Un raggio di sole in corsia: Harmony Bianca
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Polly arriva come un raggio di sole a rischiarare il suo mondo ed è la prima donna che riesce a farlo sentire vivo da tanti, troppi anni. Potrebbe davvero essere quella seconda occasione che Johnny ha tanto atteso, a patto di non farsela scivolare tra le dita proprio sul più bello.
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Anteprima del libro
Un raggio di sole in corsia - Lynne Marshall
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
NYC Angels: Making the Surgeon Smile
Harlequin Mills & Boon Medical Romance
© 2013 Harlequin Books S.A.
Traduzione di Giacomo Boraschi
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2014 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3050-636-7
1
Lunedì mattina. Polly Seymour entrò nell’atrio scintillante del miglior ospedale pediatrico di New York, l’Angel. Quel giorno il tragitto in metropolitana dall’East Side a Central Park era durato più del solito e lei non voleva arrivare in ritardo al lavoro il suo primo giorno come infermiera nel reparto ortopedico.
Decidendo di salire a piedi le sei rampe di scale invece di cercare posto in uno dei sovraffollati ascensori, superò due gradini alla volta. Mentre saliva, ricordò tutto quello che aveva imparato la settimana precedente durante il corso di orientamento generale. Regola numero uno: l’Ospedale Pediatrico Angel Mendez non respingeva mai un bambino.
E lei credeva in quella filosofia.
Avevano accettato perfino lei, la ragazza che gli zii e le zie chiamavano la povera Polly. Ma l’Angel l’aveva accolta nel suo staff a braccia aperte.
Giunse al piano sfiatata e infilò la porta, andando praticamente a sbattere contro un uomo che portava il camice bianco da medico. Con una corporatura da giocatore di football, l’uomo dai corti capelli castani spruzzati d’argento non si spostò di un millimetro. Le posò le mani sulle spalle e l’aiutò a riprendere l’equilibrio.
«Ehi, attenzione, bambina» l’ammonì con un tono da cowboy alla Clint Eastwood.
Mortificata, lei cercò di parlare ma si scoprì in debito di ossigeno. «Mi scusi, dottor...» riuscì ad articolare. Abbassò lo sguardo dai severi occhi castani al distintivo con il nome. «Dottor John Griffin.»
Oh, Dio santo, il distintivo diceva Primario del Reparto Ortopedico! Era il suo capo!
Polly sapeva che: le prime impressioni non si scordavano mai e quella doveva essere disastrosa. Senza offrirgli un’altra occasione di chiamarla bambina... per chi l’aveva presa, per una tredicenne?... indicò la corsia e ripartì di corsa, borbottando un ultimo mi scusi.
Quando giunse nell’ufficio delle infermiere, si tolse la giacca e la gettò sul banco con la borsa. «Sono Polly Seymour. È il mio primo giorno di lavoro. C’è Brooke Hawkins?»
Il centralinista con le treccioline riunite in una coda di cavallo alzò gli occhi color cioccolato, le rivolse un sorriso forzato e indicò la corsia.
«La rossa alta» mormorò, continuando a battere sulla tastiera del computer.
Ancora sfiatata, Polly riprese le sue cose e corse a cercare la caposala. Calda e cordiale, accompagnata da un bel sorriso, l’accoglienza di Brooke contribuì a calmare la sua inquietudine.
La caposala sbirciò l’orologio. «Devi essere Polly e sei in anticipo. Non ti aspettavo prima delle sette.»
«Non volevo perdere il rapporto del cambio di turno e non so dove mettere la mia roba.»
Avrebbe mai ripreso a respirare normalmente?
«Vieni con me» la invitò Brooke, conducendola verso un’altra porta vicino al medico. «Vedo che hai già incontrato il nostro primario, il dottor Griffin» osservò, strizzandole scherzosamente l’occhio.
Polly si posò la mano sulla guancia, nascondendo il proprio profilo all’uomo che la stava ancora guardando. «Deve avermi presa per una paziente.»
«Ti ha sorriso?»
«Sì.»
«Allora ti ha presa per una paziente. Non sorride mai allo staff.»
Un’ora dopo, mentre controllava i segni vitali in una stanza con quattro bambini più o meno ingessati, Polly sentì un pianto disperato. Si volse a guardare. «Che cosa c’è, Karen?» La bimba era sotto antiversione femorale per correggere il suo metatarso varo, una deformazione congenita a causa della quale i piedi erano deviati verso l’interno. Fra le sue gambe ingessate c’era una sbarra metallica per tenerle nell’esatta posizione necessaria per la guarigione. Polly corse verso il lettino della bimba e abbassò una sponda laterale. «Che cosa c’è, cara?»
Karen continuò a strillare, spalancando la bocca a tal punto che Polly avrebbe potuto esaminarle le tonsille. Tolse dal letto la bimba, che con il gesso pesava almeno cinque chili più del normale, e la coccolò accarezzandole la schiena. «Che cosa c’è?»
Forse, pensò, il cambiamento di posizione sarebbe bastato a farla sentire meglio. Ma la sua speranza fu delusa. Karen strillò sempre più forte e si agitò mentre lei le cantava una filastrocca infantile per calmarla. Che la bimba avesse bisogno di essere distratta?
«Oh, guarda! Guarda!» Polly si accostò alla finestra che dava su Central Park. «Bello, vero?»
Indicò i meravigliosi alberi verdi, molti con fiori bianchi e rosa che non erano ancora appassiti benché giugno volgesse alla fine.
«No!»
Karen scosse la testa e continuò a piangere.
Polly se la fece saltellare sul fianco... meglio che poteva, considerata l’ingessatura e passeggiò con lei per la stanza. «Facciamo una cavalcata. Hop, hop, hop!!»
«No!»
La bimba sembrava non gradire le trovate di Polly.
«Ti mangio!» disse lei, fingendo di addentarle la spalla.
«No!»
Felicia, di cinque anni, a letto con un braccio ingessato, cominciò ad agitarsi. «Voglio andare a cavallo!»
Polly danzò verso il letto che per motivi di sicurezza assomigliava molto a una gabbia. Regola numero due della politica ospedaliera: letti speciali per ogni bambino con meno di cinque anni. «Hai visto, Karen? Felicia vuole andare a cavallo.»
Ora entrambe le bimbe stavano piangendo. Con le smorfie e le filastrocche Polly non riusciva a scacciare la tristezza calata sulla stanza. Nel letto C Erin, con un braccio ingessato, si unì al coro. L’unica a dormire era la piccola paziente del letto D, che sarebbe stata sicuramente svegliata dal baccano. Polly si guardò intorno disperata. Che cosa poteva fare?
«Tieni duro» la esortò una voce profonda alle sue spalle. «Qui ci vogliono misure di emergenza.»
Polly si volse e vide il dottor Griffin sulla soglia. Il medico si frugò in tasca, ne tolse una manciata di palloncini colorati da gonfiare e li mostrò in giro. Facendo una buffa smorfia a Karen, sporse le labbra ed emise un suono che sembrava un barrito. Polly cercò di non ridere. Il medico gonfiò due lunghi palloncini gialli e verdi, poi li attorcigliò fino a ottenere la forma di un cigno. Regola numero tre: tutti i palloncini dovevano essere senza lattice. Come faceva a torcerli in quel modo?
«Visto, Karen? Adesso gioca con il tuo nuovo amico» disse il dottor Griffin.
Sotto lo sguardo meravigliato di Polly, Karen accettò il dono sorridendo fra le lacrime.
«Anche a me!»
Felicia tese il braccio sano.
Il dottor Griffin si accostò al suo letto e le toccò la mano. «Che colore vuoi?»
«Rosso» rispose la bimba, saltellando all’interno della gabbia mentre si aggrappava alle sbarre di sicurezza.
«Vuoi una corona o una scimmia?»
«Tutt’e due!»
Pochi secondi dopo Felicia portava una corona rossa e baciava la sua nuova amica scimmia dello stesso colore.
Il medico sbirciò Polly con una luce trionfante negli occhi castani. Lo sguardo la colse di sorpresa e le fece uno strano effetto. Il dottor Griffin gonfiò altri due palloncini che trasformò in buffi oggetti, poi ne diede uno alla bimba restante e depose l’altro sul letto della bimba addormentata. Finalmente si diresse verso la porta. Si fermò presso Polly, che aveva appena finito di rimettere a letto Karen, e gonfiò un ultimo palloncino. Ne fece una spada azzurra e gliela porse. «La usi se avrà nuovamente bisogno di salvare la giornata.» Sbirciò le bimbe ora calme. «Ecco come si fa.»
Polly avrebbe giurato che si fosse interrotto un attimo prima di chiamarla nuovamente bambina.
Se ne andò rapidamente com’era entrato e lei si sentì un po’ sciocca con il palloncino azzurro a forma di spada in mano. Dall’esterno venne la voce lamentosa di un bimbo. «Sono stanco di esercitarmi a camminare.»
«Ti sfido a fare ancora dieci passi, Richie» replicò il dottor Griffin. «Scommettiamo che arrivo alla parete prima di te?»
Era veramente l’uomo che secondo il personale non sorrideva mai?
Invidiando l’abilità dello scorbutico dottore con i bambini, Polly lavorò per tutta la mattina, somministrando farmaci e lavando a letto i piccoli pazienti. A mezzogiorno andò nel piccolo ufficio presso la stanza e si sedette al computer per scrivere gli appunti.
«Come vanno le cose?» chiese Darren, un infermiere di mezz’età con i capelli prematuramente bianchi riuniti in una coda di cavallo.
A giudicare dallo sbiadito tatuaggio sul braccio, un tempo doveva essere stato in Marina.
«Benissimo. E tu come te la passi?»
«Come al solito. Lavoro, aiuto i bambini, non vedo l’ora di andare in vacanza.»
Per il momento Polly non poteva dirsi entusiasta del morale del reparto. Tutti sembravano efficienti ed esperti nelle rispettive specialità, ma guardandosi intorno lei non vedeva buonumore. Aveva sempre detestato la tristezza e ben presto aveva imparato a crearsi la propria allegria per sopravvivere. Doveva trovare il modo di allietare l’atmosfera.
Una fisioterapista passò presso il banco, assistendo un piccolo paziente che cercava di camminare con un deambulatore. La donna si limitò a salutarla con un cenno del capo, ma il bimbo era così concentrato nello sforzo di mettere un piede davanti all’altro che non le prestò attenzione.
Regola numero quattro: l’Angel è il luogo più amichevole del mondo!
Davvero?
Polly si rivolse nuovamente a Darren. «Potresti mostrarmi di nuovo come funziona quel sollevatore Hoyer? Ho una paziente speciale da pesare e devo anche cambiarle le lenzuola.»
«Certamente. Adesso?»
«Ho sempre detto che il miglior momento è il presente.»
Polly finì di battere gli appunti e seguì Darren nella stanza che le avevano assegnato. Insieme sollevarono delicatamente Angelica dal letto.
«Sei di New York, Darren?»
«Sì, nato e cresciuto in questa città. E tu da dove vieni?»
«Da Dover, Pennsylvania.» Polly sorrise pensando alla sua cittadina. «Siamo conosciuti solamente perché durante la Guerra Civile i confederati ci hanno occupati per un giorno.»
Darren sorrise a sua volta e per un momento parve molto più rilassato.
«Se percorri la via principale, non sbattere le palpebre» aggiunse Polly. «Potresti mancarla.»
Per quanto ne sapeva, l’autoironia funzionava sempre.
Darren ridacchiò con lei e Polly ebbe l’impressione di fare progressi mentre finivano il loro compito. Continuando di quel