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Raccontando Gesturi
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E-book135 pagine1 ora

Raccontando Gesturi

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Racconti come immagini, ricordi come ritratti, storie come schegge di vita di un tempo perduto che rivive nelle testimonianze documentali, ora intense e vibranti, ora flebili e periture, degli abitanti di Gesturi, protagonisti di un'antologia di pensieri sulla storia sociale ed economica del paese all'alba del Novecento. Brani vergati di seppia per riecheggiare, sul filo di una memoria divenuta storia, uno spaccato di vita comunitaria, sospesa tra racconto e fantasia, mito e leggenda, all'ombra di un passato che è nostalgia, malinconia, tormento, ma anche inviolabile eredità storica e spirituale, da custodire e tutelare.

In sommario le testimonianze orali di Maria Bandu, Antonia Brughitta, Francesco Cabras, Giuseppe Cabras, Miranda Carta, Luigia Castangia, Teresa Casu, Anna Cocco, Anna Maria Cocco, Bonaria Cogoni, Luigia Cogoni, Maria Cogoni, Teresa Cogoni, Vitalia Cogoni, Benito Corona, Ida Corona, Giuliano Cuccu, Carmela Erbì, Fabio Erbì, Pietro Erbì, Pietro Antonio Erbì, Amalia Ledda, Maria Ledda, Maria Teresa Ledda, Rita Ledda, Angela Manca, Aurelia Manca, Luigia Massetti, Giuseppe Medda, Mariano Medda, Pietrino Medda, Achille Mereu, Defenza Molia, Eugenio Mulas, Paolo Mulas, Regina Mulas, Angela Murgia, Antonio Murgia, Elena Murgia, Albertina Pirastu, Assunta Pisanu, Giuseppe Prinzis, Maria Sanna, Antonio Serra, Diana Serra, Francesca Serra, Maria Giovanna Serra, Rosa Anna Serra, Sara Serra, Francesco Serri, Luigia Serri, Maria Serri, Luigia Suella, Elena Usai, Maria Usai, Giovanna Usai, Paolina Usai, Eleonora Zedda, Maria Zedda.

Il presente e-book ripropone in versione digitale i contenuti del volume "Raccontando Gesturi" di Federica Lazzari e Manuela Mereu (Editoriale Documenta, 2020, Isbn 978-88-6454-421-2).
LinguaItaliano
Data di uscita1 ago 2021
ISBN9788864544410
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    Anteprima del libro

    Raccontando Gesturi - Federica Lazzari

    Prefazione

    Racconti come immagini, ricordi come ritratti, storie come schegge di vita di un tempo perduto che rivive nelle testimonianze documentali, ora intense e vibranti, ora flebili e periture, degli abitanti di Gesturi, protagonisti di un'antologia di pensieri sulla storia sociale ed economica del paese all'alba del Novecento. Brani vergati di seppia per riecheggiare, sul filo di una memoria divenuta storia, uno spaccato di vita comunitaria, sospesa tra racconto e fantasia, mito e leggenda, all'ombra di un passato che è nostalgia, malinconia, tormento, ma anche inviolabile eredità storica e spirituale, da custodire e tutelare.

    Nota editoriale

    Il presente e-book ripropone in versione digitale i contenuti del volume Raccontando Gesturi di Federica Lazzari e Manuela Mereu (Cargeghe, Editoriale Documenta, 2020, Isbn 978-88-6454-421-2).

    Il volume raccoglie una selezione di testimonianze orali di abitanti di Gesturi. I testi, trascrizione di interviste realizzate sul campo nell’arco temporale intercorrente tra i mesi di ottobre 2014 e dicembre 2015, riportano il contenuto dei documenti orali originali con larga fedeltà alle forme sintattiche e semantiche adottate dagli informatori.

    La musica della campagna

    Chi lavorava in campagna usciva di casa molto presto, quando ancora era buio, con dietro la bisaccia con il poco pranzo; infatti per riuscire a terminare il lavoro quotidiano prima che il sole tramontasse si dovevano sfruttare tutte le ore di luce.

    Le campagne, soprattutto nel periodo della mietitura, tra il vociare dei lavoranti, i canti, il passaggio dei carri e i versi degli animali, erano tutte una musica.

    L’unico momento di silenzio, sacro, era quello della notte fino alle cinque del mattino quando, terminato il tempo del riposo, riprendevano le fatiche della giornata.

    Nonostante la miseria e i sacrifici, questi rumori erano la festa della campagna.

    Paolo Mulas

    Gli animali da lavoro

    La vita dei messaius era legata a doppio filo a quella degli animali da lavoro, che venivano accuditi in casa, soprattutto i buoi.

    Al mattino presto, prima che iniziassero a lavorare, e poi al rientro dalla campagna, si dava loro da mangiare. Poi, quando diventavano vecchi, venivano venduti come carne da macello.

    Ricordo ancora i nomi di alcuni gioghi di buoi di mio padre: Alligra - Cun tottus, Allegra - Con tutti; Castia a tia - E non ghettisti nexi, Guarda a te - E non darmi le colpe; Presumi - Po tui, Sii altezzoso - Per te; Scipiu d’asi - Ca non t’arrenescit, L’hai saputo - Che non ti riesce.

    Avevamo inoltre un asinello dal nome Marchesa e quando doveva girare la macina per ottenere la farina, io e mio fratello dovevamo stare attenti perché ogni tanto si fermava, sollevava su maiollu e mangiava il grano dall’imbuto. Bisognava quindi distoglierlo e babbo si raccomandava sempre che non lo si picchiasse.

    Elena Murgia

    A su pagu pellogu

    Mio padre era pastore ma non aveva bestiame di sua proprietà e pascolava pecore allenas sulla Giara.

    Eravamo talmente poveri che noi figli, così come tante altre persone, soprattutto quelle che non possedevano un fazzoletto di terra propria, aspettavamo che i signori o i padroni dei terreni finissero la raccolta del grano, delle olive o delle mandorle per andare a raccogliere il poco che si erano lasciati dietro, un po’ di qua e un po’ di là, a su pagu pellogu.

    Questa era la nostra principale occupazione: riuscire a portare a casa anche una sola mesuredda, che rappresentava per noi nullatenenti una gran cosa.

    Carmela Erbì

    S’allemùsina

    S’allemùsina? Erano in tanti a chiederla, in particolare gli anziani che non erano più in grado di lavorare e non godevano di alcun tipo di assistenza.

    La chiedeva anche mia nonna: bussava alle porte dei ricchi, soprattutto il sabato, e quando capitava che non le dessero niente mandava me, ma me ne vergognavo molto.

    Insieme ai bambini che abitavano nel mio stesso cortile andavo inoltre a chiedere qualcosa nei paesi vicini ma, a differenza di altri, io non riuscivo a racimolare mai nulla. Nonostante questo al rientro si divideva equamente.

    Anonimo

    La fame tedesca

    Eravamo piccoli e la vita era dura. Si mangiava troppo poco e stavamo sempre scalzi. Per noi il letto — che ho conosciuto a vent’anni, quando sono partito per il servizio militare — non esisteva.

    In casa eravamo otto figli e mio padre era falegname. Costruiva aratri, carri e tutto quello che serviva per lavorare, ma gli mancava la pazienza per insegnare il proprio mestiere, quindi nessuno dei suoi figli lo apprese. Mia madre invece faceva il pane per rivenderlo.

    A quei tempi a lavorare si iniziava da bambini e come servo pastore stavo anche due mesi da solo a pascolare il gregge sulla Giara in cambio di qualcosa da mangiare che non bastava mai.

    A vent’anni mi arruolai in Aviazione e per due anni stetti in Africa, patendo il caldo e soprattutto la sete. Avevamo poca acqua perché gli inglesi ci distruggevano le autobotti, tanto che la pastasciutta spesso la cuocevamo con la stessa acqua del giorno prima. Per due anni portai ai piedi lo stesso paio di scarpe, senza mai lavarmi. I vestiti si lavavano con la benzina, tanto che i pantaloni sembravano di lamiera!

    Ero piccolino di stazza, ma ero forte. Una notte, di guardia, catturai da solo due paracadutisti inglesi mandati a giustiziare i nostri piloti: per quel gesto, che permise di salvare 38 piloti, ricevetti tre croci di guerra.

    Dopo l’Armistizio dell’8 settembre, mi trovavo invece in Piemonte, mi unii ai partigiani della zona del Canavese, collaborando con loro per quattro mesi e vivendo di lavori agricoli. Poi fui catturato dai fascisti: mi picchiarono per dieci giorni e dopo avermi risparmiato dalla fucilazione mi portarono con molti altri uomini e donne in Germania, dove per un anno ho vissuto l’inferno. Dovevamo costruire una ferrovia, lavorando come bestie sotto la neve, con un pasto di 100 grammi di pane e un mestolo di brodo di cavolo o barbabietole al giorno. Facevamo la lotta per recuperare le bucce di patate scartate dai tedeschi. Le persone morivano in continuazione, camminando, dormendo o lavorando, e non dimentico quelli che mentre venivano gettati ancora vivi nelle fosse chiamavano: «Mamma!».

    Vedevo la Madonna tutte le notti e pregavo di rivedere mia moglie che avevo sposato l’anno prima durante una licenza e che avevo lasciato incinta di cinque mesi. Quando gli americani ci liberarono pesavo 25 chili e per rientrare mi affiancai a loro. Mangiavo i loro rifiuti e ridevano della mia fame, quella che io chiamo la fame tedesca che, a 95 anni, sento ancora: credo sia impossibile che un vecchio di quest’età mangi quanto me!

    Dio mi ha dato una vita lunga. Forse per raccontare queste sofferenze.

    Antonio Serra

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