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La signora dei bottoni
La signora dei bottoni
La signora dei bottoni
E-book337 pagine5 ore

La signora dei bottoni

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Info su questo ebook

In un futuro non lontano dove la tecnologia impera, in una città immaginaria maestosa e dittatoriale, si intrecciano le storie di Ylenia e Petra: una sarta di mezza età con problemi di sovrappeso che rifiuta il progresso e una giovane e bella ragazza madre che non vuole tenere la bimba che porta in grembo. Sarà proprio l’arrivo di Katirina a unire prima, e a dividere poi, le due donne. Petra inizierà a frequentare il Rione Z, la parte della città in cui il progresso non è ancora arrivato e dove vivono i reietti della società. La giovane ha bisogno del Sanagen, una nuova medicina in grado di curare ogni male, e solo Dante, l’uomo che ama, è in grado di procurarglielo.

Passato e presente si mescolano in un intreccio che si dipanerà solo nel finale, in un crescendo di tensione che ruota intorno alla fatidica domanda: fin dove ci si può spingere per amore?
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita22 nov 2021
ISBN9791254580332
La signora dei bottoni

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    Anteprima del libro

    La signora dei bottoni - Nicoletta Bosio

    Cover_fronte.jpg
    Collana Policromia

    Nicoletta Bosio

    La signora dei bottoni

    Pubblicato da © Pubme – Collana Policromia

    Illustrazione di copertina: Isabella Anna Martelli

    Illustrazione degli interni: Gordon Johnson/Pixabay

    Tutti i diritti riservati

    ISBN:

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.

    Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    Capitolo uno

    Io sono antiestetica. O meglio: inguardabile.

    Ylenia pronunciava queste parole ogni mattina mentre si guardava allo specchio, contemplando lo sfacelo che vedeva di fronte a sé.

    Per prima cosa ispezionava il viso. Paffuto. Gli zigomi, ormai quasi completamente invisibili sotto le gote cascanti; gli occhi, un tempo larghi e azzurri, ora piccoli e acquosi, quasi grigi, come se una sorta di lanugine vi si fosse insediata per sempre, oscurandone l’antica brillantezza.

    La bocca era l’unica parte che si salvava. Le amiche cercavano di confortarla dicendo che essendo grassottella non aveva rughe, ma era una ben magra consolazione: non le era mai importato granché delle rughe, anzi, riteneva interessante un viso segnato dal tempo, testimoniava con fierezza le dure battaglie che aveva dovuto sostenere nella vita.

    Dopo aver osservato a lungo e con attenzione ogni singola parte del viso, si dava un’occhiata generale per immaginare come potesse giudicarla a colpo d’occhio chi non la conosceva e si diceva che, nonostante il decadimento, a prima vista poteva anche essere passabile.

    Tornava quindi all’esame del corpo, e qui iniziavano i problemi seri.

    Le spalle, leggermente incurvate sotto il peso degli anni, erano tondeggianti e carnose; la pelle delle braccia cadente e piena di cellulite. La pancia, che fortunatamente non superava ancora la protuberanza del seno, era però informe e abbondante. Immaginava che nessuno avrebbe potuto fare a meno di notare quell’orrenda sporgenza del suo fisico e che nessun tipo di abbigliamento sarebbe riuscito a nasconderne la deformità.

    I fianchi, larghi e a forma di rotolo di pasta sfoglia, nascondevano il punto dove un tempo Ylenia si vantava di avere le anche sporgenti.

    Le cosce erano due autentici prosciutti: cercava di guardarle il meno possibile perché le ricordavano una scrofa con attorno i maialini da latte. Le ginocchia erano un altro punto debole. Grosse, rotonde e circondate da tanta di quella carne da sembrare due ossibuchi. I piedi, piccoli, ma magri e snelli, erano l’unica parte del suo corpo di cui ancora andasse fiera. Solo, si domandava come potessero due basi così minute sorreggere il peso di un corpo tanto più grande di loro.

    Faceva veramente fatica a guardarsi ogni mattina, ma nello stesso tempo le era impossibile non farlo. Come in una sorta di ossessione compulsiva, doveva controllare quotidianamente che tutto fosse almeno come il giorno prima, che durante la notte non fosse ingrassata rispetto al giorno precedente.

    Quando le sembrava di aver ottenuto questa conferma, si vestiva il più rapidamente possibile per non prolungare oltre il necessario l’odiosa vista.

    Vestita, era decisamente più accettabile e il suo umore meno vulnerabile. Si faceva coraggio, si guardava un’ultima volta da tutte le angolazioni possibili e poi affrontava la giornata cercando di non pensare a come potessero giudicarla gli altri.

    Già. Gli altri.

    Quelli di cui in realtà non le importava nulla, ma che erano lo specchio dei suoi timori. Bastava infatti una parola detta anche per sbaglio, un innocente commento, che subito in lei scattava l’autocritica più feroce. Si diceva: «Ecco, allora è vero che sono inguardabile, me lo ha fatto capire anche…», e lì partiva l’elenco di nomi delle persone che secondo lei con una parola, un gesto o anche solo uno sguardo le avevano lasciato intendere di essere la persona più grassa sulla faccia della Terra.

    A poco serviva vedere che esistevano persone più grasse di lei, un esercito di donne e uomini che pesavano dai cento chili in su e che combattevano una battaglia ben peggiore della sua. Lei non voleva confrontarsi con chi era messo peggio di lei, ma con le donne della sua età che sfoggiavano ancora un fisico invidiabile. Si domandava come diavolo fossero riuscite a non ingrassare e immaginava una vita di rinunce culinarie e di stenti, ma in realtà erano tutte persone che sembravano serene e felici, al contrario di lei, che nonostante provasse con tutte le sue forze a privarsi di determinati alimenti non riusciva a farne a meno. In quei momenti maldiceva la sua golosità, che non si traduceva tanto nell’ingozzarsi di dolci, ma piuttosto nel non riuscire a dire di no a un panino durante un pasto o ad alcuni condimenti.

    Aveva scoperto tardi il piacere del cibo, ma da quando le era capitato, tornare a mangiare insipido proprio la disturbava.

    Ed ecco partire il solito rosario di promesse che sapeva in anticipo non avrebbe mantenuto: smettere di mangiare, per giorni, finché non avesse visto il suo corpo iniziare ad assottigliarsi. Oppure cominciare una dieta drastica per vedersi dimagrire in pochi giorni, ma sapeva che non sarebbe stata capace di cenare con uno yogurt magro e una carota.

    Allora decideva di accettarsi per come era… il problema era che non ci riusciva proprio.

    La sua unica consolazione erano le amiche più grasse di lei che, almeno in apparenza, erano serene e osavano addirittura indossare abiti attillati. Lei questo non avrebbe mai potuto farlo, perciò in fin dei conti invidiava anche loro.

    Il suo vero conforto era sapere di avere almeno un punto forte a suo vantaggio, un talento innato che era poi anche quello che le dava da vivere permettendole di fare un lavoro che la appagava e la appassionava: creare abiti su misura. Le sarte erano diventate merce rara da quando l’industria aveva preso il sopravvento su quasi tutti i lavori artigianali, ma lei resisteva, forte della consapevolezza che ci fossero ancora donne ricche e un po’ eccentriche che bramavano distinguersi in tutto, abbigliamento compreso.

    Essere sarta, per Ylenia, poteva sembrare un controsenso. Fare un vestito a un’altra donna significa vederla seminuda, con la conseguente tendenza a fare i debiti confronti tra il proprio fisico e quello della cliente. Tuttavia, in quei momenti riusciva a vedere le donne solo come una sorta di manichini utili al suo scopo, quello di confezionare l’abito perfetto.

    Riteneva di non aver ancora raggiunto l’apice nella sua occupazione: il suo capolavoro doveva ancora essere inventato, ma sapeva di esserci vicina e niente poteva distrarla nel constatare l’effetto che il tessuto mostrava una volta indossato. Non esisteva altro. Infatti, pretendeva il silenzio totale dalle sue clienti mentre verificava che non un centimetro di stoffa facesse difetto o non soddisfacesse in pieno le sue aspettative. Solo dopo aver ispezionato diligentemente tutto, dava il permesso alla cliente di parlare, ma di certo non l’avrebbe lasciata andar via accontentandosi di un risultato meno che ottimo. Se la cliente — come a volte capitava — le diceva: «Va benissimo, solo mi piacerebbe fosse un po’ più… o un po’ meno…», con conseguente spiegazione, poteva star certa che non sarebbe uscita dall’atelier di Ylenia senza che lei avesse risolto anche il minimo dettaglio e accontentato anche la più insignificante richiesta.

    Ylenia era precisa e meticolosa, metteva nel lavoro quel rigore che non riusciva ad avere nella vita. Se durante un pasto, occhieggiando una forchettata di pasta in più, non riusciva a resistere per più di due secondi dicendosi: «Ma sì dai, che sarà mai?», sul lavoro non ammetteva la più piccola concessione al pressapochismo. Per questo, a volte, le sue clienti la consideravano un tipo poco socievole, musona e taciturna, senza capire che in realtà erano proprio quelle caratteristiche a decretare la loro soddisfazione.

    Ylenia era convinta che, se si fosse lasciata andare alle chiacchiere, il suo lavoro ne avrebbe risentito. In particolare, non sopportava le ciance delle future spose, che prendevano il suo atelier per un confessionale e le riversavano addosso tutti i loro timori di novelle mogli, le loro ansie sulla vita matrimoniale e la loro incontenibile felicità per il coronamento del sogno di ogni ragazza: sentirsi principessa e protagonista indiscussa per un giorno.

    Ylenia le lasciava parlare senza replicare, ma quando qualcuna le sollecitava una risposta, diceva laconicamente: «Cosa vuoi che ne sappia, io? Non sono sposata», tacitando definitivamente l’esuberante entusiasmo della giovane in questione, che da sposina un po’ civetta si trasformava in novizia.

    Spesso, chi la raccomandava per un lavoro a un’amica diceva: «È la migliore, ma ha un caratteraccio. Muta come un pesce e anche molto schiva. Non è antipatica, solo un po’ musona.».

    Consapevole di questa sua nomea, Ylenia faceva spallucce e andava avanti a dialogare unicamente con ago e filo, i suoi complici, i suoi protetti, i suoi amici!

    .

    Capitolo due

    L’appartamento di Ylenia si trovava in centro. Era comodo per raggiungere tutti i negozi e vicino ai mezzi di trasporto, il che era fondamentale da quando erano state abolite le automobili inquinanti a causa del troppo elevato tasso di smog. Inoltre era bello poter uscire di casa e godere di una vista tanto appagante per gli occhi.

    Soprattutto per una come lei, che usciva di rado e che era sempre china su un tessuto con ago e filo in mano, poter ammirare le meraviglie che la città offriva era un vero toccasana. Anche solo arrivare in piazza per comprare un rocchetto di filo dalla merciaia era per lei un piacevole diversivo. In quelle occasioni, infatti, approfittava della necessaria commissione per fare un giro per le vie cittadine. Si riempiva la vista di palazzi, edifici, architetture imponenti e bizzarre, ma soprattutto non mancava mai di ammirare, sulla collina che sovrastava la città, il magnifico Castello. Questo era un edificio immenso le cui guglie raffiguravano animali mitologici e ormai scomparsi, come l’aquila, la tigre, l’orso polare e altri.

    Lei ricordava l’esistenza degli ultimi esemplari di quelle bestie meravigliose, e ogni volta che incontrava il loro sguardo di pietra, benché da lontano, non poteva che provare un forte senso di nostalgia per tutto ciò che era stato e non era più. Cercava di scacciare quei pensieri tristi dicendosi che le scelte fatte dall’umanità negli ultimi anni avevano avuto almeno il pregio di ristabilire un grado di civiltà apprezzabile.

    Infatti, se non era stato possibile eliminare la tecnologia dalla quotidianità, quest’ultima era stata indirizzata verso un reale miglioramento della vita. Gli autobus sopraelevati, ad esempio, avevano eliminato gran parte dei problemi legati al traffico. L’utilizzo delle biciclette era diventato di uso comune per chi non poteva permettersi di acquistare le più innovative macchine ecologiche, divenendo di fatto il mezzo più usato, soprattutto in centro. Gli apparecchi obsoleti come i computer fissi, ingombranti, poco versatili e soprattutto non controllabili dal Sistema, erano stati banditi e sostituiti con dispositivi molto più leggeri e tascabili, che avevano rimpiazzato anche tablet e notebook. Anche le armi erano ormai appannaggio del passato: la pace stabilita da tutti i Paesi con un gigantesco accordo mondiale aveva finalmente posto fine alle guerre, e i governi avevano optato per soluzioni diplomatiche per risolvere qualsiasi controversia.

    Inoltre, si andava verso la completa robotizzazione di alcune funzioni che prima erano state umane. Si vociferava addirittura che fosse prossimo l’utilizzo di alcuni prototipi di androidi. Ylenia era felice che la Città avesse mantenuto l’antico splendore e non fosse diventata, come altre capitali, un’accozzaglia di palazzi moderni e impersonali, che toglievano unicità alle metropoli, rendendole tutte simili.

    Ylenia pensava a tutte queste cose mentre tornava a casa, entrando nell’androne del suo antico palazzo in stile liberty e accomodandosi nel suo grande appartamento arredato con gusto semplice e antiquato. I suoi mobili risalivano quasi tutti agli anni ’90 del secolo precedente ed erano sobri ma molto solidi, non pomposi come quelli di epoche anteriori, ma nemmeno asettici e anonimi come quelli moderni.

    Ylenia era soddisfatta della sua casa: era confortevole e intima, molto accogliente. Avrebbe potuto ospitare almeno altre due persone, anche se quelle mura avevano sempre visto solo la presenza della sarta. Non si era mai sposata, né aveva convissuto con qualcuno, compagno o amica che fosse.

    Di amiche, in realtà, ne aveva avute pochissime perché malgrado non fosse sempre stata così grassa, il suo fisico non era mai nemmeno stato dei più sottili e il confronto con le altre le era pesato molto, specie durante l’adolescenza, quando apparire ed essere accettati dal gruppo è tutto.

    Ora, sola nella sua casa, poteva permettersi di gestire tutto come voleva lei, dai ritmi lavorativi a quelli della vita di tutti i giorni. Non c’era nessuno da svegliare per ricordargli che doveva andare al lavoro, non doveva fare attenzione a non disturbare in certi orari, non esistevano discussioni su cosa guardare in televisione la sera… insomma, era padrona del suo tempo e del suo spazio e non avrebbe rinunciato a questa sua libertà per niente al mondo… o quasi.

    Il suo appartamento godeva anche di una posizione privilegiata: situato all’ultimo piano di un palazzo più alto degli altri, offriva una vista panoramica su tutta la Città, ma soprattutto sul grande e tanto chiacchierato Castello che ospitava il Rione Z.

    All’interno del Castello c’era come una città nella città, un villaggio separato dal resto del mondo dalle mura di cinta, ma facente in tutto e per tutto parte della Città. Una volta era stato il quartiere degli artisti, quello più caratteristico e pittoresco, ma ora vi era stata relegata la feccia dell’umanità, composta da chi non si era voluto adattare al cambiamento o che per qualunque motivo disturbava la quiete pubblica. Era una sorta di prigione all’aperto, dove ognuno aveva la sua casa e la sua vita, solo non poteva superare i confini del Castello, pena la detenzione a vita.

    Gli abitanti del Rione Z erano consapevoli di vivere in un luogo che in epoche passate era considerato di lusso; infatti, i castelli un tempo erano le dimore dei re, dei nobili e dei principi; certo, non poteva abitarci il popolino, e questo era per loro motivo di vanto, anche se il resto della città lo considerava il posto più degradato in cui vivere.

    All’interno delle mura ognuno si comportava come gli pareva: non c’erano regole precise e vigeva la più totale anarchia sia per quanto riguardava la condotta morale, sia per quanto riguardava il genere di cittadini che vi si trovava. Vi era radunata, infatti, un’accozzaglia di persone tra le più diverse tra loro: ricchi, poveri, qualcuno che ancora viveva schiavo di antiquati aggeggi tecnologici o delle automobili, e poi c’erano i diversi, tutti quelli che non rientravano in nessuna categoria accettabile, o per caratteristiche fisiche, o per un loro peculiare modo di intendere la società e che non potevano inserirsi armoniosamente nel resto della comunità.

    Ylenia non aveva mai capito bene chi fossero questi diversi, non credeva di essere mai riuscita a vederne uno da vicino, anche perché andare nel Rione Z era proibito. Credeva, però, che avrebbe potuto far parte anche lei di questi reietti che vivevano ai margini della società, proprio perché il suo fisico e il suo modo di interagire con gli altri erano, a suo avviso, scarsamente accettati dalla collettività. Probabilmente non era ancora stata scoperta, perché era certa che, in caso contrario, sarebbe già stata relegata anche lei nel Castello.

    A volte si fermava a fantasticare su come potesse essere vivere, se non proprio nel Rione Z, almeno nelle vicinanze del Castello per poterne assaporare l’atmosfera. Sognava a occhi aperti di essere una regina del passato, che benché ributtante era temuta e rispettata grazie al ruolo che ricopriva. Poi però si rendeva conto che il suo interesse non era rivolto all’apprezzamento che i suoi eventuali sudditi avrebbero dovuto dimostrarle in quanto sovrana. In realtà, la cosa che le premeva era l’accettazione da parte degli altri del suo aspetto. Chissà se prima o poi avrebbe trovato qualcuno in grado di vedere oltre il suo ingombrante fisico.

    Si alzò faticosamente dalla sua abituale sedia da lavoro e andò lentamente a guardare fuori dalla finestra. La Città era tutta uno sfavillio di guglie che riflettevano la luce del sole, irradiandola a trecentosessanta gradi. Era proprio vero: lo spettacolo fornito dai tetti variopinti del centro era unico; che lei sapesse non ve n’era l’eguale in nessun altro posto al mondo, la sua Città aveva un che di fiabesco.

    Inoltre, guardando in basso, si potevano scorgere decine di ciclisti sfrecciare con disinvoltura sui loro velocipedi, creando un’allegra ragnatela di incroci di ruote e un simpatico concerto di campanellini che trillavano nell’aria primaverile.

    Aprì la finestra per godere di quei suoni delicati e armoniosi, così diversi dallo strombazzare dei clacson delle auto a cui si era abituata da ragazza.

    Nel tempo, le biciclette si erano evolute per venire incontro alle più disparate esigenze: dalle più antiche che avevano un piccolo cestello sul manubrio per i sacchetti della spesa, a quelle più moderne a due, tre o addirittura quattro posti, le cosiddette famigliari. C’erano poi quelle col tettuccio per la pioggia e quelle con un dispositivo per la radio, con tanto di vano portaoggetti.

    Insomma, i ciclisti potevano ormai fare quasi tutto quello che un tempo facevano in macchina. I sellini erano molto più confortevoli di quelli di una volta ed erano adatti anche a lunghi percorsi.

    Benché la società si fosse dovuta adeguare, col tempo datori di lavoro e dipendenti si erano resi conto che era meglio per tutti che i secondi abitassero vicino al luogo di lavoro. Per chi si trovava lontano perché era stato assunto quando lavorare a trenta o quaranta chilometri da casa era normale, erano stati potenziati e migliorati i mezzi pubblici: tram, che ancora viaggiavano su rotaia, autobus sopraelevati, ma soprattutto i treni, che percorrevano le tratte dei pendolari. Si sapeva che col tempo questi ultimi sarebbero andati scomparendo, perché la tendenza a spostarsi il meno possibile era sempre più marcata. Vigeva ora l’abitudine a considerare il tempo per la famiglia o per gli hobby personali molto importante, perciò si tendeva a lavorare meno ore e ad avere la comodità di essere vicini a casa. La qualità della vita, riducendo lo stress, era notevolmente migliorata e i dipendenti producevano di più e meglio. Era ormai raro sentire qualcuno lamentarsi del troppo lavoro o dei ritmi disumani, perché la società era stata ripensata per essere a misura d’uomo, e questo comprendeva il tempo per se stessi, il tempo per i figli e il tempo per i propri interessi.

    Seguendo questo stato d’animo gioioso, Ylenia decise di uscire a fare una passeggiata. Non appena fu sul pianerottolo, notò una novità: sulla porta dell’appartamento 2B, quello di fianco al suo, era sparito il cartello vendesi che vi campeggiava da quasi un anno. Strano che non si fosse accorta di niente, eppure se non c’era più il cartello significava che la casa era stata venduta, e per farlo era dovuta venire gente a visitare l’appartamento, magari anche parecchia. Solo che lei non se ne era accorta, pur stando sempre in casa. Probabilmente, si disse, era stata troppo impegnata nel lavoro per farci caso. In ogni modo era contenta che finalmente arrivasse qualcuno ad abitare di fianco a lei. Aveva sempre considerato i vicini di casa una fonte a cui attingere in caso di necessità reciproca. Si augurava soltanto che non arrivasse qualche rompiscatole.

    Capitolo tre

    Pochi giorni dopo, nell’appartamento 2B iniziarono a vedersi movimenti interessanti: uomini in tenuta da muratore o idraulico, imbianchini, e alla fine anche traslocatori.

    Ylenia non aveva avuto il tempo di fantasticare sui nuovi vicini, ma ora guardava incuriosita il continuo andirivieni degli operai. Il rumore che provocavano non la disturbava affatto; anzi, semmai la aiutava a concentrarsi di più nel lavoro e a viaggiare con la fantasia. Ogni tanto andava a sbirciare per vedere come i nuovi inquilini avessero deciso di tinteggiare le pareti, o che tipo di arredamento avessero scelto. Era convinta che questi dettagli dicessero molto sul carattere di una persona, così, fingendo di dover uscire, faceva avanti e indietro sul pianerottolo quante più volte poteva.

    La cosa strana fu che non incontrò mai i padroni di casa: nessuno veniva a verificare che i lavori fossero eseguiti coscienziosamente o che il colore delle pareti fosse proprio quello scelto da loro. Le sembrò un fatto atipico, ma si disse che probabilmente i nuovi vicini avevano piena fiducia nei loro operai. Doveva essere così, non trovava altra spiegazione.

    La cosa più difficile da adocchiare fu proprio l’arredamento, sia perché era imballato in grosse scatole di cartone, sia perché un’altra, ben più interessante presenza attirò la curiosità di Ylenia. Si palesò finalmente la padrona di casa… e Ylenia non avrebbe potuto aspettarsi niente di simile.

    Una donna sola, sui trent’anni. Alta, bella, dai capelli biondo ramato lunghi fino a metà schiena, ma graziosamente raccolti in una pettinatura comoda ed elegante che le lasciava libero il viso scendendo in ciocche ondulate lungo le spalle.

    Gli occhi erano di un azzurro brillante, grandi e larghi, mentre la bocca sembrava disegnata da un pittore pignolo che ne volesse esaltare la forma carnosa e allungata.

    Il leggero trucco sul viso faceva risaltare gli zigomi alti e pronunciati e le ciglia lunghe e folte.

    Vista da dietro sembrava molto magra, il che indispettì non poco Ylenia, che non poté fare a meno di provare un istintivo e immediato senso di antipatia verso quella bella ragazza. Quando si voltò, però, la sarta notò con piacevole stupore che il suo ventre era piuttosto pronunciato. In un primo momento le sembrò strano che una persona potesse essere così magra e avere una pancia tanto grossa, ma osservandone meglio la forma capì immediatamente: era incinta.

    Il moto di antipatia si fece più forte. Non che avesse qualcosa contro i bambini, tutt’altro, ma avere una neomamma di fianco poteva significare molti rumori molesti di giorno e di notte e la cosa non le andava. Si era ormai abituata al silenzio del suo appartamento, aumentato dal fatto di non avere vicini, e l’idea che tutto questo potesse finire a causa di un neonato, che sarebbe cresciuto diventando probabilmente un moccioso che prendeva a pallonate le pareti, non le garbava proprio.

    I primi incontri, in ogni modo, furono suggellati unicamente da un frettoloso buongiorno, perché la nuova vicina era impegnata a dare istruzioni ai traslocatori.

    Altra cosa che non sfuggì a Ylenia fu che per tutta la durata del trasloco non si vide nessun altro che quella giovane donna incinta: né un marito, né un amico, né dei parenti… era assai particolare. Che fosse davvero sola al mondo? O che avesse dei parenti tanto insensibili da lasciar fare un lavoro così pesante a una donna incinta? Insomma, la nuova vicina era già, per Ylenia, fonte di grande stupore e interesse. Avrebbe indagato appena possibile.

    L’occasione le si presentò prima del previsto.

    La mattina seguente al giorno del suo insediamento nella casa, la vicina si presentò a Ylenia suonando delicatamente il campanello: un unico, breve trillo, come se temesse di disturbare e quasi non osasse suonare in maniera più decisa. Quasi come se, non producendo un suono adeguato, quel lieve scampanellio le desse la possibilità di cambiare idea.

    Invece, Ylenia accorse quasi subito alla porta. Riconoscendo immediatamente la nuova vicina, si vergognò della sua tenuta casalinga, con i rossi capelli tenuti insieme alla bell’e meglio da una pinza di plastica nera e una maglietta larga e lunga fino alle ginocchia che sembrava una camicia da notte.

    Si scusò per il suo aspetto, imbarazzata dall’eleganza della ragazza, che non pareva aver appena sopportato la fatica di un trasloco. Era ancora perfettamente truccata e ben vestita — cosa che l’occhio allenato di Ylenia non mancò di notare — e soprattutto sorrideva con benevolenza, dando l’impressione di non essersi affatto accorta delle pietose condizioni in cui lei si era presentata.

    «Non si preoccupi, signora. Lei è in casa sua e ha tutto il diritto di vestirsi come le pare. Sono io che vengo a disturbare e me ne scuso. Lo avrei evitato volentieri, ma mi sono dimenticata una cosa importante…»

    Guardandola meglio, Ylenia notò che aveva i capelli umidi.

    «Scommetto che sta parlando del phon.»

    «Esatto, è l’unica cosa che ho lasciato nella vecchia casa e me ne accorgo solo ora. Purtroppo non posso rimanere con i capelli bagnati. Se lei ne avesse uno da prestarmi… le giuro che glielo riporto appena ho finito. Avrei preferito presentarmi senza dover chiedere subito un favore, ma… A proposito, io mi chiamo Petra.»

    «Smetta di chiedere scusa, Petra, e mi attenda un secondo. Vado a prenderle il phon. Può riportarmelo con comodo anche domani. Io sono Ylenia.» E così dicendo le porse la mano. Non la invitò a entrare.

    Mentre aspettava che Ylenia ritornasse, Petra ne approfittò per gettare un’occhiata all’interno dell’appartamento: sembrava pulito e ordinato, a parte un tavolo sul quale facevano capolino alcuni indumenti e tessuti. Petra non fece in tempo a capire di cosa si trattasse, perché Ylenia tornò velocemente brandendo l’asciugacapelli e sfoggiando un sorriso rassicurante.

    «Ecco qui… Petra.»

    «Grazie infinite. Sarò velocissima.»

    «Non si preoccupi, non ho tutta questa fretta di riaverlo. Ho lavato i capelli oggi e non mi servirà che fra un paio di giorni.»

    Così dicendo, si accomiatò dalla vicina adducendo la scusa che doveva lavorare e chiuse la porta dietro di lei.

    Una volta fuori dalla sua vista, Petra osservò l’oggetto che le era stato consegnato: era molto diverso dal suo. Evidentemente la vicina non prestava grande attenzione alla cura del suo corpo. Il phon era di qualità mediocre, piuttosto vecchio e senza custodia, esattamente il contrario del suo, che invece possedeva tutte le funzioni possibili e immaginabili, era dotato di diversi accessori per pettinare i capelli nei più svariati modi ed era rigorosamente ripulito e riposto nella sua custodia dopo ogni utilizzo.

    Comunque, nell’emergenza doveva accontentarsi.

    Si asciugò i capelli con la solita cura, senza omettere le particolari attenzioni che la sua condizione fisica imponeva. Sapeva che molte donne hanno problemi ai capelli dopo aver avuto un figlio e lei non voleva assolutamente che questo accadesse.

    La lunga chioma era uno dei suoi punti di forza e non tollerava l’idea che potesse rovinarsi a causa di quel

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