabilità borghese? O il virgulto in grado di resistere a tutto, caldo freddo, bene, male. No affatto. Non smettevo di credere che avrei trovato una risposta, a Mazzarrona, negli anni della giovinezza e dei deserti, la risposta alla domanda di sempre: Cosa dovrà accadere?
.
Da casa di Romina, spiavo la finestra di Mary. Le case di periferia erano i falansteri dove dimoravano uomini minori, interregno che induceva a pensieri mortali perlopiù: certe volte qualcuno volava giù dal balcone o si lanciava sotto il treno in corsa sui binari della vecchia ferrovia che inciampava come un patetico fermabue sui dossi dei canaloni di fogna. Romina era un’amica. Era tanto diversa da me, per questo ci capivamo subito. Era una che sapeva fare a botte, e nelle case col tetto di lamiera le regole bisognava impararle; oggi detta così sembra uno slogan di un film di Marco Risi o del più truce desolato neorealismo. Romina mi difendeva dalla mia stolta gentilezza che usavo male. Non mi capiscono, realizzavo allora. Guardavo dalla stanza di Romina, al terzo piano del condominio, la finestra di Mary, con le grandi tette. E la invidiavo. Usava l’eroina anche lei, e gli uomini con lei diventavano matti. Era andata in overdose, finiva in ospedale e dopo il Narcan, chiedeva alla madre, china sul suo letto, la piccola borsa con gli ombretti e le Marlboro. La sua vanità è stata la salvezza, era forte, quasi ferrigna. Non so se fosse bella, non so di quale bellezza riferirvi, era eccessiva, circense per alcuni versi. Vestiva con colori accesi, aveva le gambe magrissime e il culo piatto, indossava un cerchietto rosa come le sue ballerine. Mary morì di cancro, anni dopo. Scriverò di lei un giorno, liberata dalla mia ossessione, che era lei, come Christiane, come gli underground, il Bahnhof Zoo, Atze, Detlef, David Bowie, la pioggia.
Però Massimo aveva un’altra per la testa. Un giorno gli urlai tutto il mio disappunto, sul cumulo di lamiere nella terra del Simun. Le case alveare si reggevano l’una con l’altra scosse dal terribile vento di sud est, la fogna esalava sotto i portici, Massimo dormiva al riparo dalle grondaie di una catapecchia, più in là le betoniere e tir smisurati e cigolanti come panzer facevano un gran rumore. Non mi amerai mai mai
, urlavo. Massimo era nel suo solito viaggio. Ero sul colle, un poggio di mondezza, guardavo le petroliere, il mare malato, avevo le lacrime agli occhi. Massimo venne in soccorso della mia stoltezza, sei stupida, mi disse, vieni qui, ho detto no no, lasciami qua sopra. Allora promettimi, quando mi amerai veramente? Strappai i bottoni della camicetta per i nervi, Massimo restò piegato a raccoglierli, lento e ipnotico, fu allora che imparai a ridere per lo sgomento. Guardò su verso il cielo, poi guardò me: non urlare, ti prego, disse. Copriti, ti prego.
Io ti amo, dissi, allora.
Aspettavo Massimo, tutti i pomeriggi. Massimo aveva una vespa bianca, andavamo ai portici, lui accendeva lo spinello, aveva sempre del fumo buono. E io aspettavo Massimo sempre, anche quando lui c’era in fondo non c’era mai. Andammo in un pub una sera, mi guardò stravolto sotto la luce del bancone, mi disse: Sembri un gatto, non ho mai visto occhi così
. Ho capito allora che Massimo non mi aveva mai guardato veramente. Era capodanno, lui si addormentò sul mio grembo, è andata così. Non riuscii ad averlo, il mio destino si chiama attesa. C’era un giardino, noi andavamo lì, fu tutto troppo breve, mi aggrappai al suo fragile costato, aspetta, lo supplicai, lui era altrove, strafatto, maledizione, dovevo guarirli tutti non ce l’ho fatta. Massimo amava gli Smiths, era Capodanno, Mary era sballata, aveva il culo piatto, un cerchietto rosa le fermava la frangia, i pochi capelli. A Mary cadevano i capelli, perché si bucava.
¶
Mi ritrovo di colpo nelle case di amianto, con Massimo. E Massimo si faceva di eroina, oltre le palizzate, nelle case di amianto, sopra il colle di eternit, emergeva dal trip, con un respiro fioco, un rantolo, il pugno stretto, la siringa sporca di sangue alzata come una spada sguainata. Poi aveva ancora il laccio stretto, la vena del collo la vedevo pulsare. Ansava lungo strade che erano isbe, canaloni di fogna, la Mazzarrona. Massimo, delle case di amianto, degli archi di periferia, dei tossici sopra motorette con la marmitta bucata e io sto lì ancora. Ma ero io ad averlo scelto, io io, nessun altro. Forse lo avevo amato, Massimo, come si può a vent’anni, come si conviene ad un’età, e lui aveva provato a corrispondere, come aveva potuto, con i suoi scarni avambracci solcati da piste, col suo costato fragile e i tremori della rota. Massimo era oltre, sì, lo vedevo lì sul colle di lamiera, lanciava sassi verso il ruscello putrido, la pozza di fogna scorreva sotto casa, il suo palazzo falansterio. Niente a senso, scriveva un writer. Qualcuno doveva aggiungere la consonante aspirata, dannazione. Massimo avrebbe espiato. Io fumavo Marlboro e lo guardavo ammirata, seduta su una vecchia motoape. Un tizio spacciava del fumo ai ragazzini che aspettavano, erano tutti figli di ambulanti. Poi lo baciai, il suo sapore era di metallo, era l’eroina.
La piazza era un luogo di automi. I compagni si facevano tutti, li avevo scelti io. I pomeriggi, con Romina, sedevamo sotto gli archi e aspettavamo che il silenzio ottuso della periferia ci consumasse, ad una certa ora il silenzio era la ragione di traffici di ogni tipo. Non mi turbavo alla vista di una ragazzina addormentata ai piedi di un albero secco, misero, al centro della piazza. Dormiva del suo sonno di eroina, non aveva quattordici anni, e già tremava nella rota e aspettava il tipo all’ora precisa. Oppure la mattina oziavamo al bar, quartier generale dei tossici irriducibili, quelli che sapevamo morti all’incirca, non erano dandy, li immaginavamo peggiori di altri perché vestivano come taluni rocker duri che guardavamo in tv. In piazza andavano le ragazze rovinate, le chiamavamo proprio così quelle rovinate
. C’era Mary, che tentava spesso il suicidio ma andava in giro vestita come una dea; c’era Stefi, bruttina, ma ricca da fare schifo, gli abiti di Moschino, il trucco perfetto e sempre avanti rispetto alle altre. Rovinata, era rovinata. Capitava di inciamparvi tra un sentiero e l’altro, nel cuore della piazza. Stefi ne è uscita. Mary, ho già detto, è morta, ma di cancro. È stata la mia adolescenza. Cosa dovevo fare? Potevo mettermi tranquilla, ecco tutto. Dovevo bruciare quel diario maledetto, il diario di Christiane F., le sue didascaliche indicazioni verso la negazione, una noiosa incalzante esortazione al disagio. Avrei dovuto suonare il piano, ho le mani giuste, sapete.
Mary guidava un’Alfa 33. Aveva tagliato i capelli perché le cadevano a causa dell’eroina. In piazza le davano certi nomi che non sto qui a ripetere. Massimo comprava il fumo nelle case del civico 203. La roba la trovava ai portici, uno scambio di mani, la stagnola che scivolava da un palmo all’altro. Quanto era bella Mary, quando indossava la gonna stretta ai fianchi e stringeva il culo piatto. Romina annuiva, Mary è bella, peccato che si buca, poi dice che vuole buttarsi sotto al treno e non lo fa mai. Il treno correva veloce veloce, e quando si bucavano assieme Mary e Massimo la calma sovrastava persino il frastuono e loro immaginavano di amarsi come due ragazzi normali, due liceali. Volevo essere amata come Mary, soltanto che io non mi bucavo. Trovati un bravo ragazzo, mi suggeriva Romina un tantino seccata. No, è una storia di combinazioni sbagliate, mia cara, non ci incontreremo mai, nessuno di noi, cerchiamo le cose sbagliate, prendi Massimo, è addirittura fastidioso, la sua malinconia mi è venuta a noia, mi ha rotto il cazzo, è una posa, no è una paranoia. Non fa che lagnarsi. Non ti credo, diceva Romina. Cosa? Levatelo di torno, ecco cosa. Il treno fuggiva distratto dietro i colli di eternit. Sedevamo su negli abbaini, e guardavamo fuori, come sempre.
Guardavamo giù, con Romina, dall’ultimo piano del condominio popolare, guardavamo verso la ferrovia. Romina stava con un tipo secco, aveva i capelli bruni, ispidi, e lo sguardo severo. Non parlava mai, era malfatto, e pareva avercela con tutti. Mica lo amerai? Lei diceva sì, certo. E poi che vuol dire? Ci sto, diceva, e alzava le spalle e mi sembrava che lo facesse al modo di un ragazzo. E certe volte lo era, faceva a botte con quelli delle case gialle dove si spacciava la polvere tagliata male. Massimo andava alle case gialle con la vespa rumorosa, io lo aspettavo in piazza e se non tornava temevo che fosse finita, pensavo che Massimo mi aveva mollato o che era andato in overdose.
Perché stai qui, chiedeva Romina, veramente curiosa, tu vieni da un altro mondo, hai studiato, che cazzo vuoi? Mi fissava allora senza arrabbiarsi davvero. Per me, Romina, dicevo, uno deve essere bello, lei diceva: Che vuol dire? fattelo piacere. No, mai, urlavo, dall’ultimo piano verso la ferrovia, poi ridevamo, mai ripeteva lei.
Dimenticheremo questi anni Romina, tu ci sei riuscita. Hai dimenticato i canaloni di fogna, le case gialle, le motorette senza marmitta. Hai lasciato tua madre lì, la vedo sai? Al mercato. Mary non c’è più, è morta, sai anche questo vero? Hai dimenticato. Era solo noia, la noia peggiore che avessi mai incontrato. Ricordi questa canzone? Era Tanita Tikaram, I Love You. Ogni tanto incontravo il compagno di liceo che si faceva ancora, quello che suonava il piano, che leggeva Cioran e i grandi pensatori illuministi. Di solito ero la prima ad abbassare lo sguardo, ero io che mi vergognavo della sua defezione, sei la pietra d’inciampo, diventerai mai la pietra d’angolo? Lo diventerai sì, pensavo. Finisco negli stessi luoghi di Christiane, non sono mai uscita veramente dal dancing obnubilato di una periferia di Berlino, dalle sale sature del fumo dei chilom nella Haus der Mitte di Groupiusstadt. Vorrei potermi spiegare, non riesco con esattezza, vorrei spiegare la trepidazione e il ribrezzo che provavo tutte le volte, seguendo Christiane, come l’altro uomo seguiva il compagno di liceo. I suoi jeans, cuciti addosso di volta in volta, la sua sporta con la stagnola, il laccio, la siringa. Io vedevo tutto tutto, dentro i cessi di Bulowstrasse, e quelle facce tremende, luttuose, già cadaveri, Atze, Lufo, Livia, Axel. Le parole, l’abbecedario: valium, mandrax, efedrina. E temo sopra ogni cosa la voce di Bowie, le luci fredde della metro o dei quartieri dormitorio, Sense of Doubt. È talmente pauroso.
Stavamo alla finestra, guardavamo gli altri, giù, eravamo curiose. Romina viveva in un quartiere popolare, la finestra era breve, dava sul rione del mercato, le imposte erano in alluminio, la luce e il buio fendevano la stanza senza incontrare alcuna resistenza. La stanza era