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Il libro nero di Roma antica
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E-book328 pagine3 ore

Il libro nero di Roma antica

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Orribili delitti e disumane crudeltà di famosi personaggi della repubblica e dell’impero

Ritratti in nero, come negativi non sviluppati, di famosi personaggi del mondo antico: pamphlet, stroncature, dossier che danno una immagine intenzionalmente unilaterale dei soggetti rappresentati, ben oltre la rinuncia a una qualsiasi obiettività. Sono falsi storici che però dipendono e discendono dalle fonti antiche, interpretate con la faziosità propria della damnatio memoriae e della propaganda politica, in modo da esagerare il lato più oscuro dei protagonisti e le pagine più infelici della loro storia. A considerare questa galleria nasce il sospetto che i Romani della tarda repubblica e dell’impero fossero gentaglia da cui era preferibile tenersi alla larga. È una conclusione ingiusta, ovviamente, ma i pettegolezzi qui raccolti sembrano utili a ridimensionare l’immagine, che il classicismo retorico ha accreditato presso il pubblico, di eroi senza macchia, cittadini severi e integri, esempi talmente alti da intimidire chiunque volesse seguirli.


Giuseppe Antonelli

studioso del mondo antico, ha pubblicato con la Newton Compton Crasso; Lucullo (finalista al premio Strega); Roma tra Repubblica e Impero; Mitridate; Storia di Roma dalle origini alla fine della Repubblica; Gaio Mario; Clodia; Terenzia e Fulvia; Catilina; Scipione l’Africano; Roma alla conquista del mondo antico; Caligola; Silla; Pompeo; Giulio Cesare, Gli uomini che fecero grande Roma antica e Il libro nero di Roma antica.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854132573
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    Il libro nero di Roma antica - Giuseppe Antonelli

    Caio Giulio Cesare

    Con quali corroboranti lozioni frizionasse il cuoio capel­luto non è stato riferito dai suoi servi o dai familiari, ma era tanto lo scorno di poter diventare desolatamente calvo che Cesare passava buona parte della giornata a cercare di impedi­re di perdere i capelli. Ricorreva a cerusici, barbieri, fat­tucchiere, applicava impiastri, prometteva voti e fioretti al­la sua dea preferita, cioè Venere, genitrice della gente Giu­lia, nella speranza di ottenere il miracolo dell’arresto del­la imminente caduta tricologica.

    I risultati però erano sempre deludenti e, col passare degli anni, poiché non riteneva tollerabile prendere in conside­razione l’ipotesi del parrucchino, si era adattato alla solu­zione del camuffamento a mezzo di corona trionfale. Curava che l’ornamento fosse fronzuto in misura lussureggiante affin­ché la copertura della pelata non latitasse nei punti più cri­tici. Cesare, il quale poteva agevolmente rinunciare a ubria­carsi e alle raffinatezze di cucina e anteponeva, a qualsiasi altra soddisfazione, i piaceri dell’amore, era infatti convin­to che una, sia pure rada ma, almeno, dignitosa capigliatura fos­se indispensabile a favorire gli incontri con le interlocutri­ci più esigenti e insomma a sperimentare, senza complessi di inferiorità, le, per lui, esaltanti pratiche lussuriose del don­naiolo, del seduttore e dell’adultero. Insomma un fisico at­traente e ben curato, valorizzato da una eleganza che pensava di ottenere anche lasciando lenta, negligentemente, la cintu­ra della toga (malcinto lo definivano i suoi tanti critici) giudicava fosse condizione preliminare indispensabile per po­ter seguire la sua vera vocazione esistenziale, quella dello sprecadonne.

    A Roma, negli anni che hanno preceduto il suo proconsolato in Gallia, si era assunto infatti il compito di fare le veci dei mariti assenti. Capitava spesso che i magistrati destina­ti a un servizio all’estero, come governatori o altro, prefe­rissero lasciare le mogli in città. La durata della missione, di solito, superava di poco l’anno e quindi sembrava ai par­tenti che, per un così breve tempo, non valesse la spesa di sbaraccare la casa a Roma, per trascinarsi dietro moglie, fi­gli e schiavi in provincia. I magistrati, poi, destinati a in­carichi non solo amministrativi ma anche militari, ritenevano poco opportuno e anche piuttosto ridicolo avere tra i piedi la moglie nella tenda pretoria dell’accampamento mentre magari si preparava un’incursione contro tribù ostili o addirittura si pianificava una battaglia campale.

    In tutti i casi, comunque, in cui le mogli venivano lascia­te a casa, Cesare si affrettava a proporsi come sostituto del­l’assente nell’alcova nuziale. Aveva tutte le conoscenze e le occasioni per avvicinare le matrone in temporanea vedovanza e non tardava a convincerle grazie anche al suo fascino persona­le, distinto da una statura più alta della media dei suoi con­cittadini, nonché da un eloquio lusingatore e insinuante.

    Si appostava come un bracconiere e ghermiva le prede senza farsi il minimo scrupolo. Nel parco delle donne temporaneamen­te incustodite prediligeva quelle sposate a personaggi impor­tanti, perché gli sembrava di umiliare, schernire o magari con­dividere il prestigio di questi potenti mariti attraverso la congiunzione carnale con le rispettive mogli.

    Diversamente è da pensare nel caso di Postumia, sposa di Servio Sulpicio, per il quale sembra più appropriata una defi­nizione connessa a delirio di onnipotenza. Sulpicio era infat­ti un dipendente di Cesare, arruolato, con i soliti discutibi­li sistemi di corruzione, nella squadra dei suoi sostenitori. A sentir Cicerone, Sulpicio era uomo di sentimenti nobili e di comporta­mento dignitoso oltre che apprezzato giureconsulto; qualità che, in termini correnti, possono suggerire per il soggetto la qualifica di rispettabile trombone. Per maggiore comodità Ce­sare, mentre fornicava con la moglie, lo spedì a fare il gover­natore dell’Acaia. Sulpicio, che forse sospettava il motivo di questa designazione, ne assecondò il proposito lasciando in città Postumia, libera quindi di dedicarsi a tempo pieno e senza sotterfugi defatiganti agli appuntamenti col suo amante.

    Della relazione con Lollia, moglie di Aulo Gabinio, non si conoscono particolari di rilievo.

    Irresponsabili invece sono le storie con le mogli di Pompeo e di Crasso. I due futuri colleghi di triumvirato non erano individui di cui non si dovessero temere eventuali reazioni. È vero che ambedue contavano sull’alleanza del popolare demagogo, ma era difficile prevedere fino a che punto questo interesse avrebbe messo a tacere l’orgoglio.

    Giulio Cesare. Incisione tratta dall’Illustrium imagines di Andrea Fulvio (1517).

    La noncuranza più temeraria, in ogni caso, Cesare l’ha esi­bita nel rapporto con Mucia, la moglie di Pompeo. Il generale non era più un magistrato come tanti altri; era diventato un protagonista della vita della Repubblica e le risonanze della sua fama di stratega nonché l’estendersi impressionante delle sue clientele politiche ne stavano facendo un princeps, il primo cittadino dello Stato romano. Compromettergli la moglie perciò era come sfidare l’uomo più potente del momento e procurarsi una inimicizia che sarebbe potuta diventare assai scomoda. Abbiamo detto: sfidare, perché i due adulteri non hanno cerca­to di coprire la tresca con la riservatezza ma l’hanno vissuta apertamente e non senza una punta di compiacimento mondano. Lo stesso Pompeo, che pure era distante da Roma migliaia di mi­glia, all’inseguimento di Mitridate nel Ponto, ne era al cor­rente e con un tratto di rassegnazione venata di ironia l’ave­va commentata paragonando se stesso ad Agamennone, Mucia a Clitennestra e Cesare a Egisto.

    Episodio da cui si deduce che Cesare sapeva controllare tutti i suoi istinti tranne quelli propri della sfera sessuale, anche quando il non disciplinarli poteva comportare conseguenze disastrose per la sua carriera. Il che equivale a dire che essi prevalevano perfino sulla sua grandissima passione per il potere.

    Un esempio di questa irresponsabile e irresistibile dipendenza lo ha fornito con la parentesi di Cleopatra. Dopo la vittoria di Farsalo e il soggiorno in Egitto, con relativa guerra alessandrina, mancava da Roma da quasi un anno e in un momento in cui la sua presenza era non opportuna ma indispensabile per smaltire le spinose e urgenti conseguenze della guerra civile. Invece di precipitarsi in città per assolve­re i suoi compiti di capo del governo, non ha avuto scrupolo a rinviare il rientro pur di godersi una luna di miele, di pa­recchie settimane, con la regina, in una crociera programmata a risalire il corso del Nilo.

    Ma la donna che si potrebbe definire più fatale tra le mol­te con cui ha trafficato è stata Servilia; per la lunga dura­ta della relazione e per la torbida passione che gli ha ispi­rato.

    Servilia, sorellastra di Catone Uticense, dapprima moglie di Marco Bruto, da cui ha avuto il figlio poi divenuto cele­bre come responsabile della congiura delle Idi di marzo, e poi moglie di Decimo Silano che le ha fatto fare tre figlie femmi­ne, non è stata, come le altre mogli che abbiamo citato, una distrazione temporanea e capricciosa. Secondo quanto confi­dava agli amici, solo dopo molti anni Cesare era riuscito a liberarsi della passione che lo legava a lei. Non sapeva infatti saziarsi della sua intimità. Gli piaceva la struttura anatomi­ca di donna alta e magra con gambe e braccia lunghe, la fles­suosità del busto che gli dava la sensazione di poter usare il suo corpo senza il peso di uno sforzo che lo distraesse dal piacere del contatto vaginale. Ma soprattutto lo eccitava il desiderio femminile che Servilia esprimeva nel rapporto, così frenetico e disinibito da costringerlo, a volte, a domandarsi se fosse lui a violentare la donna o a essere violentato da lei.

    Cleopatra, in un’incisione di F. Garzoli del 1833.

    Vista la continuità insolita di questa relazione verrebbe da supporre che l’interesse di Cesare non fosse composto so­lo di eros bensì anche di sentimenti. Ma il sospetto dovreb­be essere infondato, almeno a giudicare dal seguito della vi­cenda da cui risulta che Servilia considerava un investimento politico le ore che passava a letto col suo peccaminoso part­ner. Per lei, insomma, Cesare era un politico emergente che con­veniva coltivare in vista dei favori che se ne potevano rica­vare sul momento e in futuro. E poiché Cesare non era persona che potesse sbagliare nel valutare i motivi che spingevano una donna ad accettare le sue attenzioni, sembrerebbe da esclude­re che abbia provato per Servilia un affetto profondo, anche se bisogna ammettere che le ha conservato la sua amicizia.

    Anni dopo infatti, svanito il furore iniziale del deside­rio e trascorsa la lunga assenza del governatorato in Gallia e della guerra civile, Cesare pensava ancora alla donna con una punta di rimpianto e di compiacimento.

    Così quando, tornato in città, vide per la prima volta Tertulla, la figlia minore di Servilia, l’antica fiamma si riaccese, ma non per la madre bensì per la figlia. Inuzzolito forse dalla prospettiva di ritrovare, nella giovane, la vertiginosa voluttà provata a suo tempo con Servilia e dal pensiero di collezionare le donne di due generazioni della stessa famiglia. E poiché Servilia gli aveva fatto sapere che sperava nel suo intervento per poter acquistare una tenuta demaniale su cui aveva messo gli occhi da tempo, le aveva risposto che sarebbe stato ben più felice di accontentarla se gli fosse stato concesso di riscoprire e ripetere con Tertulla l’esperienza di felicità vissuta anni prima con la madre di lei.

    Servilia, che aveva constatato in precedenza e constatava ancora quanto fosse importante, per la tranquillità economica e la sicurezza sociale di una donna, andare a letto con un po­tente uomo politico, non fece neanche la finta di scandalizzar­si del ricatto e convinse Tertulla a soddisfare l’oscena curiosità del dittatore.

    L’intrigo ha permesso a Cicerone di insinuare che l’acqui­sto della tenuta non era stato vantaggioso solo per Servilia; perché una tangente pari a una terza parte del profitto (Ter­tulla era la terza figlia della matrona) era andata a benefi­cio di Cesare.

    Se l’incontro, per Cesare, sia stato soddisfacente, in rap­porto alle sue aspettative, non si è riusciti a saperlo; quel che resta della vicenda è l’incredibile comportamento di un padrone dello Stato che si serve del suo potere per costringe­re una madre a persuadere la propria figlia a prostituirsi.

    La predilezione per le mogli dei colleghi, dei potenti e degli amici comprendeva anche le consorti degli alleati, specie se di rango principesco. Durante la campagna di Africa contro i pompeiani, Bogud, re di Mauritania, aveva commesso l’errore di invitare nella sua residenza il console romano con il qua­le aveva concordato una specie di trattato di cooperazione militare che gli assicurava indirettamente la protezione della potente Repubblica latina, attraverso l’intermediazione del suo più influente cittadino.

    Appena arrivato a corte Cesare di una persona si era subito accorto, cioè della moglie di Bogud, la regina Eunoe, una bellissima berbera dalla pelle ambrata, dagli occhi color pervinca e dallo sguardo misterioso e malizioso nello stesso tempo. Nel suo delirio di onnipotenza ormai si era convinto che il rapporto di alleanza gli conferisse il diritto di servirsi dei be­ni dei clienti nonché quello di affacciarsi a curiosare nel lo­ro gineceo, qualora fossero principi. Aveva perciò atteso che Bogud si allontanasse dalla reggia e, senza la minima esitazione, si era introdotto nell’appartamento riservato alla regina con la quale, sembra consenziente, si era giaciuto per una in­tera giornata. Dopo aver esaurito le sue riserve ormonali e consumato tutto il suo desiderio, era tornato nel suo alloggio per riprendersi dalla fatica e tornare alle sue occupazioni abitua­li.

    Bogud, appena tornato in sede, era stato informato dell’in­cursione romana e, dopo una prima istintiva reazione di gelosia, a mente fredda aveva idealmente ringraziato la moglie che, con la sua condiscendenza gli aveva procurato il favore dell’uomo più potente del mondo, assicurandolo con uno di quei legami personali che, a volte, sono più saldi di quelli formalizzati da documenti diplomatici. Così, durante le settimane di soggiorno di Cesare in Cirta, la capitale della Mauritania, con sistema­tica e ben calcolata periodicità, si era assentato dalla reggia per il tempo necessario al suo ospite di approfondire la cono­scenza di Eunoe.

    Diversamente da Scipione che era filogunes, cioè amava soltanto le donne, Cesare non disprezzava gli efebi. Esigeva però che fossero molto attraenti se non proprio bellissimi. Se ne dovrebbe dedurre che il giovane Ottaviano, quando raggiunse il prozio in Spagna, prima o dopo la battaglia di Munda, fosse un adolescente quanto meno gradevole anche per l’apprezzamento di uno che non si contentava facilmente. Sempre che le insinuazioni di Marco Antonio, a proposito di questo capriccio omosessuale del suo capo, siano fondate.

    Senz’altro veri invece sono gli acquisti sul mercato schia­vile che il segretario addetto ai piaceri del dittatore faceva per conto del padrone. I ragazzi reclutati dovevano costituire merce di primissima qualità perché il loro costo era così alto da mettere in imbarazzo l’acquirente. Cesare infatti aveva da­to ordine di non registrare, nel libro mastro dei suoi bilanci, questa spesa voluttaria. E poiché non è verosimile che fosse preoccupato di vedere in quel modo pubblicizzate le sue stravaganze erotiche, bisogna concludere che si vergognasse del prez­zo che gli erano costate.

    È questo forse l’unico tratto di timidezza e di rispetto umano abbastanza sorprendente in un carattere sempre sbrigativo, noncurante e spregiudicato.

    La filosofia di rapina, praticata con le donne, era applicata da Cesare, senza differenze rilevanti, alle tasche degli altri. Le sue vittime preferite, in particolare, erano gli erari pubblici delle varie comunità che sfortunatamente incrociavano la sua strada. Neanche ventenne già ragionava e si comportava come un incallito governatore provinciale rotto a tutti i peculati, a tutte le malversazioni e grassazioni proprie della carica. L’epi­sodio del suo sequestro da parte dei pirati ne fornisce una prova eloquente.

    I pirati, che forse erano poveracci costretti al loro mestie­re non dalla speranza di arricchire ma dalla necessità di so­pravvivere, avevano fissato la cifra del suo riscatto in 20 ta­lenti (poco meno di mezzo milione di sesterzi). Il prigioniero l’aveva interpretata come una quotazione offensiva che avrebbe potuto umiliarlo, quando si fosse conosciuta a Roma, dove avreb­be fatto pensare che nemmeno i delinquenti avevano una grande opinione della sua importanza, del suo potere e del suo presti­gio. Di sua iniziativa perciò l’aveva aumentata a 50 talenti (un milione e duecentomila sesterzi), somma che riteneva più consona alla sua dignità di patrizio romano.

    I suoi carcerieri ovviamente non avevano obiettato all’ade­guamento e avevano perciò lasciati liberi i suoi servi affin­ché potessero procurarsi il denaro spillandolo alle città ri­vierasche che non avevano sorvegliato con diligenza le loro acque territoriali ed erano quindi oggettivamente responsabi­li del sequestro di un cittadino romano.

    Una volta liberato, l’ostaggio aveva costretto le stesse città, sottoposte a contribuzione, a fornirgli una piccola squa­dra navale con la quale aveva inseguito il battello dei pira­ti e recuperato tutto il bottino, cioè il suo bagaglio, il suo denaro personale e quello della taglia. Equità avrebbe voluto che quest’ultimo fosse restituito alle comunità che l’avevano sborsato e che magari avevano prosciugato la cassa comunale per metterlo insieme, ma siccome dovevano essere punite della colpevole trascuratezza della loro guardia costiera, l’ex-pri­gioniero aveva concluso che la multa da comminargli non superasse la somma pagata per il suo riscatto. Valutava infatti questa limitazione come un gesto di benevolenza a ringraziamento della prontezza con cui i provinciali avevano collaborato a inseguire e a catturare le navi corsare.

    Legionari romani, da un rilievo conservato nei Musei Vaticani.

    Una tale confisca avrebbe potuto essere considerata ineccepibile se la taglia fosse stata versata all’erario, quello dell’Urbe o della provincia romana più vicina. Ma si trasformò in una tracotante rapina quando Cesare decise che la più opportuna destinazione del denaro fosse il forziere che faceva parte del suo bagaglio personale.

    Il prelievo dalle riserve pubbliche di Roma è stato ancora più scandaloso, configurandosi come una truffa non occasio­nale ma premeditata e studiata nei minimi particolari. Ci si riferisce alla falsificazione dei lingotti d’oro conservati in Campidoglio proprio nei sotterranei del Tempio di Giove Capi­tolino. Cesare in quel momento era console in carica, cioè ca­po del governo, e perciò non gli fu difficile procurarsi riser­vatamente il calco originale usato dai triumviri monetales per coniare i lingotti d’oro che formavano la riserva. Una volta entrato in possesso dello stampo, l’affidò a un argentario com­plice di fiducia il quale se ne servì prima per fabbricare lin­gotti di bronzo, e poi per camuffarli con un sottile velo di polvere aurea che li rendeva del tutto simili a quelli di me­tallo massiccio.

    Dopo questi preliminari di preparazione, fece in modo da allontanare dal luogo del misfatto eventuali testimoni scomodi e inviò i suoi servi a procedere alla sostituzione.

    Non ci volle molto per trasportare all’andata i lingotti falsi e al ritorno quelli buoni. Come raccomandazione prudenziale il console aveva detto ai suoi uomini di ricostruire con cura i castelletti dei lingotti in modo che non si notassero differenze con i precedenti.

    Le tremila libbre d’oro rubate le aveva vendute poi a tremila sesterzi l’una, con un ricavo di circa nove milioni di sester­zi, che aveva utilizzato per le spese di corruttela spicciola della sua gestione di magistrato, dato che non sarebbero bastate a ridurre, in misura significativa, la montagna di debiti da cui era oberato.

    Quando i magistrati che gli sono succeduti al governo hanno cercato di vendere una parte della riserva, per le necessità correnti dell’amministrazione, hanno dovuto constatare la mani­polazione truffaldina ma non sono stati in grado di scoprire chi ne fosse il responsabile. In privato erano convinti che il ladro non poteva essere altri che Cesare ma, non avendo prove inconfutabili per incriminarlo, sono stati costretti a riscri­vere il registro delle disponibilità finanziarie della repub­blica depennando la voce relativa al tesoro capitolino.

    Del resto la gran parte delle iniziative di Cesare sono as­similabili a tentativi di procurarsi denaro, senza badare al come. Si dice che dopo Farsalo sia corso in Egitto per inse­guire Pompeo, ma è una spiegazione poco credibile. In realtà è approdato ad Alessandria con un obiettivo specifico: farsi pagare dalla corte egiziana la tangente che Tolomeo Aulete ave­va garantito a lui e ai suoi compari di triumvirato in cambio del riconoscimento formale come faraone.

    Statua di Giulio Cesare, in un’incisione di F. Perrier.

    Da propretore, in Spagna, la sua avidità è stata superata solo dall’ipocrisia. Nella grande penisola iberica sussistevano ancora aree semindipendenti, perché lontane dalle vie di comunicazione più frequentate e dalle regioni di maggiore interesse strategico, distribuite a macchia di leopardo in tutto il territorio, e perciò non ancora sverginate o non abbastanza battute dalla presenza romana. E ne rimanevano ancora tante da consentire ai promagistrati designati governatori di inventarsi gratuite guerricciole di conquista grazie alle quali pretendere il trionfo al rientro in città e cogliere l’occasione per derubare a piacimento i beni dei malcapitati provinciali. I quali avevano sì conservato una certa indipendenza, ma solo perché nessuno, finora, si era presentato a contestargliela.

    Cesare ha impiegato la sua propretura in Spagna per vendem­miare tra le dimenticate cittaduzze della Lusitania la tangen­te abituale che i governatori romani esigono dai loro ammi­nistrati. Di solito questi saccheggi sono in parte giustifica­ti da un accenno di resistenza delle comunità prese di mira. Ma Cesare non poté vantare neanche

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