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Assassinio a Pedra Manna
Assassinio a Pedra Manna
Assassinio a Pedra Manna
E-book362 pagine5 ore

Assassinio a Pedra Manna

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Info su questo ebook

Le indagini del tenente Roversi

Sassari, 1962. Mentre sta svolgendo i lavori di riparazione dell’impianto fognario di Villa Flora, un manovale rinviene un antico reperto di epoca nuragica. Due giorni dopo, l’uomo scompare senza lasciare traccia e l’archeologo a cui intendeva vendere l’oggetto viene trovato morto a Pedra Manna, poco lontano da Sassari, in una domu de janas, una tomba preistorica. Le indagini, condotte dal tenente Roversi, sembrano confermare la colpevolezza del manovale, ma quando anche quest’ultimo viene ucciso, l’impasse sembra insuperabile. Qual è il movente dietro ai due omicidi? Sarà un particolare legato al misterioso reperto a fornire a Roversi un nuovo, imprevedibile indizio per far luce sui delitti. Ma a questo punto il tenente dovrà confrontarsi con un assassino determinato e pronto a tutto.

Un antico manufatto
Una serie di omicidi
Un’indagine insidiosa per il tenente Roversi

Hanno scritto dei suoi libri:

«Un giallo classico con inserti in dialetto e squarci vintage.»
Tu Style

«Il tenente Giorgio Roversi, bolognese laureato in Fisica, fanatico della scorza di cioccolato e di Tex Willer, è stato sbattuto in Sardegna per motivi disciplinari e si trova subito alle prese con un cadavere. La prima incursione nel poliziesco di Gavino Zucca.»
Corriere della Sera

«Una buona dose di ironia e fatti realmente accaduti che forniscono lo spunto per costruire un perfetto giallo.»
La Nuova Sardegna
Gavino Zucca
È laureato in Fisica e in Filosofia ed è specializzato in Progettazione di Sistemi informatici. È nato e vive a Sassari, ma ha trascorso oltre trent’anni a Bologna dove ha lavorato all’ENI come project manager, prima di dedicarsi all’insegnamento della Fisica nella scuola superiore. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti partecipando a premi letterari in tutta Italia. La Newton Compton ha pubblicato Il mistero di Abbacuada, Il giallo di Montelepre, Il delitto di Saccargia, Il misterioso caso di Villa Grada e Assassinio a Pedra Manna, dedicati alle indagini del tenente Giorgio Roversi.
LinguaItaliano
Data di uscita14 giu 2021
ISBN9788822756930
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    Anteprima del libro

    Assassinio a Pedra Manna - Gavino Zucca

    1

    Preludio: causa ed effetti

    Giovedì 22 marzo 1962, ore 17:15

    Villa Flora, Sassari

    Michele Agus trattenne il respiro e premette il grilletto. Il secco rumore della fucilata echeggiò in tutta la vallata, mentre una pioggia di foglie ridotte a brandelli iniziava a cadere sulla testa dei due uomini in piedi sotto il leccio. Nel bosco di fronte, uno stormo di colombacci si levò in volo con un frullare di ali e disegnò un ampio cerchio prima di sparire verso il pianoro, in direzione dell’ippodromo.

    «No, Michele. Devi sparare un po’ più in basso». Luigi Gualandi indicò un punto tra le fronde del grande albero. «Guarda, proprio vicino a quel nodo. Lo vedi?»

    «Sì, don Luigi», annuì il factotum di Villa Flora. «A dire il vero, è lì che avevo mirato prima, ma lo sa anche lei che non sono mai stato un grande tiratore».

    «Se non avessi questo dolore alla spalla, proverei io… Comunque, sono sicuro che ci puoi riuscire. Fa’ ancora un tentativo. Con calma, come ti ho spiegato… Sta’ solo attento a non colpirmi la grondaia».

    Michele sollevò nuovamente l’arma, poggiò bene il calcio contro la spalla, puntò la canna e cercò di controllare il respiro, mentre visualizzava nella mente la rosa dei pallini che si dirigeva compatta sul bersaglio. Quindi, con uno scatto deciso, trasse a sé il grilletto. Stavolta il grosso ramo, centrato in pieno, si schiantò di netto e cadde rumorosamente al suolo. Gualandi non fece neanche in tempo a congratularsi col factotum che la porta dell’abitazione si aprì di botto. Caterina, la governante di Villa Flora, fece due passi nel piazzale e si guardò intorno per scoprire l’origine di quelle detonazioni. Quando vide il fratello con il fucile in mano, l’espressione sul suo volto si fece più severa.

    «Michele! Ma… cosa stai facendo con quel…». Solo allora si accorse di Gualandi. «Ah don Luigi, c’è anche lei. Mi scusi, non l’avevo vista. È che non capivamo cosa stava succedendo. Donna Brunilde e le sue amiche erano un po’ preoccupate».

    «Tutto a posto, Caterina», la tranquillizzò Gualandi. «Stavamo semplicemente potando il leccio».

    «Potando il leccio?», ripeté la giovane. Indicò il fucile. «Con quello?»

    «Perché no?», intervenne Michele.

    «Ma non potevi usare una scala?»

    «Secondo te, quel ramo avrebbe retto il mio peso?».

    Caterina guardò verso l’alto, quindi scosse il capo.

    «No, forse hai ragione. Ma… È per i topi che salgono sul tetto?»

    «Sì», intervenne Gualandi. «È da lì che passavano. Michele li ha visti poco fa. Comunque, puoi tornare da Brunilde e dirle che abbiamo finito. Lei e le sue amiche possono continuare a bere il loro tè in pace».

    Quando la governante si fu allontanata, il factotum si lasciò sfuggire un sorriso.

    «Don Luigi, visto che ci siamo, non è che vuole potare qualche altro ramo?»

    «Michele, conosco quell’espressione! Ti vuoi divertire ancora un po’ con le amiche di Brunilde, vero? Ma, spiegami una cosa… perché ti stanno così antipatiche?»

    «Be’, con tutto il rispetto… Ha visto come mi guardano? Ammetterà anche lei che hanno un po’… com’è che si dice… la puzza sotto il naso». Il factotum annusò l’aria. «E, a proposito di puzza… La sente anche lei?».

    Gualandi inspirò a sua volta profondamente e annuì.

    «Sì, c’è come un odore di…». Guardò verso le stalle, quindi inumidì un dito per individuare la direzione del vento. «No, non viene da lì». Abbassò gli occhi sugli stivali di gomma di Michele.

    «Non guardi me», protestò il factotum. «Questi sono quelli puliti che uso quando vengo a lavorare qui alla villa».

    «Eppure…». Gualandi annusò ancora un paio di volte. «Sembra arrivare da là», concluse, indicando dalla parte del canile.

    I due uomini si avviarono seguendo la scia nauseabonda, sempre più forte e penetrante. Poco prima del canile, svoltarono a destra nel sentiero che costeggiava il recinto e si fermarono davanti a un rivolo d’acqua che sgorgava dal terreno, per allargarsi poi in una piccola pozza. Michele si inchinò per fiutare più da vicino, ma si risollevò subito con un’espressione di disgusto sul volto.

    «Viene proprio da qui», sentenziò.

    Gualandi storse la bocca e fece cenno col capo verso un chiusino di pietra di forma rettangolare, a un paio di metri da loro.

    «Spero di sbagliare ma… pensi che c’entri qualcosa il pozzo nero?»

    «Mi dispiace dirglielo, don Luigi, ma credo proprio di sì. Secondo me, c’è una perdita». Quindi indicò un grande pino, poco più avanti. Col dito, seguì le ondulazioni sul terreno che tradivano lo sviluppo orizzontale delle radici. Una di queste si dirigeva proprio verso il chiusino. «Le ho sempre detto che avremmo dovuto tagliarlo, quel pino».

    «Sì, lo so, ma Brunilde non ne ha mai voluto sapere. Secondo te cosa può essere successo?»

    «Scommetto che le radici si sono fatte strada e hanno scavato nella parete del pozzo nero fino ad aprire una fenditura».

    «Pensi che sia grave?»

    «Non so, dipende da quanto è grande…».

    Michele non aveva ancora finito di parlare che i due uomini sentirono la terra vibrare sotto i piedi. Subito dopo, con un rumore sordo, una parte del terreno sprofondò vicino al chiusino, lasciando una voragine larga un paio di metri e profonda forse altrettanto. Appena pochi secondi, e dalla villa risuonò uno strillo acuto, seguito da una serie di esclamazioni che neanche le spesse mura dell’abitazione riuscirono a soffocare del tutto.

    «Ohi, Madonna Santissima! E it’est custa cosa? Caterina, corri a vedere. Mamma mia, che disastro!».

    Gualandi e il factotum si fissarono per un istante. Le urla sembravano provenire dal bagnetto di servizio al pianterreno, la cui finestra era proprio di fronte a loro. Dietro il vetro, Rimedia, la giovane domestica, nipote di Caterina e Michele, agitava le braccia portandosi ripetutamente le mani fra i capelli. Con la crescente consapevolezza che qualcosa di molto spiacevole stava per colpire il piccolo mondo di Villa Flora, don Luigi si diresse a passo svelto verso l’ingresso posteriore, seguito a ruota da Michele. Appena superata la soglia, fu costretto per un istante a ritrarsi. Le esalazioni che provenivano dal bagno avevano già invaso l’abitazione. La prima sensazione era che qualcuno avesse cotto una quantità di cavolfiori sufficiente per sfamare un intero esercito e, allo stesso tempo, avesse spalancato le porte dell’inferno. Subito dopo, però, arrivava un’altra mescolanza di odori che non lasciava adito a dubbi sulla vera natura di quegli effluvi.

    Facendosi forza, Gualandi prese dalla tasca un fazzoletto, lo mise davanti al naso e si diresse verso il bagno, attraversando il piccolo corridoio che lo collegava al resto della casa. Caterina, già sul posto, aveva aperto la finestra per aerare il locale e ora osservava costernata la scena. Gualandi si fermò a sua volta sull’uscio per constatare l’entità del disastro: il gabinetto sembrava il centro di una specie di eruzione vulcanica che aveva investito le piastrelle, i sanitari e persino il soffitto con un getto di acqua torbida, che si era poi depositata sul pavimento in una larga pozza maleodorante. In fondo al corridoio comparve anche Brunilde, seguita da un corteo di signore i cui volti avevano assunto una gamma di espressioni che andava dallo spavento all’indignazione, passando per il disgusto e l’incredulità. Michele si fece da parte per lasciar passare la padrona di casa, che si fermò accanto al marito.

    «Mein Gott!», esclamò. «Cos’è successo?»

    «Temo che sia colpa del pozzo nero», rispose Gualandi. «Poco fa, mentre ero lì vicino, ne è crollata una parte».

    «E… ha fatto tutto questo?», chiese ancora Brunilde.

    «Penso proprio di sì. Sono convinto che il tenente Roversi, da bravo fisico, saprebbe spiegarlo molto meglio, ma immagino che l’implosione del pozzo abbia ostruito il tubo del troppo pieno e compresso i gas e i liquidi all’interno, spingendoli con violenza verso l’unica uscita rimasta, quella che di norma avrebbe dovuto invece essere l’ingresso».

    «E cioè, il tubo che va verso il gabinetto», intervenne Caterina.

    «Già. È come… il tubetto del dentifricio. Anzi, no, forse è più come un otre di pelle. Se lo riempiamo d’acqua e poi lo schiacciamo con forza, il liquido esce con violenza dall’unico punto in cui può farlo. Più veloci lo schiacciamo, e più è potente il getto. Nel nostro caso, immagino che siano arrivati prima i gas e poi…», con la mano fece un ampio gesto verso le pareti del bagno, «…e poi l’acqua che stagnava in superficie». Si lasciò sfuggire un sorriso amaro. «E direi che, alla fine, non ci è andata neanche tanto male».

    Brunilde osservò accigliata il marito e aprì la bocca come per aggiungere qualcosa. A volte, faceva davvero fatica a sopportare quella fastidiosa tendenza del consorte a vedere sempre gli aspetti positivi di ogni situazione, anche la più critica, sebbene dovesse riconoscere che questo atteggiamento l’aveva aiutato in più di un’occasione. Così si trattenne e domandò soltanto: «Ma quindi… questo significa che siamo senza bagno?»

    «E non solo. Finché non rimettiamo tutto a posto, non possiamo più usare neanche l’acqua per lavarci o per cucinare».

    «E allora… come facciamo?»

    «Mi sa che non ci sono alternative». Gualandi si guardò intorno, sentendosi come il capitano di una nave in procinto di affondare. «In attesa di far fare un nuovo impianto, dovete andare tutti da qualche altra parte. Caterina, tu e Rimedia potete stare da Michele. Tu, Brunilde, potresti invece approfittare dell’occasione e andare finalmente a trovare la tua amica Elke ad Albenga. Quanto ad Anna, sono sicuro che qualcuna delle sue compagne di scuola sarà disposta a ospitarla per tutto il tempo che si renderà necessario».

    «E lei, don Luigi?», domandò Caterina.

    «Io resterò qui, per seguire i lavori. In qualche modo mi arrangerò. Non sarà peggio di quando stavo sul fronte russo». Gualandi si rivolse a Michele. «Va’ a sentire mastro Vittorio e vedi se è disponibile a venire al più presto, anche domani se possibile, per fare un nuovo pozzo nero. A quest’ora dovrebbe essere tornato a casa».

    «E se non è lì, lo cerco dal vindioru di via delle Muraglie. Non si scappa… Però so che in questi giorni è occupato con un altro lavoro. Mi hanno detto che sta facendo degli scavi dalle parti di Osilo per conto della Soprintendenza».

    «Uno come lui è sempre impegnato… Qui però non possiamo aspettare. Ricordagli che mi deve un grosso favore e che questo è il momento di ricambiarlo. Basta che ci mandi un paio di manovali e che venga ogni tanto a controllare come procedono i lavori. Sono convinto che non farà troppe storie. Però, per essere proprio sicuri, prendi un paio di bottiglie del Cannonau di San Giovanni. Quello del ’59, mi raccomando. È il migliore».

    «E di certo lo sa anche mastro Vittorio», concluse Michele sorridendo. «Va bene, corro subito in città».

    Il factotum si allontanò, facendosi largo fra le dame ancora assiepate in fondo al corridoio. L’ultima della fila lo squadrò con severità, poi arricciò il naso e fece un gesto in direzione del bagno.

    «Eh sì, questa l’ho sentita anche io», commentò Michele mentre oltrepassava la soglia di casa per andare a adempiere la sua missione.

    Venerdì 23 marzo 1962, ore 12:15

    Villa Flora, Sassari

    «Forza con quel piccone, Elias! Più veloce. E tu, Bai’, muoviti con quella vanga. Ma cosa siete, due ballerine della Scala? Ajò che devo vedere dove passa il tubo prima di tornare a Osilo». La filosofia motivazionale di mastro Vittorio coi suoi manovali era molto semplice: più urli, più quelli lavorano forte e bene. In realtà, a vederli menar colpi sulla terra battuta, Gualandi aveva l’impressione che Elias Mannu e Baingio Cocco, i due uomini che mastro Vittorio aveva stornato dagli scavi di Osilo, ce la stessero davvero mettendo tutta e non meritassero quel trattamento. Come committente, forse sarebbe anche potuto intervenire in loro favore, ma non lo fece, e restò a osservare in silenzio. Parafrasando il noto proverbio, aveva capito già da tempo che, così come tra moglie e marito, anche tra capomastro e manovale era meglio non mettere il dito. E i risultati, fino a quel momento, avevano sempre dato ragione a mastro Vittorio.

    Gualandi conosceva Vittorio Delogu fin dai primi anni del dopoguerra, quando erano iniziati i lavori di ristrutturazione della vecchia casa contadina che sarebbe diventata Villa Flora. A quei tempi, Vittorio era un semplice muratore svelto e volenteroso che riusciva sempre a interpretare al volo le esigenze dei suoi committenti e a tradurle in soluzioni pratiche meglio di chiunque altro. Gualandi era convinto che, se i casi della vita glielo avessero consentito, sarebbe diventato un grande architetto. Però, nascere a Sassari vecchia pochi anni dopo la fine della Grande Guerra e crescere insieme a undici fratelli in una misera dimora di via Arborea, con un padre che si arrangiava con dei lavoretti saltuari e una madre totalmente impegnata a star dietro ai figli che Mussolini comandava, non era il miglior viatico per intraprendere una carriera accademica. E nemmeno una carriera scolastica e basta. Come tanti bambini della sua età, Vittorio si era fermato alla terza elementare per poi essere mandato ad apprendere il mestiere sul campo. E di mestieri ne aveva imparati davvero tanti, dall’arte di tirar su i muretti a secco alla lavorazione delle pietre per la pavimentazione stradale, per arrivare alla costruzione di intere abitazioni. Piccapietre, muratore, minatore, idraulico, falegname, elettricista… non c’era attività manuale di cui non avesse una qualche esperienza diretta. L’importante, come aveva imparato a sue spese Brunilde, era non affidargli mai lavori di giardinaggio, perché per lui qualunque pianta priva di un fusto legnoso, che fosse gramigna, ciclamino di campo, trifoglio selvatico o violetta, era comunque un’erbaccia da estirpare senza troppi riguardi.

    Non c’era voluto molto tempo perché il giovane tuttofare diventasse il màsthru Vittorio conosciuto e apprezzato in tutta Sassari. Ancora adesso, a quarant’anni compiuti, era energico e atletico come da ragazzo e, nonostante fosse ormai il titolare di una piccola impresa che dava lavoro ad almeno una decina di persone, non disdegnava di impegnarsi in prima persona quando aveva la sensazione, assai frequente invero, che i suoi uomini non si dessero da fare come si doveva. Anche stavolta, con un gesto di stizza, dopo aver lanciato ancora un paio dei suoi urlacci che risuonarono per tutta la vallata, si avvicinò deciso a uno dei due manovali.

    «No, Elias, più a sinistra! Ma céggu sei? Non lo vedi il segno sul muro? Lu còmudu è lì dietro…». Mastro Vittorio scosse la testa sconsolato, prese il piccone dalle mani del manovale e lo allontanò con un gesto brusco. Quindi assestò una decina di colpi precisi nel punto indicato, creando in breve una profonda buca proprio a ridosso della parete. «Visthu l’hai cummenti si fa? Adesso prendi la carriola e porta via lu carraggiu». Con la mano, indicò il mucchio di terra e detriti accumulato accanto allo scavo. Poi si rivolse verso l’altro manovale, che aveva osservato divertito tutta la scena continuando a masticare il suo chewing gum. «Bai’, dopo continua tu col piccone, che questo qui ha li mani chi la chisgina. E butta via quella cingomma, chi mi pari una cràba». Detto ciò, mastro Vittorio andò verso Gualandi che aveva continuato a osservare in silenzio la scena. «Don Luigi, intanto che questi finiscono, andiamo giù a vedere dove vuole mettere il nuovo pozzo nero».

    Elias Mannu aveva accolto le ultime parole che gli aveva rivolto il capomastro con un’espressione interrogativa.

    «Ita a nau, su capu?», domandò al collega, appena i due uomini furono lontani.

    «Senti, Casteddu», replicò Baingio Cocco mentre afferrava da terra il piccone. «Te l’ho già detto ieri. Se tu parli campidanese, io poi ti rispondo in sassarese».

    «Va bene, va bene… Cos’ha detto il capo?»

    «Che io sembro una capra e che tu hai le mani di cenere».

    «E cioè, che non sono capace?»

    «Sì, più o meno».

    Elias Mannu lanciò uno sguardo carico di rabbia verso la scalinata da cui erano appena scesi Gualandi e mastro Vittorio.

    «Su cunnu…».

    «Guarda che invece le parolacce in cagliaritano le capiamo bene anche qui», lo avvertì Baingio.

    «Ma chi crede di essere…».

    «Il capomastro», rispose Baingio, con una scrollata di spalle. «Quello che comanda e ci dà di che campare. Dai, che non è così cattivo come sembra. A me ha detto pure di peggio. Però, quando c’è del lavoro, alla fine mi chiama sempre. Anche qui a Villa Flora è già la terza volta che mi porta. Adesso avvicina la carriola e prendi la vanga. Poi comincia a portare via il carraggiu. Butta tutto giù nella discesa, dopo il vecchio pozzo nero. Io intanto continuo ad allargare questo buco».

    Detto ciò, il manovale sassarese sputò sul palmo e si sfregò le mani, prima di afferrare il piccone e iniziare a menare dei gran fendenti, mentre il collega cagliaritano caricava la prima carriola. A un certo punto, il piccone colpì qualcosa di duro.

    «Cazz… questa non è terra battuta. E neanche tufo», commentò fra sé Baingio Cocco. Si chinò per scostare la terra con la mano. «Sembra granito». Si guardò intorno. Elias Mannu si allontanava con la carriola piena e non si era accorto di niente. Allora prese una zappa e cominciò a ripulire la superficie di roccia dura e compatta, che si rivelò essere una specie di gradino. Seguendo il profilo verticale, il manovale scavò un po’ più in profondità, fino a incontrare un’altra superficie orizzontale di granito una ventina di centimetri più in basso rispetto a quella precedente. Sembrava proprio il secondo gradino di una scalinata in pietra che sprofondava sotto Villa Flora. Baingio Cocco si disse che aveva già visto qualcosa di simile appena un paio di mesi prima, mentre prendevano il via gli scavi per la Soprintendenza nella località di Pedra Manna, non lontano da Osilo. Anche lì, una scalinata in pietra scendeva sotto il terreno, protetta ai lati e verso l’alto da altre pietre lavorate in modo da formare un corridoio in ripida discesa che conduceva a una vasca piena d’acqua. Il dottor Arcangelo Pisanu, l’archeologo che seguiva sul posto i lavori, aveva detto che si trattava di un pozzo sacro, più vecchio persino degli stessi nuraghi.

    Baingio Cocco cercò di non far trapelare niente di ciò che aveva scoperto, ricoprì alla meglio il tutto e attese che il collega cagliaritano ripartisse con un nuovo carico per cercare il terzo gradino. Il piccone però affondò nella terra compatta senza incontrare altre superfici di pietra dura. Sembrava proprio che la scalinata si arrestasse lì. Deluso, il manovale decise di dare un’ultima picconata quando qualcosa attrasse la sua attenzione. In mezzo al terreno appena smosso era comparso un oggetto di metallo ricoperto da una patina verde. Cocco poggiò il piccone e si chinò per smuovere delicatamente la terra e mettere a nudo il suo ritrovamento. Sì, non si era sbagliato. Di reperti come quello ne aveva visti parecchi durante gli scavi che aveva fatto per la Soprintendenza. E aveva imparato abbastanza per sapere che c’era gente per cui quel genere di cose era molto importante. Gente che, forse, sarebbe stata anche disposta a pagare per poter dire di averne trovato uno. Come ad esempio un certo giovane archeologo alle prime esperienze, che aveva avuto modo di conoscere negli ultimi mesi e che non aveva mai nascosto la sua insoddisfazione per i lavori di routine a cui veniva destinato. Giovanni Masala, così si chiamava, gli era sembrato sufficientemente ambizioso e privo di scrupoli per accettare quello che aveva in mente. Anche l’ultima volta che l’aveva visto, proprio all’avvio degli scavi di Pedra Manna, si era lamentato con lui perché, dopo che si era dato tanto da fare per far partire il cantiere, era stato estromesso dal suo capo che l’aveva relegato al Museo Sanna per dei banali lavori di catalogazione.

    «Ehi, Baingio… cos’è successo? Perché ti sei fermato?».

    Il manovale sassarese sussultò nel sentire la voce di Elias Mannu così vicina a lui. Era tanto assorto a valutare le conseguenze di quello che aveva appena scoperto da non essersi nemmeno reso conto che il suo collega era tornato e ora lo stava osservando perplesso.

    «Niente», rispose imprecando contro sé stesso per quella disattenzione. «Cercavo di capire dove passa il tubo».

    L’altro sputò per terra e replicò sarcastico. «Mi che non sono scemo. Ho visto che hai preso in mano una cosa». Allungò il collo per vedere meglio lo scavo e sorrise. «Ma dove volevi arrivare? All’inferno?». Quindi strabuzzò gli occhi per la sorpresa. «Ehi, ma quello è…».

    «Shhh», gli fece Cocco. «Non farti sentire».

    «Ma… non dovremmo avvertire mastro Vittorio?»

    «Acchì, màccu sei? Così poi i soldi se li prende lui». In quel momento si sentirono le voci di don Luigi e del capomastro che risalivano dalla vallata. Il manovale sassarese si guardò intorno, quindi indicò un grosso vaso cinese che Brunilde aveva fatto sistemare nell’aiuola di fronte a loro. «Lì dentro!», esclamò. Prese l’oggetto e corse verso il vaso, sollevò il coperchio e depositò all’interno la sua preziosa scoperta. Quindi lo richiuse e tornò verso lo scavo, proprio mentre i due uomini facevano capolino dalla scalinata sotto il leccio.

    «Ebbe’ Bai’… com’è che non sento niente?», gridò il capomastro. «Già finito hai?»

    «Quasi… Mi ero fermato un momento a bere». Baingio Cocco si tolse di bocca la gomma e fece per buttarla sugli altri detriti quando fu bloccato da un’occhiataccia di mastro Vittorio. Allora ne prese una nuova dal pacchetto e avvolse la vecchia nell’incarto, prima di gettarla nel carraggiu. Quindi riprese il piccone e lanciò uno sguardo verso Elias Mannu, che gli rispose con un sorriso e un cenno d’intesa. Mentre il manovale sassarese riprendeva a menar colpi vicino al punto in cui passava il tubo della fogna, il collega cagliaritano faceva cadere dell’altra terra sui gradini per celarli del tutto alla vista del capomastro, che si allontanò ignaro del fatto che i suoi manovali avevano trovato gli stessi scalini che già lui aveva messo a nudo quindici anni addietro, nei primi lavori per dotare la nascente Villa Flora di un vero impianto fognario. Allora, in seguito a quella scoperta, don Luigi aveva sospeso le attività per un paio di giorni, il tempo di appurare che quasi certamente si trattava solo della breve scalinata che conduceva a un locale seminterrato addossato un tempo alla casa e utilizzato come deposito e magazzino, di cui aveva trovato traccia nelle vecchie mappe catastali. E così i due gradini erano stati ricoperti e dimenticati da tutti. Almeno fino a quel giorno…

    Sabato 24 marzo 1962, ore 22:00

    Vicolo delle Canne, Sassari

    Appena entrato nel locale, Giovanni Masala fu colto da un senso di nausea e vertigine. Tra il vociare dei presenti e la densa coltre di fumo che stagnava all’interno, per un istante ebbe l’impressione di essere sprofondato in uno di quei gironi infernali che tanto avevano colpito la sua immaginazione ai tempi del liceo. Un paio di avventori si voltarono per osservare con curiosità il nuovo arrivato, il cui aspetto distinto e ben curato, a cominciare dall’abbigliamento ricercato, stonava con quello dei presenti.

    A ventisette anni appena compiuti, con una laurea in Lettere all’università di Cagliari e il fresco incarico di collaboratore archeologo presso la Soprintendenza archeologica di Sassari e Nuoro, Giovanni Masala sentiva di avere tutto il mondo davanti a sé e amava mostrarlo in ogni occasione. Come suo padre, non era molto alto, ma i lineamenti delicati e tendenti al biondo tradivano l’origine veneta della madre, da cui aveva ereditato anche gli occhi di un azzurro intenso che gli conferivano una certa autorevolezza, di cui aveva imparato a servirsi per compensare la scarsa prestanza fisica. Anche stavolta, anziché far finta di nulla, puntò lo sguardo diritto sui due avventori curiosi che, dopo una breve esitazione, tornarono alle loro occupazioni senza più curarsi del nuovo arrivato.

    Masala cercò di individuare in mezzo al fumo Baingio Cocco, chiedendosi se aveva fatto bene ad accettare il suo invito a incontrarsi in quel posto e a quell’ora di sera. La città era in fibrillazione dopo l’attentato della notte precedente al palazzo del Comune e le forze dell’ordine setacciavano il centro alla ricerca dei responsabili. Gli agenti della squadra politica della questura avevano anche fatto irruzione poche ore prima in un bar frequentato da esponenti neofascisti, arrestando tre persone, ma non era detto che si sarebbero fermati lì. Masala si augurò che il vindioru di vicolo delle Canne non fosse nella lista dei luoghi sospetti. Sarebbe stato imbarazzante spiegare perché si trovasse in quel locale. Però, a giudicare dal tipo di persone che lo frequentava, era molto improbabile che lì dentro potessero nascondersi estremisti di destra.

    Finalmente individuò il manovale seduto a un tavolino accanto al bancone, intento, come al solito, a ruminare una gomma americana. Anche Baingio Cocco lo vide e gli fece segno di accomodarsi. Mentre prendeva posto, il giovane archeologo notò lo sguardo attento, quasi rapace, con cui l’altro sembrava studiarne ogni mossa. Di nuovo, la sensazione che non avrebbe dovuto accettare quell’invito lo assalì con prepotenza. Però Cocco era stato così insistente che non era riuscito a dirgli di no. Soprattutto dopo quell’accenno al fatto che ciò di cui voleva parlargli poteva essere molto importante per la sua carriera.

    «Allora, Cocco», esordì Masala senza troppi preamboli. «Di cosa mi vuole parlare?»

    «Calma, dottore, non c’è fretta. A se lo prende un Vermentino?»

    «No, grazie. Non bevo. E quanto alla fretta… preferirei uscire da questo posto il prima possibile. Mi spiega perché ha voluto che ci incontrassimo proprio qui?»

    «Perché qui nessuno ci conosce».

    «Come sarebbe a dire? Cos’è tutto questo mistero? E quale sarebbe questa cosa così importante per la mia carriera di cui mi ha parlato al telefono?».

    Anziché rispondere, Cocco infilò una mano in tasca e ne estrasse una foto che depositò sul ripiano del tavolo.

    «Eccola», disse.

    Giovanni Masala lanciò un’occhiata all’immagine in bianco e nero. Sulle prime, complice la scarsa illuminazione della sala, non si accorse del particolare che avrebbe potuto cambiare la sua vita. Quello che vide fu soltanto un reperto come tanti.

    «E questo… cosa vorrebbe dire?»

    «L’ho trovato facendo dei lavori. Non l’ho ancora fatto vedere a nessuno».

    «Ah…». Masala cominciava a capire il motivo di quell’incontro. «E, mi dica… dov’è che l’ha trovato? A Pedra Manna?», domandò.

    «Sì, vicino», mentì Cocco. Per il momento, aveva deciso che sarebbe stato meglio celare a tutti la verità. Magari, a Villa Flora, di oggetti come quello ce n’erano altri, e non voleva perdere la possibilità di essere lui a trovarli.

    «Ma dove?», insistette l’archeologo. «Dentro il pozzo sacro? Nell’acqua?»

    «No, non nell’acqua. Vicino, come le ho detto…».

    Masala esitò un istante prima di domandare: «Ce l’ha qui adesso?»

    «No, l’ho nascosto».

    «A Pedra Manna?»

    «Sì… in un posto dove nessuno potrà trovarlo».

    Ancora un’esitazione, più lunga della precedente. Involontariamente, Masala si avvicinò al suo interlocutore e abbassò il tono di voce. «Perché mi ha fatto vedere questa foto?», chiese, anche se conosceva già la risposta.

    «Lei mi ha detto che sperava di scoprire qualcosa di importante per la sua carriera. Bene, adesso ce l’ha».

    «Be’, veramente è lei ad avercelo, al momento, visto che l’ha nascosto così bene. Però, se ce n’era uno, ce ne saranno sicuramente anche altri. Chi le dice che da domani non mi metterò a cercare per mio conto? Non credo sarà difficile capire dove l’ha trovato».

    Cocco si lasciò andare a una risata sgangherata, mettendo a nudo la bocca in cui, nonostante

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