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I grandi condottieri di Roma antica
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E-book1.442 pagine21 ore

I grandi condottieri di Roma antica

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Info su questo ebook

Gli uomini che impressero il loro marchio sulle conquiste, sulle battaglie e sulle guerre dagli albori di Roma alla caduta dell’impero romano d’Occidente

In ogni periodo dell’epopea di Roma antica, dagli albori al crollo finale, grandi generali hanno scritto pagine memorabili e avvincenti, pur con intenti e motivazioni diverse. Così, nella prima fase della repubblica troviamo personaggi disinteressati, consacrati alla maggior gloria della loro patria, come Furio Camillo, Fabio Massimo, Scipione l’Africano. Nell’epoca delle guerre civili, figure come Mario, Silla, Pompeo e Cesare, pur contribuendo in ampia misura all’espansione del mondo romano, agiscono principalmente sulla spinta dell’ambizione personale. Con l’impero, i grandi generali, spesso gli stessi imperatori, sono sì mossi dalla brama di potere, ma si considerano anche gli individui della provvidenza, i più adatti dapprima a espandere, come Germanico o Traiano, poi a difendere i confini di Roma, come Settimio Severo e Costantino. Dopo il primo imperatore cristiano inizia una nuova fase, con imperatori sempre più inetti e un esercito sempre più barbarizzato. I nuovi condottieri sono i magistri militum, romani di scuola barbarica, come Ezio e Oreste, mezzosangue, come Stilicone, o addirittura barbari, come Ricimero e Odoacre. Costoro instaurano delle vere e proprie dittature militari, dando luogo al più straordinario dei paradossi che contraddistinguono l’epoca della caduta dell’impero romano d’Occidente: un barbaro a capo e a difesa di un impero assediato da barbari.


Andrea Frediani

è nato a Roma nel 1963. Laureato in Storia medievale, ha collaborato con numerose riviste specializzate, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Attualmente è consulente scientifico della rivista «Focus Wars». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Gli assedi di Roma, vincitore nel 1998 del premio Orient Express quale miglior opera di Romanistica; Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; Le grandi battaglie di Giulio Cesare; Le grandi battaglie del Medioevo; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Guerre, battaglie e rivolte nel mondo arabo e L’ultima battaglia dell’impero romano. Ha scritto i libri 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano e 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita, e i romanzi storici 300 guerrieri; Jerusalem (tradotti in varie lingue); Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare – quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011) e Marathon.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854132542
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    Anteprima del libro

    I grandi condottieri di Roma antica - Andrea Frediani

    132

    Prima edizione ebook: agosto 2011

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-541-3254-2

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Andrea Frediani

    I grandi condottieri di Roma antica

    Gli uomini che impressero il loro marchio sulle conquiste, sulle battaglie e sulle guerre dagli albori di Roma alla caduta dell’impero romano d’Occidente

    Newton Compton editori

    NOTA DELL'AUTORE

    Due volumi in uno. Ho scelto, con l’editore, di ripubblicare insieme I grandi generali di Roma antica e Gli ultimi condottieri di Roma, per coprire in un unico libro tutto l’arco temporale della storia di Roma antica, dagli albori della Repubblica alla caduta dell’impero d’Occidente. I due volumi raccontano due storie distinte, in realtà: l’uno, quella di una serie di comandanti romani impegnati a estendere e difendere i possedimenti della città eterna, l’altro, i successi e i fallimenti di personaggi assai controversi, che di romano avevano ben poco, ma che hanno comunque rappresentato la storia di Roma nella sua ultima fase.

    In questa rassegna si trovano dunque riuniti consoli, dittatori, imperatori, proconsoli, magistri militum e patrizi; ma anche romani, provinciali, mezzosangue e barbari. Il lettore potrà disporre di una visuale molto ampia sulla carriera e la vita dei condottieri che si sono succeduti nelle varie epoche e sui nemici che si sono trovati ad affrontare, da Furio Camillo, impegnato contro galli, volsci ed etruschi, a Odoacre, vincitore sui romani stessi e poi sconfitto dagli ostrogoti. Mille anni di storia militare, contrassegnati e scanditi dalle imprese di comandanti talvolta mitici, talaltra misconosciuti, ma sempre in grado di lasciare un segno nella storia di Roma.

    Andrea Frediani

    marzo 2011

    I GRANDI GENERALI DI ROMA ANTICA

    DALL'ETÀ REPUBBLICANA A COSTANTINO

    A Livia

    INTRODUZIONE

    Quattro secoli prima di Cristo, una figura dagli incerti contorni storici, Furio Camillo, combatteva ai confini del Lazio per la prima guerra di conquista di Roma, e nei dintorni della stessa capitale per sopravvivenza dell’Urbe. Sette secoli dopo, Costantino il Grande avrebbe combattuto lungo il Reno e il Danubio, per garantire alla città capitolina la stabilità del suo impero, e all’interno delle frontiere per affermare la propria supremazia sugli avversari politici. I nemici del primo erano equi, volsci, etruschi, principalmente, tribù e popoli tanto importanti nella storia antichissima della penisola quanto rapidamente scomparsi dallo scenario italico, travolti dalla marea romana che tutto sommergeva. Il secondo, di contro, pur avendo legato il proprio nome di condottiero alle sue vittorie nelle guerre civili, ebbe a che fare con sarmati, alamanni, franchi, ovvero con tutti quei popoli che, nell’arco di un altro secolo e mezzo, con la loro continua pressione avrebbero posto fine alla millenaria storia da dominatrice della città eterna.

    E ancora, con Furio Camillo siamo nel momento in cui la sacralità della Repubblica, per reazione al precedente dominio dei re, raggiunge il suo apice e nessuno, per quanto gratificato di onori, incarichi e ruoli, per quante vittorie possa conseguire, può essere altro che uno dei magistrati della città, con tutti i lacci e i vincoli che circoscrivono la sua azione. Costantino, invece, agisce in un contesto nel quale il più forte prende tutto, e la monocrazia è ormai un fatto assodato. Tutti i grandi condottieri apparsi sulla scena nel lungo periodo compreso tra questi due personaggi, indipendentemente dalle loro aspirazioni e ambizioni, hanno dovuto misurarsi con il sistema politico, che dapprima li irreggimenta e mette la loro ambizione al servizio della democrazia/oligarchia della repubblica romana, poi se ne fa violentare sempre più frequentemente, fino a mettersi esso stesso al servizio della loro ambizione. Così, vediamo che le ripetute e cronologicamente limitate magistrature di Furio Camillo e dei comandanti delle guerre puniche, nei successori si trasformano in mandati proconsolari che consentono loro di detenere il potere e il controllo di interi eserciti per più anni; a quel punto, i più ambiziosi hanno ormai tutti gli strumenti per imporre la loro volontà al senato e al popolo romano, e se ne valgono non solo per gestire con sempre maggiore autonomia le loro conquiste per conto di Roma, ma anche per conseguire un potere politico di sempre più vasta portata.

    Cesare rappresenta la cesura, ancor più di Mario, ancor più di Silla, di Pompeo. Con lui, i romani iniziano a familiarizzare con il concetto di potere assoluto, che nei suoi successori diverrà talmente acquisito da dare luogo a dinastie, con degli imbelli sul trono grazie esclusivamente alle brillanti gesta, soprattutto militari, dell’eponimo. Ma anche questo periodo finisce, lasciando spazio alla trasformazione del potere assoluto nel diritto del più forte: il generale più autorevole, ambizioso e determinato, nell’ultima fase dell’impero, si tiene l’impero stesso fino a quando non arriva qualcuno più forte di lui, che si sente nel pieno diritto di sostituirlo, solitamente con la forza. Siamo di nuovo al potere cronologicamente limitato, e circoscritto da altri. Si tratta, a ben vedere, di un andamento ciclico, nel quale l’unica parabola lineare è quella delle istituzioni, che precipitano sempre più in basso, soccombendo alla personalità degli individui.

    I primi condottieri ci appaiono come uomini pieni di virtù, generosi, corretti, che mettono la propria abilità al servizio della Repubblica: Furio Camillo, Fabio Massimo, Claudio Marcello, Scipione l’Africano, Scipione Emiliano, tutti quanti uniti dal comune rispetto per le istituzioni, all’interno delle quali agiscono, pur con i differenti gradi di potenza e di influenza politica che sanno raggiungere. Poi arriviamo all’epoca delle guerre civili e alla caduta della Repubblica: uomini come Mario, Silla, Pompeo, Giulio Cesare, Crasso, Marco Antonio e Augusto, individui decisamente privi di scrupoli istituzionali, mettono la propria ambizione al servizio esclusivo di se stessi, puntando in maggiore o minore misura al conseguimento di un potere supremo che è ancora tutto da inventare, e che prende forma proprio in questo periodo: Lucullo è l’unico anacronismo, e infatti si limita a un ruolo da comprimario, di fronte alla schiacciante personalità dei suoi colleghi contemporanei.

    Con l’impero, i comandanti delle armate di Roma hanno a disposizione le enormi risorse che il loro grande potere gli consente di utilizzare: si tratta infatti di imperatori, come Traiano e Marco Aurelio, che devono tener conto solo di un senato sempre più a disagio di fronte all’affermarsi della figura del sovrano, o di membri della casata imperiale, come i vari Agrippa, Druso, Germanico, Tiberio e Tito. Il senso di sacralità che va sempre più assumendo il dinasta lo responsabilizza e, se pure si tratta di un individuo ambizioso e privo di scrupoli, egli è anche capace di agire per il bene dell’impero, oltre che per mantenersi saldo al potere o per emulare Alessandro Magno, figura che ha sempre esercitato un fascino particolare su quasi tutti i condottieri dell’Antichità. Con gli ultimi grandi generali, Aureliano e Costantino, siamo di nuovo di fronte a individui che pongono le proprie abilità al servizio della loro ambizione, in un periodo di estrema instabilità politica e militare; ma costoro si ritengono anche gli individui della provvidenza, i soli uomini in grado di porre riparo allo sfascio in cui versa l’impero: una fiducia in se stessi pienamente giustificata dalle loro straordinarie imprese e intuizioni da imperatori, che ritardano, e di molto, la fine del dominio di Roma.

    Viene spontaneo chiedersi chi sia stato il più bravo, il migliore condottiero di tutti. I numeri indicherebbero Scipione l’Africano, che è l’unico comandante romano rimasto imbattuto – e l’unico della Storia, insieme ad Alessandro Magno e al duca di Marlborough –, e che affrontò non imperi in decadenza, non barbari sprovveduti, ma l’avversario più prestigioso e valente di tutti, Annibale; compì inoltre le sue imprese a dispetto dei mille vincoli che le rigide regole della costituzione della repubblica romana gli imponevano, traendo il massimo dalle limitate risorse che il senato gli mise a disposizione nelle prime fasi della sua carriera. Infine, la sua creatività, la sua elasticità mentale, il suo spirito innovativo lo rendono certamente il comandante più versatile e fantasioso in fatto di tattiche e strategie, l’unico, forse, tra quelli esaminati in questo libro, le cui imprese si possono studiare come un manuale di tecniche di guerra, e che avrebbe ottenuto successo anche senza la determinazione e la mancanza di scrupoli che sono alla base delle vittorie di tutti gli altri.

    La gloria e la potenza acquisita da Giulio Cesare nelle sue innumerevoli imprese, d’altronde, rende un po’ stretto a quest’ultimo il secondo posto. Qualche battaglia la perse, ma vinse tutte le guerre cui partecipò, dalla gallica alla britannica, da quella civile all’alessandrina, dall’africana all’ispanica. Non ci appare un tattico e uno stratega del calibro di Scipione, ma il suo genio è lampante in altri aspetti che costituiscono il bagaglio di un generale, ovvero la determinazione, la capacità di sfruttare il fattore tempo e, soprattutto, quella di legare a sé i soldati, di motivarli fino a indurli a dare la vita per la sua causa: come quel centurione, a Farsalo, il quale dichiarò che il suo obiettivo era, vivo o morto, di fare in modo che il suo comandante fosse fiero del suo operato in battaglia; una dote fondamentale nell’epoca in cui Cesare visse, durante la quale i successi in guerra e il controllo delle legioni erano il viatico per l’ottenimento della preminenza politica.

    Un posto sul podio spetta anche a Mario, e non solo per le sue innumerevoli vittorie, ottenute per la gran parte con avversari contro i quali i suoi predecessori avevano raccolto poco o niente. La sua importanza risiede principalmente nelle innovazioni tecniche relative all’equipaggiamento del legionario, e nell’arruolamento dei nullatenenti che, nel bene o nel male, modificò radicalmente l’essenza degli eserciti romani, la loro funzione e la loro disponibilità al servizio, aprendo la via sì agli eserciti privati, ma anche al servizio di carriera.

    A ridosso del podio, un posto lo merita Aureliano, capace di fare in un quinquennio quello che un lungo stuolo di imperatori prima e dopo di lui, tra Settimio Severo e Costantino, non furono capaci di fare tutti insieme: sgominare gli usurpatori e recuperare all’impero cospicue porzioni di territorio, tamponare tutte le falle che si aprivano lungo i confini con una velocità tale negli spostamenti, da un capo all’altro dell’impero, da far supporre che possedesse il dono dell’ubiquità. Non meno lusinghiero è il curriculum dello stesso Costantino, che ci dicono aver condotto una ventina di campagne. La sua completezza come militare, capace di motivare i suoi uomini, sorprendere gli avversari con spostamenti rapidi e tattiche mai banali, ne fa un legittimo aspirante a una posizione di prestigio nella nostra graduatoria.

    Altrettante benemerenze potrebbe vantare Agrippa, che fu senza dubbio il più grande come ammiraglio, passando anche alla Storia per aver escogitato uno strumento bellico di micidiale efficacia come l’arpax. Il suo grande merito, tuttavia, è quello di essere stato l’artefice principale, e in molti casi esclusivo, di gran parte delle vittorie di Ottaviano Augusto il quale, senza l’abilità di condottiero di Agrippa e la lealtà di questi verso la propria persona, difficilmente avrebbe creato l’impero e ottenuto per sé il ruolo e il potere che seppe conseguire.

    Degli altri, del resto, ognuno ha un suo record personale che lo candida per un posto di prestigio nella ideale classifica dei condottieri di tutti i tempi. Pompeo e Traiano furono i generali che si spinsero più lontano di ogni altro, estendendo la sfera di influenza di Roma fino al Mar Caspio, estremo limite orientale delle conquiste capitoline. Fabio Massimo il Temporeggiatore e Claudio Marcello ebbero il merito di tener testa ad Annibale nel periodo in cui questi era considerato invincibile; Tito riuscì a espugnare una roccaforte apparentemente imprendibile come Gerusalemme, e Scipione Emiliano l’avversario più duro per Roma, ovvero Cartagine; Marco Antonio seppe vendicare la morte di Cesare con la vittoria di Filippi, nonostante lo scarso apporto di Ottaviano; Silla inflisse ripetute sconfitte a uno dei più pervicaci e tenaci avversari che i romani abbiano mai avuto, Mitridate del Ponto; Tiberio condusse con efficacia e accortezza ogni campagna affidatagli dal padre adottivo; Furio Camillo fu l’artefice del trionfo capitolino sui principali nemici di Roma arcaica, gli etruschi di Veio, dei quali seppe conquistare la roccaforte, proponendosi come assoluto protagonista della prima guerra di conquista intrapresa dai romani: la tradizione attribuisce a quest’ultimo anche il ruolo di promotore della riscossa di Roma ai danni dei galli, freschi reduci dall’aver messo a ferro e fuoco la città capitolina nell’unica circostanza in cui ciò avvenne prima delle grandi invasioni barbariche dell’ultimo secolo.

    Ma abbiamo scherzato. Una classifica è quanto di più ingiusto e aleatorio si possa escogitare a proposito di uomini delle cui gesta ci è giunta un’eco solo parziale; la conoscenza che abbiamo delle loro imprese e l’idea che ci siamo fatti di loro dipendono dalla carenza o dalla ricchezza delle fonti, nonché, e in misura altrettanto rilevante, dall’orientamento di quelle sopravvissute. In effetti, c’è una tale differenza di documentazione tra l’uno e l’altro, che non si può dire che questi generali siano tutti uguali ai nostri occhi: di qualcuno possiamo descrivere anche gli episodi marginali delle sue campagne, di altri non sappiamo neanche come si sia svolta una guerra vittoriosa, e a stento riusciamo a ricostruirne i momenti salienti.

    Altrettanto decisivo è il momento storico, per il quale c’è chi agisce con tutte le risorse dell’impero a disposizione, come gli stessi imperatori, e chi vincolato ai rigidi dettami della repubblica. Quest’ultimo deve fare i conti con l’esiguità del mandato, che lo obbliga a non perseguire strategie a lunga scadenza e ad affrettare i tempi di un’azione per non lasciare il merito dell’impresa al successore; con la presenza di un altro console, col quale spesso hanno luogo interminabili diatribe per raggiungere un compromesso sulla condotta da tenere nella campagna; con la volontà del senato, entro il quale di frequente si trovano i suoi avversari politici; con il desiderio dei soldati, cittadini che prestano servizio occasionale, di portare a termine la campagna nel più breve tempo possibile.

    Non meno importante è la caratura degli avversari. C’è chi affronta barbari sprovveduti, privi di organizzazione tattica e logistica, bellicosi ma facili allo scoramento, chi gli stessi barbari, secoli dopo, resi scaltri dal lungo contatto con il mondo romano o, addirittura, dalla militanza tra le file dell’esercito imperiale come mercenari o ausiliari. Alcuni condottieri combattono contro imperi e regni al culmine della loro potenza, con un apparato militare imponente, altri contro reami divisi e sfaldati, in grado di opporre poca resistenza. E ancora, tra i comandanti avversari ci sono dei veri e propri geni, come Annibale, e anche fior di generali, come Arminio, Vercingetorige, Mitridate, Surenas, ma anche dei perfetti sconosciuti senza ascendente sulle truppe e senza grande esperienza, che non è difficile surclassare. In qualche caso, poi, i nostri protagonisti si scontrano tra di loro: è guerra civile, e il vincitore può annoverare nel suo curriculum il fatto di aver prevalso su un nemico di indubbia competenza e di assoluto prestigio.

    Imperator, è il termine con cui i soldati prima, e il senato poi, definivano colui che conduceva alla vittoria le proprie truppe, indipendentemente dalla carica che questi ricopriva nell’apparato costituzionale. Ci sono stati imperatori, come Marco Aurelio e Settimio Severo, che sono arrivati a conseguire una decina di acclamazioni imperiali, anche grazie alle vittorie dei loro generali subalterni; ma una statistica, o addirittura una classifica, sulla base di questo solo elemento, attesterebbe più il grado della loro potenza e quello del loro influsso sulla truppa, che il loro valore come condottieri.

    Di grandi generali, d’altronde, la storia romana è piena, in ogni epoca. L’età arcaica e la prima repubblica fino a Furio Camillo producono personaggi del calibro di Cincinnato, con il quale, soprattutto in termini di integrità morale, si confrontano molti dei comandanti successivi, o Fabio Massimo Rulliano, il plurivincitore dei sanniti che Tito Livio paragonava ad Alessandro Magno. Le loro gesta, tuttavia, fanno parte della leggenda di Roma, più che della sua storia, e comunque, le loro imprese sono davvero troppo esemplari, perfino mitiche, per poter essere inserite in una rassegna di esseri umani reali, figure abili e perfino geniali quanto caratterizzate da difetti e vizi comuni ai più biechi istinti della soldataglia e alla mancanza di scrupoli di taluni ambiziosi politici. Il resoconto delle imprese di Furio Camillo sia sufficiente come testimonianza di una lunga epoca dalla quale si fa fatica, in realtà, a trarre il materiale per delineare il ritratto di un uomo che non offra solo la dimensione del trionfatore disinteressato, retto ed equilibrato.

    Anche la caduta dell’impero ci propone militari di spicco, anzi, alcuni di essi potrebbero perfino concorrere per il podio ideale che abbiamo abbozzato in precedenza, non fosse altro che per l’immane compito cui dovettero far fronte, mantenendo a galla una nave dalle falle talmente diffuse e ampie che non era più possibile, ormai, impedirle di trasformarsi in un relitto sul fondo del mare. Su tutti, certamente Ezio, l’ultimo dei romani, che compì miracoli per trent’anni, nonostante l’ostilità della famiglia imperiale; ma anche Teodosio, l’ultimo imperatore-soldato, e Costanzo, l’ultimo soldato divenuto imperatore per meriti militari. Ma la loro è davvero un’altra storia, quella di uomini vissuti in un periodo unico, che non è più Antichità ma non è ancora Medioevo, un capitolo a parte e senza soluzione di continuità tra i suoi protagonisti, non solo nella lunga saga di Roma, ma nell’intero lungo corso della Storia umana.

    La loro levatura, come anche quella dei più strenui e impegnati difensori dell’impero analizzati in questo volume – Costantino, Aureliano, Marco Aurelio, Settimio Severo – attesta con sufficiente chiarezza come di personaggi di grande spessore ve ne siano stati in ogni epoca, a Roma, a dispetto delle opinioni degli antichi, affannatisi fin dall’età d’oro di Augusto a dimostrare come la decadenza di Roma dipendesse dalla progressiva penuria di uomini validi. La decadenza è nei valori, piuttosto, almeno secondo quanto traspare nell’opinione dei nostri informatori, nel senso che gli uomini validi, i quali un tempo sarebbero stati il veicolo di alti ideali, strumento di un sistema costituzionale apparentemente in salute, a partire dal I secolo a.C. ritengono di poter approfittare delle disfunzioni di quello stesso sistema per porsi al di sopra di esso, nella migliore delle ipotesi perché si ritengono gli unici in grado di farlo funzionare meglio. Ma è proprio questa una delle caratteristiche che rendono la storia di Roma un argomento che non c’è alcun bisogno di romanzare per rendere appassionante il suo racconto.

    A.F.

    I

    PER LA REPUBBLICA

    1

    TRA STORIA E LEGGENDA

    Furio Camillo

    Fa una certa impressione pensare che la prima guerra di conquista di Roma sia stata intrapresa ai danni di una città che non esiste più, ovvero di un sito che, adesso, è solo materia per archeologi. Il pianoro tufaceo su cui sorgeva Veio, a quindici chilometri dal centro dell’Urbe, infatti, non ha avuto alcuna continuità insediativa, nel corso dei secoli, e l’abitato più vicino è Isola Farnese, nei pressi ma tutt’altro che attaccato ad esso. Eppure, quell’antica città, avamposto meridionale etrusco, ne diede, di filo da torcere, ai romani, fin dall’età regia, al punto che la sua conquista e la sua caduta sono narrate nelle nostre fonti residue – tutte rigorosamente posteriori all’evento, e di parecchio –, come una nuova guerra di Troia, con una serie di paragoni omerici e una durata, decennale, che desta più di qualche sospetto.

    E come in ogni epopea che si rispetti, emerge un eroe, l’artefice del successo finale dei capitolini, il novello Odisseo che, con la sua astuzia, riesce a porre fine a un conflitto talmente estenuante per i romani da aver provocato radicali cambiamenti nell’ordinamento militare dell’Urbe. E da allora, nella tradizione che è giunta fino a noi, quell’eroe è stato anche l’artefice di pressoché tutte le vittorie di Roma nei decenni a venire, contro i popoli cinconvicini contro cui l’Urbe condusse una serie ininterrotta di guerre fino a quando l’intero Lazio non fu sotto il suo controllo.

    Quell’eroe, «il primo capitano che aprì ai romani la brillante e pericolosa via delle conquiste straniere», secondo Mommsen, era Marco Furio Camillo, spuntato fuori quasi dal nulla per tutti gli autori antichi, tranne che per Plutarco; il grande biografo greco ci informa che anni prima, nel 431 a.C., appena sedicenne, questi si era distinto nella grande battaglia del lago Regillo, nella quale il dittatore Aulo Postumio Tuberto aveva sconfitto equi e volsci; il giovane, pare, «mentre infatti cavalcava in testa a tutto l’esercito, raggiunto da un colpo alla coscia, non cedette, ma estrasse il giavellotto infisso nella piaga e si azzuffò coi nemici più valorosi volgendoli in fuga»¹.

    Sappiamo quindi che era un cavaliere. Apparteneva dunque a una famiglia sufficientemente benestante da garantirgli un cavallo, ma non tanto da permettere alla sua gens di rivestire cariche importanti prima di lui; lo stesso Plutarco afferma che fu il primo della sua famiglia a raggiungere la notorietà. Ma qui ci viene in soccorso l’archeologia, che consente di precisare, grazie ad alcune iscrizioni sepolcrali, come il ragazzo facesse comunque parte di un’antica famiglia patrizia di Tuscolo, la gens Furia, e fosse perciò di origine etrusca. D’altro canto, il comportamento eroico di Camillo al lago Regillo non valse a garantirgli un immediato salto di qualità nell’establishment capitolino, allora squassato dalle lotte tra plebei e patrizi, ma ancora saldamente nelle mani di questi ultimi; dovettero passare ben ventotto anni prima che gli venisse affidata una carica di rilievo, ovvero quella di censore. Dopo il consolato e il tribunato, la censura era una delle magistrature più importanti dell’intero apparato repubblicano: i due che la rivestivano annualmente, oltre a occuparsi del censimento della popolazione, gettavano un occhio alla pubblica moralità ed erano responsabili della locazione di immobili e terreni pubblici. Camillo e il suo collega, Marco Postumio Albino, peraltro, furono costretti ad adottare provvedimenti largamente impopolari, come la tassa sul celibato e la tassazione degli orfani – abolita dopo l’età regia. Era il 403, d’altronde, e la lunga volata finale contro Veio era certamente già iniziata, pur non volendo dare credito alle fonti che la fanno durare un decennio: serviva denaro, e proprio in quell’anno si decise di prolungare le campagne annuali al periodo invernale, privando così la guerra di una soluzione di continuità fino alla sua conclusione.

    Veio

    È ovvio, dunque, che un vero e proprio assedio alla città etrusca sarà iniziato a partire da quell’anno, ed è altrettanto ovvio che nessun uomo, per quanto attaccato alla propria città, era disposto a rimanere in trincea per un intero anno solo per assolvere un dovere civico: ecco dunque arrivare, finalmente, la paga per i soldati, ma non solo. Gli equites iniziarono a militare con cavalli propri, ricevendo inoltre dallo Stato una certa somma, mentre in precedenza godevano solo delle indennità per l’acquisto e il foraggiamento dell’animale. Infine, fu aumentato il numero dei tribuni con potestà consolare, che costituivano una sorta di compromesso tra patriziato e plebe, dopo che quest’ultima aveva reclamato a lungo l’accesso al consolato per almeno un suo rappresentante l’anno: l’aumento dei fronti di guerra, ma anche la volontà di stemperare il potere che veniva così ad acquisire il popolo, avevano infatti indotto da qualche decennio il senato ad aumentare, in determinate circostanze, il numero annuale di quanti rivestivano la suprema magistratura, cambiandole denominazione; parimenti, in circostanze altrettanto eccezionali, si poteva ricorrere a un unico comandante, mediante una dittatura.

    Altri due anni, e a Camillo sarebbe stato assegnato un ruolo più strettamente militare, ovvero il tribunato con potestà consolare, che avrebbe condiviso con altri cinque colleghi. Ma nel 401 non ebbe nulla a che fare con Veio, se non indirettamente. Nessuno, nella confederazione etrusca, si era mosso per aiutare la città assediata, per vari motivi, che vanno, pare, dall’aver questa iniziato la guerra senza consultarsi con gli altri, all’esigenza di mantenere i contatti commerciali con Roma e sgombra la valle del Tevere per il trasporto delle merci, dall’esistenza di un re veiente, laddove, ormai, tutti gli altri centri etruschi erano divenuti repubbliche, sul modello romano, alla minaccia che, da nord, stava portando all’Etruria l’avanzata dei celti. Ma qualche altro popolo che gli portasse aiuto Veio l’aveva comunque trovato, a cominciare dai falisci, di etnia diversa – stando ad alcune epigrafi, costoro parlavano una variante dialettale del latino, mentre il mito ce li definisce di origine argiva –, che occupavano la riva destra del Tevere tra i monti Cimini e il fiume, con epicentro a Civita Castellana, allora Falerii Veteres.

    Così come i falisci erano penetrati in territorio romano, operando razzie con l’intento di distrarre parte dell’impegno di Roma nei confronti di Veio, Camillo a sua volta entrò nell’ager faliscus, senza però riuscire a costringere il nemico a uno scontro campale risolutivo. Il tribuno impiegò allora le proprie truppe devastando i raccolti dei nemici e incendiandone le fattorie isolate, tentando inoltre qualche attacco alle roccheforti, senza però impegnarsi in alcun genere di assedio. Tre anni più tardi, nel 398 a.C., al suo secondo tribunato, si ebbe una replica delle operazioni, stavolta ai danni dei capenati, situati giusto a sud dei falisci, e ai quali Camillo riuscì a estorcere un ingente bottino, «senza lasciare indenne nulla che potesse essere devastato col ferro e col fuoco»².

    Le operazioni contro falisci e capenati, ancorché non risolutive, dovettero essere brillanti, se da allora i romani iniziarono a pensare a Camillo come al loro leader di punta. Ormai era venuto il suo momento per agire sullo scenario principale. Che si trascinasse da dieci anni o meno, l’assedio di Veio era divenuto una faccenda estenuante, tanto più che a Roma la situazione politica si era fatta caotica, con i plebei che richiedevano a gran voce che la maggior parte dei tribuni fosse dei loro. Mentre sotto le mura di Veio i soldati, tra i quali si era sparsa la voce che etruschi, falisci e capenati avevano riunito le forze e stavano marciando contro di loro per liberare la città, abbandonavano le postazioni, nell’Urbe, nell’impossibilità di tenere i comizi per eleggere i tribuni, si ricorreva a Furio Camillo dapprima come interrex, una sorta di magistrato ad interim, quindi come dittatore, ovvero, come scrive Livio, come «comandante designato dal fato per distruggere Veio e per salvare la patria»³. Era il 396.

    La musica cambiò immediatamente, tra i combattenti. Ormai cinquantenne Camillo, il quale si era scelto come vice, ovvero come magister equitum, Publio Cornelio Scipione, punì tutti coloro che si erano fatti prendere dal panico sotto le mura di Veio, «ottenendo così che non fosse il nemico il motivo principale di paura per i soldati». I cronisti, forse duplicando gli episodi degli anni precedenti, segnalano nuovi scontri con falisci e capenati presso Nepi, prima dell’arrivo di Camillo a Veio, e ciò lascerebbe supporre che le voci che avevano terrorizzato i soldati fossero vere; ad ogni modo, stavolta il dittatore colse delle vittorie piene, e Plutarco accenna anche a una grande battaglia campale. Una volta sotto le mura, egli distolse i soldati dagli sterili tentativi di assalto che avevano caratterizzato l’andamento dell’assedio fino ad allora, e li impegnò in operazioni di fortificazione – potenziando il vallo che cingeva la città ormai da anni –, ma soprattutto, «essendo i dintorni della città cedevoli allo sterro»⁴, nello scavo di una galleria che conducesse alla cittadella. Livio racconta, con una dovizia di particolari che rivela come l’espediente non sia solo una trovata della tradizione per accomunare l’astuzia di Camillo a quella di Ulisse col suo cavallo di legno, come il dittatore abbia istituito varie squadre di scavatori, di sei uomini ciascuna, che si davano il cambio ogni sei ore, lavorando ininterrottamente e «a una profondità tale da non rivelare ai nemici i lavori»⁵. Ancor oggi esiste un tunnel tra Fosso Formello e Fosso Piordo che congiunge l’unico settore pianeggiante, ovvero il solo punto dove poteva trovarsi il campo romano, con la parte di mura della città costruita sopra cunicoli riempiti di terra e pietre.

    Quando arrivò il momento di dare gli ultimi colpi di piccone, Camillo, che la tradizione ci descrive come un uomo in grado di infondere grande sicurezza ai soldati, considerò la conquista cosa fatta, e iniziò a pensare al bottino, che si prevedeva spropositato, rispetto a quelli guadagnati nelle guerre condotte fino ad allora dai romani. Nel precedente scontro con falisci e capenati, ne aveva data la gran parte al questore, ovvero allo Stato, dividendo il rimanente tra i soldati; ma stavolta, la faccenda rischiava di divenire l’ennesimo pretesto per un litigio tra plebe e istituzioni, e Camillo preferì – anche per non rischiare l’impopolarità –, richiedere disposizioni al senato; intanto, il dittatore fece anche voto di consacrare la decima parte del bottino ad Apollo Pitico, il dio presso il cui santuario a Delfi si erano recati poco prima alcuni ambasciatori, per interrogare l’oracolo a proposito della profezia formulata da un indovino veiente catturato nei dintorni della città assediata: Veio non sarebbe caduta fino a quando i romani non avessero incanalato le acque del lago di Albano che, in autunno, all’improvviso e misteriosamente, si era gonfiato fino a straripare oltre le cime dei monti che lo circondano.

    Ma perfino il senato considerò troppo bollente la patata e, dopo aver a lungo discusso sull’opportunità di utilizzare il bottino per pagare lo stipendio ai soldati e diminuire contestualmente i tributi, delegò a sua volta la decisione alla plebe; questa, facendo propria l’opinione della fazione più populista del consesso, deliberò infine che chiunque volesse fare un po’ di preda potesse andare a Veio a prendersi ciò che riusciva ad arraffare. Con un enorme esercito a disposizione Camillo, una volta tratti gli auspici – cerimonia imprescindibile, se si voleva che una battaglia andasse a buon fine –, scatenò una serie di assalti diversivi contro le mura, per distogliere l’attenzione dei difensori dal vero e proprio attacco, che un contingente conduceva attraverso la galleria.

    La leggenda – sono gli stessi cronisti ad alzare le braccia e ad ammettere di non avere a disposizione nulla di meglio delle leggende per narrare la conquista di Veio –, attesta che il tunnel finiva giusto sotto il tempio dedicato alla dea Giunone, nei confronti della quale i sacerdoti etruschi stavano celebrando un sacrificio, affermando che la vittoria nella guerra sarebbe andata a chi avrebbe cavato le viscere alla vittima immolata; i soldati, in attesa sottoterra, nell’udire quelle parole, sarebbero repentinamente balzati fuori e avrebbero portato essi stessi a termine il sacrificio, prima di aprire le porte al resto dell’esercito e assalire da tergo i difensori.

    Si dice che il dittatore, dopo aver posto termine alla strage seguita all’assalto e dato il via al saccheggio, una volta constatato che il bottino era addirittura superiore a quanto preventivato, abbia invocato una minima sventura su di sé, per bilanciare gli eventi e non provocare il risentimento degli dèi: subito dopo, scivolò e cadde, e ciò lo indusse a ritenere che la sua preghiera fosse stata già esaudita, col minimo sforzo; ben altre, invece, erano le sventure che lo attendevano al ritorno in patria. Il popolo, infatti, cominciò subito ad avercela con lui, nonostante che Camillo ottemperasse alla legge sulla divisione indiscriminata del bottino, solo perché non aveva deciso in tal senso egli stesso, e perché aveva venduto all’asta gli uomini liberi, il cui ricavato fu l’unico denaro a finire nelle casse dello Stato.

    Del resto il condottiero ci mise anche del suo, per indisporre la gente. Al suo ritorno in città fu accolto da un tripudio di folla: la gioia per la fine di una guerra che era costata tante sconfitte a Roma, secondo gli accenni delle fonti, e tanti sforzi, era tale che il senato aveva decretato quattro giorni di preghiere pubbliche, più che altro sancendo uno stato di fatto che vedeva i templi già affollati di matrone fin dall’annuncio della vittoria. Quando il dittatore sfilò su un cocchio trainato da quattro cavalli bianchi, paragonandosi così a Giove, che le statue raffiguravano proprio in quel modo, il malumore della plebe, «non avvezza all’insolenza del fasto»⁶, aumentò, e il trionfo fu «più splendido che ben accetto»⁷. In seguito, la prassi di paragonare il protagonista di un trionfo a Giove sarebbe divenuta di uso comune, pur con l’adozione di vari accorgimenti, come i frizzi e i lazzi all’indirizzo del condottiero, e lo schiavo sul cocchio a ricordargli continuamente che era soltanto un uomo. Ma allora, ai più il comportamento di Camillo parve sacrilego: fu anzi una cosa «che fu giudicata poco adeguata non solo per un cittadino, ma anche per qualsiasi altro uomo»⁸.

    La devozione del personaggio è fuori discussione. Tra le altre cose, pare che Camillo avesse deciso di consacrare un tempio a Mater Matuta, ovvero alla dea Aurora, se fosse riuscito a condurre a buon fine l’assedio; e la dea pare averlo protetto in ogni circostanza, visto che Plutarco si preoccupa di tramandare la tradizione secondo cui quasi tutte le sue vittorie sarebbero state ottenute all’alba. Ma, in questo caso, la sua devozione causò problemi non indifferenti. I contrasti con la plebe furono esacerbati, infatti, anche dalla faccenda del voto ad Apollo, che venne presa in considerazione solo dopo che il popolo aveva arraffato tutto il bottino disponibile. Il senato ritenne che un voto a un dio non potesse essere disconosciuto e, nell’impossibilità, ormai, di stabilire in modo univoco il tributo che ciascun cittadino avrebbe dovuto versare, deliberò che il popolo romano per intero fosse sciolto dal voto ma che ogni cittadino calcolasse da sé la decima parte del proprio bottino e la versasse allo Stato, che ne avrebbe ricavato un cratere d’oro. Figuriamoci dunque lo scontento della gente, costretta a restituire parte di quanto si era sentita in diritto di prendere.

    Plutarco, in verità, afferma che Camillo, o perché se ne era dimenticato, o perché non aveva avuto la forza di imporre alla marmaglia impegnata nel saccheggio il rispetto del voto, aveva trascurato di adempiere al suo proposito, e tutto quello che seppe fare per placare i malumori della plebe e per giustificarsi davanti al senato fu di dichiarare, appunto, di essersene semplicemente dimenticato. Ad ogni modo, nacque una serie di indecorose contese, come le chiama Livio, anche perché quanto ricavato dalla coscienza dei singoli cittadini non fu sufficiente per acquistare l’oro necessario a coniare un dono degno di un dio; intervennero le matrone, che aggiunsero i loro gioielli, il che guadagnò loro una serie di diritti fino ad allora ad esse preclusi, che più storicamente bisognerebbe individuare come concessi in circostanze e tempi diverse.

    A distogliere l’attenzione dei romani da questo genere di beghe fu una nuova guerra con i falisci, grazie alla quale i patrizi riuscirono a far eleggere ancora una volta tra i tribuni militari Furio Camillo, ormai visto dal popolo e dai tribuni della plebe come un’icona degli abusi della classe dirigente. Livio racconta che il comandante si avvicinò alla capitale nemica, Falerii Veteres, cercando di indurre i falisci a uno scontro campale, ma questi si limitarono a uscire dalla città e a porre il campo a un miglio da essa, in un luogo accessibile solo mediante stradine strette e impervie, facilmente difendibili. Camillo rispose levando il proprio campo nottetempo e ponendolo in una posizione superiore rispetto a quello degli avversari, che furono indotti a uscire allo scoperto per impedire il rafforzamento delle postazioni romane. I falisci attaccarono le tre squadre impegnate nella costruzione delle fortificazioni, ma i capitolini contrattaccarono a loro volta con il resto dell’esercito, al punto che gli avversari furono costretti a riparare entro le mura della città abbandonando ai romani l’accampamento. Stavolta Camillo, cui l’esperienza precedente aveva insegnato parecchio, non adottò mezze misure e versò l’intero bottino nelle mani dei questori, «con grande rabbia dei soldati, i quali però erano soggiogati dal rigore di quel comando e ammiravano e odiavano ad un tempo la forza di Camillo»⁹. Quindi, predispose le opere di quello che si prospettava come un lungo assedio.

    Sembrava una faccenda complicata, anche questa, e c’era già chi paventava una nuova Veio. Ma ecco che la tradizione ci fornisce la favoletta edificante, che ha il doppio scopo di restituire un po’ di interesse all’ennesimo fatto d’arme e di delineare una figura di eroe nobile e umanitario. Un pedagogo, cui era stata affidata l’istruzione dei ragazzi falisci, soleva fare passeggiate a ridosso delle mura con i suoi discenti e un giorno, eludendo non si sa come la sorveglianza delle guardie, finì per portarli all’accampamento romano, consegnandoli a Furio Camillo come ostaggi mediante i quali ottenere la resa della città. Naturalmente, un condottiero della portata del nostro non poteva concepire di espugnare una roccaforte in questo modo, e rimandò indietro il personaggio a forza di frustate, insieme a tutti i bambini, asserendo che i romani solevano vincere «col valore, con le opere di guerra, con le armi»¹⁰. A questo punto, i falisci furono talmente colpiti dalla nobiltà d’animo di Camillo che si arresero volentieri al tribuno. Quel che storicamente ci interessa sapere è che nel 394 a.C. i falisci, nel corso del terzo tribunato consolare di Furio Camillo, stipularono un trattato di pace coi romani.

    In un’ottica più strettamente legata alla vicenda personale di Camillo, il mancato saccheggio di Falerii indispose ancor più l’animo del popolo nei confronti del generale; ma ci vollero altri tre anni perché il risentimento dei romani sfociasse in qualcosa di tangibile come un processo. Nel 391, dopo aver perso uno dei suoi due figli – le fonti non ci dicono come – e rivestito per breve tempo la carica di interrex, a causa di una malattia che aveva colpito entrambi i consoli, Camillo fu accusato di peculato da un questore, secondo la tradizione più fededegna, riportata da Plinio. Il processo, che avrebbe dovuto tenersi davanti ai comizi centuriati, si tenne invece coram populo e la plebe ne approfittò per cercare di disfarsi del più prestigioso tra gli avversari politici. Ciascuna fonte fornisce un’accusa diversa, e ciò testimonia, perlomeno, che gli piovve addosso di tutto: dall’appropriazione indebita di parte del bottino di Veio, che alcuni dicono ammontasse a 15.000 assi, altri alle porte di bronzo della città caduta, al trionfo sul cocchio trainato dai quattro cavalli bianchi; gli fu perfino attribuita, secondo Appiano, la qualifica di iettatore e la responsabilità di prodigi funesti.

    A Camillo non rimase che radunare la propria vasta clientela, che comprendeva molti plebei, e richiedere testimonianze a favore nel corso del giudizio, ma non ottenne altro che la disponibilità a pagare l’eventuale ammenda che ne sarebbe scaturita. Il condottiero ne prese atto e, disgustato e deluso, prese di propria iniziativa la via dell’esilio. Più di una fonte non resiste alla tentazione di paragonare la vicenda a quella di Achille durante la guerra di Troia. Valga per tutti l’esempio di Plutarco:

    Abbracciati la moglie e il figlio, uscì di casa e procedette in silenzio fino alla porta della città; là si fermò, si volse indietro e alzando le mani verso il Campidoglio pregò gli dèi che se egli andava in esilio non giustamente, ma perché infangato dalla tracotanza e dall’invidia del popolo, presto i romani se ne pentissero e diventasse manifesto a tutti che avevano bisogno di Camillo e lo rimpiangevano¹¹.

    Si prese, in contumacia, una multa equivalente alla somma che si supponeva avesse sottratto, che i suoi clienti provvidero a pagare, e poi assistette impotente e forse gongolante, dalla sua nuova sede di Ardea, alleata dell’Urbe, alla catastrofe che si abbatté su Roma in sua assenza.

    L’invasione gallica

    Già da tempo, forse da un paio di secoli, i celti erano calati nella pianura padana, esercitando una continua pressione sull’Etruria; varie tribù continuavano ad affluire in Italia e forse quella dei sènoni, stanziata nell’area compresa tra Ravenna e Senigallia, era venuta in contrasto con la città di Chiusi che, forse a causa di un’alleanza precedentemente stipulata con i capitolini, richiese aiuto a Roma. A Chiusi giunsero degli ambasciatori, incaricati dal senato di dirimere la controversia, ma uno di essi si lasciò prendere dalla foga e finì per combattere a fianco dei chiusini contro i galli. Questi ultimi, per bocca del loro capo Brenno, chiesero soddisfazione a Roma, limitandosi a richiedere la consegna del responsabile, ma il senato, per tutta risposta, elesse quest’ultimo tribuno consolare. A questo punto, l’obiettivo dei celti divenne la stessa Roma, il cui esercito affrontarono a sole undici miglia dalla città, presso un affluente di sinistra del Tevere, l’Allia, l’odierno Fosso della Bettina.

    Le fonti parlano di 40.000 uomini schierati dai romani, contro un’orda che, forse, poteva ascendere a 70.000 guerrieri. La battaglia si tramutò in una disfatta per i capitolini non appena i due eserciti vennero a contatto, e le legioni si dissolsero in una vergognosa fuga, a Roma o a Veio, che sarebbe stata ricordata nel calendario romano con la definizione di dies alliensis, o nefastus, a contrassegnare quel 18 luglio del 390 a.C. che pesò come un macigno sulla dignità dei romani per secoli. I celti ebbero così tutto l’agio di raggiungere la città indifesa, dove entrarono solo tre giorni dopo, mettendola a ferro e fuoco per sette mesi, fino al febbraio successivo, mentre i difensori residui, capitanati da Marco Manlio, poi detto Capitolino, rimanevano tenacemente asserragliati nella cittadella costituita dalla rocca del Campidoglio, resistendo a tutti i tentativi nemici di espugnarla.

    Alla lunga, l’assedio iniziò a provare anche i galli, che dovettero sparpagliare le proprie truppe lungo un raggio sempre più vasto per trovare cibo e foraggio. Alcune bande finirono proprio nei pressi di Ardea, dando a Camillo l’opportunità per intervenire, sembra per la prima volta, nella vita pubblica della città che lo ospitava, ed esortare i cittadini a cogliere una facile vittoria e a fare un favore agli alleati romani. Queste alcune delle sue argomentazioni:

    Del resto, soltanto facendo la guerra io mi posso rendere utile! Con quest’arte, finché c’era guerra, io ho mantenuto intatto in patria il mio prestigio di uomo invincibile ma quando è arrivata la pace sono stato cacciato dall’ingratitudine dei miei concittadini.

    E ancora:

    Già tediati dalla lunghezza dell’assedio si allontanano e si disperdono a vagare per le campagne. Pieni del cibo e del vino che trangugiano con ingordigia, quando arriva la notte si sdraiano qua e là come bestie, presso qualche ruscello senza darsi pensiero di difese, di posti di guardia, di sentinelle. E ora che ogni cosa va loro bene, sono anche più incauti del solito. Se voi siete dell’avviso di difendere le vostre mura e se non volete che tutta questa regione diventi Gallia, al calare della notte prendete le armi e seguitemi numerosi perché io vi condurrò ad una agevole strage, non ad uno scontro. Se non ve li consegnerò vinti dal sonno, come greggi da macellare, accetterò che gli ardeati mi trattino come già mi hanno trattato i romani¹².

    Fu facile vittoria, come promesso. L’episodio rinverdì la offuscata fama di condottiero di Furio Camillo, e si venne a sapere anche a Veio, dove continuavano ad affluire i romani sbandati dopo la sconfitta dell’Allia, nonché gli alleati latini minacciati dai galli, ricostituendo una parvenza di esercito. «Ma a quel forte esercito mancava ancora un capo. A dire che quell’uomo doveva essere Camillo era lo stesso luogo e tra i soldati ve n’erano molti che avevano partecipato sotto la sua guida e i suoi auspici ai successi militari di quel comandante», afferma Livio¹³. Il nome di Furio Camillo era sulla bocca di tutti, e nessuno ebbe dubbi che dovesse essere lui l’uomo della riscossa. Ma quando alcuni inviati gli andarono a chiedere di assumere il comando dell’esercito, lui, un po’ per il rispetto della legalità, un po’, forse, per una sorta di puntiglio dettato dalla voglia di rivalsa nei confronti dei propri concittadini, pretese la ratifica del senato, apparentemente irraggiungibile sul Campidoglio. Un tale Ponzio Cominio «per nascita uno del ceto medio, però bramoso di gloria e di onore»¹⁴, si offrì allora volontario per passare attraverso lo schieramento dei celti e raggiungere la rocca capitolina.

    L’impresa riuscì, ed è superfluo attardarsi nei particolari, che appartengono alla leggenda – come forse l’impresa stessa – e il senato nominò senz’altro dittatore, per la seconda volta, il conquistatore di Veio, decisione immediatamente ratificata dai comizi centuriati. Questi raggiunse l’ex avamposto etrusco e trovò 20.000 uomini in armi tra i soli romani, mentre molti di più, secondo Plutarco, erano gli alleati latini di cui poteva disporre. Frattanto, però, a Roma, mentre Camillo dava disposizioni al proprio magister equitum Lucio Valerio di addestrare i suoi uomini, sia gli assedianti che gli assediati erano allo stremo; i barbari erano vessati dalla pestilenza, incentivata dalla loro riluttanza a seppellire i morti, e si giunse a un accordo, grazie al quale i celti sgombravano il campo dietro pagamento di mille libbre d’oro.

    Gli antichi raccontano, senza crederci molto, che Brenno avrebbe barato sul peso, ponendo sul piatto della bilancia la propria spada e rispondendo alle proteste dei romani col noto «Guai ai vinti!»; gli avrebbe fatto eco proprio Furio Camillo, sopraggiunto in quel momento nella città, il quale avrebbe precisato che la patria si riscattava col ferro, e non con l’oro. Ne derivò dapprima un alterco di carattere giuridico, con Brenno che si faceva forte dei patti già stipulati con il senato, e il dittatore che gli faceva notare come questi fossero stati conclusi in assenza della massima autorità, ovvero egli stesso, e non fossero quindi validi. Si pervenne al combattimento, che continuò fino a notte, quando i galli levarono il campo, inseguiti il mattino dopo dal generale romano. Sulla strada verso Gabii, a otto miglia da Roma, Camillo inflisse loro una franca sconfitta, anche se si ha notizia di un’altra battaglia infausta per i celti, battuti pure dagli abitanti di Caere (l’odierna Cerveteri).

    Ora, le fonti più antiche non menzionano Camillo a proposito dell’invasione gallica, ed è quindi chiaro che quelle più esaustive, ovvero Livio e Plutarco, si valgono di tradizioni più tarde, in cui, forse, è sorta e si è formata la leggenda del condottiero. Di certo, il tempismo che la tradizione ascrive all’intervento di Camillo è chiaramente un modo per rivendicare la dignità perduta fin dalla disfatta dell’Allia; ma gli storici sono propensi ad accettare una vittoria del dittatore da qualche parte nel Lazio – se non addirittura nelle Marche –, anche se non necessariamente così vicino a Roma e di portata tanto deci­siva da far dire al cronista che i galli furono sterminati fino all’ultimo uomo. D’altro canto, il generale si permise il lusso di celebrare un altro trionfo e, secondo le fonti, non gli fu neanche permesso di deporre la dittatura – che era, lo si ricordi, di durata semestrale –, perché a lui l’Urbe si affidò per gestire il delicato momento della ricostruzione e della crisi che la precedette.

    La città, infatti, era talmente devastata che i tribuni della plebe esortarono la folla a trasferirsi a Veio, «in cui tutto era pronto ad accoglierli»¹⁵ mentre Roma, secondo Plutarco, «era interamente rasa al suolo»¹⁶ e nessuno aveva voglia, dopo averne passate tante a causa dei galli, di lavorare senza sosta per ricostruire. Innanzitutto Camillo diede per l’ennesima volta una prova della sua devozione, sacrificando agli dèi e affiancando i pontefici nella ricognizione per le aree dei templi e dei santuari che il senato, accettando una sua proposta, decretò di ricostruire e purificare dall’occupazione nemica. Il dittatore indisse poi la celebrazione dei giochi capitolini, come ringraziamento a Giove Ottimo Massimo per aver difeso la sua rocca, e fece innalzare un tempio lungo la Via Nuova, in onore della divinità che, mediante la voce di un plebeo, aveva annunciato il disastro. Infine, propose un patto di pubblica ospitalità con gli abitanti di Cerveteri, che avevano conservato gli oggetti sacri durante l’invasione.

    Livio, poi, si produce in un lungo discorso che Camillo avrebbe tenuto di fronte ai romani, per dissuaderli dall’emigrare a Veio; le pagine, tra le più belle e intense della titanica opera dello storico, testimoniano più l’abilità di narratore dello stesso Livio che la personalità di Furio Camillo sul quale, come per ogni figura semi-leggendaria, è assai difficile emettere una valutazione caratteriale. Lo zelo religioso del condottiero si profonde nell’intera prima parte del discorso, laddove egli elenca tutti i riti strettamente connessi a Roma, e dai quali non si può prescindere se si vuole che la città continui ad avere la fortuna che l’ha portata ad essere la potenza che è. Quindi, l’oratore evidenzia la perdita di identità che i romani subirebbero allontanandosi dalla loro sede naturale, e la mancanza di dignità che manifesterebbero nell’abbandonare una città appena messa a ferro e fuoco, sancendo così la vittoria del nemico e rendendo inutile la strenua difesa sul Campidoglio. Infine, cerca di evidenziare i pregi del sito che, allora, i romani occupavano da 365 anni:

    Non erano sprovveduti gli dèi e gli uomini che hanno scelto questo luogo per fondare la città: colli saluberrimi, un fiume utilissimo per trasportare le messi dai territori interni e ricevere le provvigioni dai luoghi di mare, il mare con tutti i vantaggi della vicinanza ma non così prossimo da esporci alle incursioni delle flotte straniere, la posizione mediana rispetto all’Italia, la conformazione del luogo che può ospitare ogni incremento della città¹⁷.

    Funzionò. Proprio al termine del discorso, un reparto di soldati tornava dal servizio di presidio e, fermatosi davanti alla curia, dove il senato stava discutendo a proposito del discorso di Camillo, il centurione disse casualmente al signifero di piantare proprio lì l’insegna, perché gli pareva il posto giusto per loro. Il senato lo prese per un presagio e, seguito dalla plebe, sposò le tesi del dittatore, e la ricostruzione cominciò. Nell’arco di un anno Roma era di nuovo risorta, anche se le fonti specificano che non vi fu alcun piano regolatore, e ognuno costruì dove trovava spazio.

    Si conclude così la prima fase conosciuta della vita di Marco Furio Camillo, che racchiude i due episodi che lo hanno consegnato ai posteri. Il condottiero sarebbe sopravvissuto per un altro quarto di secolo, compiendo una lunga serie di imprese militari, di cui ci riesce difficile accettare che sia stato sempre lui l’artefice; si è piuttosto portati a pensare che la tradizione gli abbia assegnato molte delle vittorie ottenute da altri comandanti romani in quei decenni immediatamente seguenti il momento più cupo dell’età repubblicana. Nonostante fosse ormai un vegliardo, infatti, Furio Camillo è il protagonista indiscusso delle guerre contro pressoché tutti i nemici con cui Roma si trovò a combattere in quel torno di tempo, e il lungo elenco dei conflitti in cui si trovò impegnato fino alle soglie degli ottanta anni è francamente un po’ noioso e monocorde; ma non va trascurato, per dovere di completezza della sua biografia. D’altronde, l’invasione gallica aveva in parte sconvolto l’assetto politico-territoriale che Roma era andata costituendo nell’ultimo secolo, provocando una serie di rivolte e attacchi che la costrinsero a operare attivamente per ristabilire l’egemonia, a nord, sull’Etruria meridionale, a est, su equi ed ernici, a sud sui volsci, e a far rientrare nel patto di alleanza i latini del Lazio che ne avevano approfittato per emanciparsi dai vincoli con l’Urbe.

    Un generale con il dono dell’ubiquità

    Non vi fu soluzione di continuità per gli impegni di Camillo, che già nel 389 lo videro dapprima interrex, quindi di nuovo dittatore, di fronte a una nuova situazione di estremo pericolo in cui versava Roma. I capitolini, infatti, non avevano dato una gran prova di sé, nell’ultimo anno, e ciò aveva indotto i nemici di sempre, volsci ed etruschi, ad approfittare del momento di riflusso che stava vivendo la potenza di Roma per muoverle per l’ennesima volta guerra; quel che rese ancor più drammatico il momento fu la defezione e la volontà di rivalsa degli alleati, i latini e gli ernici – questi ultimi popolazione di stirpe osco-sannitica, stanziata lungo la valle del Sacco –, anch’essi incoraggiati dall’apparente debolezza di Roma, e ansiosi di vendicare la sconfitta del lago Regillo, che li aveva indotti a far parte della confederazione di cui l’Urbe era a capo.

    La situazione era tale che Camillo pensò bene di sospendere gli affari e l’attività giudiziaria, tenendo una leva dei giovani ma vincolando a sé mediante giuramento anche coloro che avevano superato l’età per essere arruolati, per poi ripartirli in centurie e costituire tre eserciti: un’armata fu posizionata nel territorio di Veio per fronteggiare gli etruschi, un’altra a presidio della città capitolina, mentre l’ultima, al cui comando si pose lo stesso Camillo, si mise in marcia contro i volsci. Lo scontro avvenne in una località vicino Lanuvio, dove i nemici di sempre avevano allestito un campo, il cui terrapieno di cinta avevano rinforzato con una palizzata. Stavolta il condottiero non era disposto all’assedio, poiché si sapeva che un’armata etrusca di soccorso stava sopraggiungendo e, non appena ebbe un po’ di vento a favore, ordinò due attacchi contestuali contro la barriera nemica, uno dei quali introdotto da una scarica di dardi incendiari, che sbriciolarono in un istante la palizzata e permisero ai romani di entrare nel campo. Chi non morì tra le fiamme, tra i volsci, fu massacrato dai capitolini, cui Camillo concesse perfino il saccheggio, «iniziativa tanto più gradita quanto minore era la speranza in questo senso a causa dell’avarizia di Camillo»¹⁸.

    Subito dopo, instancabile nonostante l’età, quasi che possedesse anche il dono dell’ubiquità, il comandante si trovava anche nell’alta valle del Sacco, nei pressi di Zagarolo, dove infliggeva una sconfitta altrettanto pesante agli altri nemici classici, gli equi, popolo di stirpe umbro-sabella stanziato sui Monti Simbruini. E non era finita; la città etrusca di Sutri, sulla Cassia, alleata di Roma, era accerchiata dagli etruschi sul piede di guerra, e richiese l’aiuto dell’Urbe. A chi si rivolse il senato per comporre la faccenda? Al tribuno militare Lucio Emilio, cui era stato affidato l’esercito stanziato nel territorio di Veio? Nossignore. Toccò ancora una volta al dittatore, precipitarsi dall’alta valle del Sacco fino alla zona a ridosso della Selva Cimina; sulla strada, incrociò proprio gli abitanti di Sutri, che avevano ceduto all’assedio e avevano consegnato la città al nemico. Camillo decise che era proprio quello il momento giusto per attaccare, approfittando della rilassatezza e della carenza di sorveglianza che subentravano in un esercito subito dopo il coronamento di un assedio. La riconquista fu un gioco da ragazzi, in effetti; non ci fu quasi bisogno di combattere per impossessarsi delle mura, prive di sentinelle. Gli etruschi,

    quando s’accorsero di essere stati sopraffatti dal nemico, si trovavano in uno stato di tale sfinitezza per l’eccesso del cibo e delle bevande, che molti non tentarono nemmeno la fuga ma aspettarono nelle case la più ignominiosa delle morti o si consegnarono spontaneamente ai nemici. Così la città di Sutri nel volgere di una sola giornata fu presa due volte, persa da chi l’aveva conquistata e recuperata da chi ne era stato spodestato, grazie a Camillo¹⁹.

    A Roma lo aspettava il suo terzo trionfo, tanto più imponente in quanto, stavolta, si celebrava la sua triplice vittoria. «Anche quanti tra i cittadini – afferma Plutarco – per cieca invidia cercavano di attribuire tutti i suoi successi più alla fortuna che al valore, ora furono costretti da quelle gesta a rendere il merito della sua gloria all’abilità e all’energia del generale»²⁰. Davanti al suo cocchio sfilarono così tanti prigionieri, soprattutto etruschi, che il ricavato della loro vendita all’asta fu sufficiente a restituire alle matrone il denaro per l’oro che avevano offerto quando Roma aveva pagato il riscatto ai galli, e anzi ve ne fu d’avanzo per farne tre patere d’oro con inciso il nome del condottiero, a quanto pare poi distrutte nel rogo che avvolse il Campidoglio nell’83 a.C.

    Tre anni dopo, nel 386 a.C., Furio Camillo era di nuovo tribuno militare con potestà consolare. Ma quando pervenne la notizia che gli etruschi erano di nuovo in armi, i suoi cinque colleghi riconobbero volentieri la sua superiore autorità. Afferma Livio:

    Ormai non c’era più guerra a Roma che venisse presa alla leggera e il senato rese grazie agli dèi che Camillo fosse in quel momento tribuno militare (se fosse stato un privato cittadino lo si sarebbe dovuto nominare dittatore). E del resto anche i suoi colleghi riconoscevano che quando si avvicinava la minaccia della guerra era meglio che tutto il potere risiedesse in una sola persona ed essi erano ben decisi a considerare il loro potere inferiore a quello di Camillo; questo non significava alcuna diminuzione della loro autorità perché era davanti all’autorità di un simile uomo che si dichiaravano inferiori²¹.

    Come tre anni prima, altri popoli approfittarono delle difficoltà in cui si dibatteva Roma per scendere in campo; l’iniziativa era partita dal centro volsco di Anzio che aveva arruolato anche cospicui contingenti di latini ed ernici. Ed erano così tanti che quando Camillo, dopo aver assegnato ai tribuni i vari compiti istituzionali e le rispettive zone delle operazioni militari, come avrebbe fatto un dittatore – quale del resto era considerato – si trovò di fronte all’esercito nemico nei pressi di Satrico, tra Anzio e Velletri, i suoi uomini manifestarono una certa riluttanza ad affrontare quella moltitudine di avversari. Fu solo grazie alle sue esortazioni e alla sua presenza in prima linea, o laddove un settore dava segni di cedimento, che la grande battaglia che si combatté si risolse a favore dei romani, prima che un violento temporale permettesse ai volsci di riparare entro le mura di Satrico e ai latini e agli ernici di tornarsene nelle proprie sedi con la coda tra le gambe. Predispostosi all’assedio della cittadina, poi, Camillo notò che il nemico dimostrava uno scoramento tale da non provare neanche a disturbare le opere ossidionali, e decise così di lanciare subito un assalto, che si risolse nella conquista repentina del centro volsco.

    Il suo obiettivo successivo era proprio Anzio, per poter infliggere un colpo definitivo alle velleità dei volsci, ma una volta a Roma per procurarsi le macchine belliche necessarie, arrivò la notizia che Sutri e Nepi era state assalite dagli etruschi, e si ritenne più opportuno dare precedenza a quel settore. Camillo vi si precipitò direttamente con le legioni che aveva lasciato a guardia dell’Urbe; la conquista di Sutri fu relativamente facile, perché gli abitanti avevano conservato il controllo di parte della città, e ciò gli permise di giungere entro le mura e prendere alle spalle il nemico, impegnato contestualmente da un attacco del suo collega – che si considerava suo magister equitum – Publio Valerio; Nepi, poi, cadde al primo assalto. Il suo quarto tribunato militare si concludeva dunque con una grande vittoria campale – non poi così grande se i volsci tornarono a muovere guerra a Roma l’anno seguente – e la riconquista di due città.

    I suoi successi, tuttavia, lo resero oggetto di invidia da parte dell’altro personaggio eminente della Roma di allora, Marco Manlio Capitolino; questi, oltre a sobillare la plebe da perfetto demagogo e a essere tacciato di tirannide, sminuiva i meriti militari di Furio Camillo e contestava la sua dittatura de facto, ritenendosi non meno degno di godere dei favori della città, lui che era stato l’artefice della resistenza di Roma durante l’invasione gallica. Nel 384, per bilanciare la sua influenza presso il popolo, la cui causa Manlio aveva sposato sostenendo una legge sulla cancellazione dei debiti, i patrizi fece in modo che Furio Camillo conseguisse il suo quinto tribunato militare. Si racconta che i giurati incaricati di emettere un verdetto nei confronti di Manlio durante il processo non riuscissero raggiungere alcun risultato, poiché il difensore del Campidoglio se la cavava sempre mostrando loro il luogo dove aveva strenuamente sostenuto l’onore di Roma; allora il vecchio condottiero avrebbe suggerito di spostare il processo altrove: «e là, dove il Campidoglio non era visibile, l’accusatore svolse la sua requisitoria e i giurati, svanito il ricordo delle gesta passate, si accesero di giusta collera per i crimini presenti»²²; progressivamente abbandonato dai suoi fautori, Manlio fu così condannato e precipitato dalla rupe Tarpea.

    Il sesto e ultimo tribunato militare Camillo lo ottenne nel 381 a.C., nonostante gli acciacchi dell’età che lo indussero, in un primo momento, a rifiutare la carica; ma il popolo rispose che non ci si attendeva da lui, ormai sessantaseienne, che prendesse parte ai combattimenti «né a cavallo né a piedi, bensì di impartire solo consigli e ordini»²³. Infine, poiché «non si occupava più molto degli affari civili, ma quelli militari lo coinvolgevano sempre»²⁴, accettò di condurre l’esercito, insieme al giovane e irruente collega Lucio Furio, alla volta di Satrico, che volsci e prenestini avevano appena sottratto a Roma.

    Il numero di effettivi era a favore dei nemici, che

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