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Il mio viaggio a New York
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E-book338 pagine4 ore

Il mio viaggio a New York

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Info su questo ebook

L’originale, diffida dalle imitazioni.

Dal tour operator N°1 di New York

I luoghi più insoliti della Grande Mela

New York è un grande laboratorio in cui tutto si sperimenta e si cambia: ristoranti, grattacieli, spettacoli, quartieri che rinascono, tendenze che si affermano. È impossibile cogliere l’essenza di questa metropoli e cristallizzarla in un’unica immagine: esistono tante New York, e sono tutte meravigliosamente in contraddizione tra loro. Al prezzo di una singola corsa in metropolitana, infatti, si viene trasportati come d’incanto in un caleidoscopio di esperienze ogni volta diverse. Non esiste in nessuna parte del mondo un luogo simile. Questa guida insolita, aggiornata con tutte le novità del 2024, ci porta a spasso per gli itinerari meno tradizionali, alla scoperta dell’anima più segreta della Grande Mela, la cui offerta culturale, culinaria, artistica e musicale non ha eguali. Preparatevi a partire per un viaggio indimenticabile, accompagnati dai racconti e dai consigli dell’urban explorer che da più di dieci anni condivide con i lettori e i turisti italiani il suo sogno di vivere da vero newyorkese.

Le grandi icone, i quartieri da vivere, i rooftop imperdibili, shopping e cibi cult: la guida definitiva alla città che non dorme mai
Un compagno di viaggio indispensabile per un’esperienza da veri newyorkesi, con una mappa aggiornata da avere sempre con sé
Tanti itinerari imperdibili, dal cuore di Manhattan ai luoghi leggendari del Bronx

«Gli italiani che vogliono dare un morso alla grande mela senza correre il rischio di perdersi hanno un punto di riferimento: Piero Armenti.»
Corriere della Sera

«Avere la guida giusta è fondamentale a New York. Piero Armenti è uno che a furia di camminare, girare e conoscere, sa tutto, anche cose che non sempre si vedono.»
Vanity Fair

«Piero Armenti è l’urban explorer per eccellenza.»
Dove Viaggi
Piero Armenti
Classe 1979, ha conseguito un dottorato all’Università Orientale di Napoli ed è il più famoso urban explorer di New York. Tutto è iniziato quando è arrivato la prima volta a New York e ne è rimasto folgorato: ha cominciato a raccontare le sue scoperte sui social network e su giornali e riviste, conquistandosi negli anni un seguito social che attualmente sfiora i 4 milioni di follower. Oggi è un imprenditore di successo grazie al suo tour operator che offre esperienze uniche nella Grande Mela su ilmioviaggioanewyork.com e TravelMorbido.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2024
ISBN9788822788665
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    Anteprima del libro

    Il mio viaggio a New York - Piero Armenti

    Capitolo 1

    Perché New York è il centro del mondo?

    Le origini

    Il primo ad arrivare a New York è stato un fiorentino, Giovanni da Verrazzano, nel 1524. Entrò nella baia di New York e si imbatté negli indigeni Lenape, che gli andarono incontro in canoa. Fu un incontro piacevole, ma molto breve. Il navigatore non si fermò, chiamò questa baia New Angoulême in onore del re Francesco i di Francia che gli aveva finanziato il viaggio e passò oltre. Questo è il primo nome di New York: New Angoulême. In pochi lo conoscono perché in effetti non venne mai utilizzato visto che non venne fondata una colonia in quella baia. Verrazzano non avrebbe potuto immaginare che in quello stretto in cui aveva ormeggiato l’ancora, quattro secoli dopo, sarebbe stato costruito il ponte di Verrazzano che unisce oggi Brooklyn a Staten Island, e da cui parte la Maratona di New York. E soprattutto non avrebbe mai potuto immaginare che lì sarebbe nato un piccolo insediamento olandese, quasi un secolo dopo, che negli anni si sarebbe trasformato nella città più spettacolare del mondo.

    Nel 1609 invece la storia di New York cambiò per sempre. Il navigatore Hudson arrivò nella stessa baia e notò che vi era una grande popolazione di castori, la cui pelle era molto pregiata in quell’epoca. Le prime case rudimentali olandesi vennero costruite nel 1613, come basi per le attività commerciali. Ma non si poteva parlare di una vera e propria colonia. A quell’epoca Parigi era già una grande metropoli, e la stessa Napoli vantava quasi mezzo milione di abitanti. La storia di New York come la conosciamo oggi stava appena per iniziare. Nel 1625 nacque ufficialmente la colonia chiamata New Amsterdam e venne acquistata l’isola di Manhattan dagli olandesi che diedero agli indigeni una somma pari a sessanta fiorini olandesi (al cambio attuale poco più di mille euro, cioè quasi niente). In realtà quella compravendita è immersa ancora oggi nel mistero, se ne sa pochissimo e soprattutto non si sa se gli indigeni avessero compreso il concetto di vendita della terra. Ci arrivarono poche centinaia di coloni olandesi, e fu quello il vero inizio. New Amsterdam non era nient’altro che un villaggio, al nord demarcato da un confine, un muro, che è quello che oggi si chiama Wall Street. Un muro che serviva a difendere l’insediamento sia dagli abitanti locali, gli Algonchini, che dagli inglesi. La vita di New Amsterdam fu turbolenta, costellata di scontri sia con i nativi americani che in seguito con i britannici. New Amsterdam divenne terreno di battaglia per la grande lotta dei mari che si consumava tra Inghilterra e Olanda. Nel 1664 la città venne conquistata dagli inglesi, che la chiamarono New York in onore di Giacomo ii, duca di York e Albany.

    Gli olandesi ripresero il controllo della città nel 1673 e la chiamarono New Orange, ma alla fine dell’anno successivo dovettero cedere definitivamente l’intera colonia dei Nuovi Paesi Bassi agli inglesi, in cambio del Suriname. Inizia così la storia britannica di New York, che è anche quella più duratura prima dell’Indipendenza. Nel 1789 New York divenne la prima capitale degli Stati Uniti indipendenti, e a Manhattan il primo presidente George Washington giurò sopra una Bibbia che è ancora visibile nella Federal Hall che si trova proprio di fronte alla Borsa di New York.

    La domanda che mi ha sempre ossessionato è la seguente: come mai, tra tutte le città americane, proprio New York è diventata la più grande, il centro dell’impero? Non era scontato che lo diventasse. Prima doveva raggiungere il primato come porto più importante delle Americhe, e dopo aspettare che gli Stati Uniti diventassero il centro del nuovo impero, l’impero americano. La prima sfida di New York fu quindi una sfida alla geografia. Se si osserva una cartina americana, e si presta attenzione alle vie fluviali, la più grande città americana sarebbe dovuta essere New Orleans, perché il Mississippi rappresentava la via di comunicazione più importante in un’epoca in cui i fiumi e i mari erano il cuore del commercio. Ma le cose non sono andate così perché i newyorkesi fecero un gesto davvero folle: costruirono a partire dal 1817 il canale artificiale navigabile chiamato Erie, di oltre 500 chilometri, con cui da New York si riusciva a raggiungere i grandi laghi interni. Questo canale diede un vantaggio commerciale unico a New York, il cui porto era una baia naturale protetta capace di far attraccare un numero altissimo di navi. New York divenne il porto più importante, capace di scavalcare Boston, Philadelphia, Baltimore e Charleston. Il punto d’incontro tra l’Europa e gli Stati Uniti. Ma il vantaggio competitivo non era solo commerciale, era anche demografico, perché l’800 vide un immenso flusso di emigrazione dall’Europa verso gli Stati Uniti, e anche in questo caso il porto d’entrata era New York. Poter contare su queste braccia era un altro grande vantaggio, in un’epoca in cui la forza lavoro era una vera ricchezza per far crescere ed espandere l’economia della città. Sarebbe stato impossibile costruire nel 1930 l’Empire State Building in poco più di un anno senza gli emigranti di cui New York disponeva, importanti soprattutto dopo la fine della schiavitù.

    La classe dirigente newyorkese dell’800 era visionaria: oltre al canale, l’altro colpo di genio fu di tipo urbanistico, e cioè governare il caos della crescita demografica grazie alla capacità di pensare in maniera semplice la città. Nel 1811 venne elaborato dal perito Simeon De Witt, da Gouverneur Morris, padre fondatore degli Stati Uniti, e dall’avvocato John Rutherfurd il piano urbanistico denominato grid, la griglia. Un foglio di quasi tre metri in cui era stata disegnata la mappa della metropoli del futuro, mentre New York era ancora una città di meno di centomila abitanti, costellata di campi e fattorie. Tutti rimasero stupiti dalla semplicità del sistema di strade verticali e orizzontali che si incrociavano verso nord quasi all’infinito. Non era nulla di nuovo, piani urbanistici del genere erano ben noti nell’antica Grecia e a Roma. Ma ciò che colpisce è la lungimiranza, la capacità di prevedere lo sviluppo della metropoli per i decenni a venire. Vennero progettate dodici grandi Avenue verticali e oltre un centinaio di Street orizzontali, a partire dalla 13ima Strada fino ad arrivare alla 155ima. E l’unica eccezione era la Broadway, il vecchio sentiero dei nativi americani, che avrebbe tagliato in maniera diagonale la griglia. Quella mappa di tre metri rese governabile la crescita incredibile del numero degli abitanti di Manhattan, che nell’800 visse un vero e proprio boom anche grazie alle ondate migratorie di inglesi, irlandesi, tedeschi, italiani. In un secolo New York passò da 60mila abitanti a oltre 3 milioni. Aumentò anche a dismisura la sua ricchezza. Nel 1858 venne fondata Macy’s, che ancora oggi è il centro commerciale più grande della città.

    La costruzione del Ponte di Brooklyn, invece, ebbe un impatto incredibile sull’opinione pubblica mondiale. Visto con gli occhi di adesso il ponte sembra normalissimo, ma per l’epoca fu una grande rivoluzione ingegneristica. Fu completato nel 1883, dopo quattordici anni di lavori, su un progetto dell’ingegnere tedesco John Augustus Roebling. È stato il primo ponte costruito in acciaio e per lungo tempo è stato il ponte sospeso più grande al mondo. Collega Manhattan a Brooklyn, è lungo 1825 metri, e si può attraversare anche a piedi e in bicicletta. La costruzione dell’opera causò la perdita di diverse vite umane, molti operai caddero infatti durante i lavori, altri morirono per embolia gassosa dopo aver effettuato immersioni sottomarine. Pochi sanno che un contributo decisivo nella costruzione del ponte venne da una donna. A causa di una malattia infatti l’ingegnere Roebling fu costretto per lungo tempo a letto, e fu la moglie a occuparsi della direzione dei lavori sotto la supervisione del marito, rendendo possibile il completamento del ponte. Fu la prima persona ad attraversarlo. Senza il Ponte di Brooklyn, Manhattan e Brooklyn non si sarebbero unite, e non ci sarebbe stata la grande New York come la conosciamo oggi, cioè l’insieme di Manhattan, Brooklyn, Bronx, Queens e Staten Island.

    Ma le contraddizioni tra ricchezza e povertà iniziarono a diventare sempre più stridenti nella nuova dimensione metropolitana di fine ’800. Se da una parte la ricca borghesia faceva continui viaggi a Londra e Parigi, dove comprava vestiti e cappelli da esibire durante la messa di Pasqua davanti alla cattedrale di St. Patrick, dall’altro aumentava anche la povertà, soprattutto quella dei nuovi emigranti, molti dei quali finivano nel giro della criminalità. Jacob Riis è stato il primo a fotografare la povertà della metropoli, con il suo capolavoro fotografico How the Other Half Lives: Studies among the Tenements of New York (1890). Grazie all’utilizzo del flash riuscì a immortalare le condizioni pietose degli edifici popolari di New York, soprattutto di notte.

    Ma se la povertà si poteva anche non vederla, diventava difficile ignorare come da quella derivasse gran parte della manovalanza per la criminalità. Le gang di New York nacquero e si imposero tra la metà dell’800 e l’inizio del ’900 in una zona che si trovava tra Little Italy e Chinatown, chiamata Five Points. Una zona di degrado, di spaccio e prostituzione, dove arrivavano continuamente nuovi migranti. Lo stesso Charles Dickens, che aveva esperienza coi bassifondi londinesi, rimase inorridito dalle condizioni di vita del luogo. Le gang italiane e irlandesi, tra cui i famigerati Dead Rabbits, sono scolpite nella memoria dei newyorkesi, anche grazie a film quali Gangs of New York. Nacque sempre in quegli anni la mafia italoamericana, a partire dall’organizzazione nota come La Mano Nera, divenuta poi potentissima durante l’epoca del proibizionismo, con figure divenute leggendarie come Al Capone o Lucky Luciano.

    Ma se l’800 fu sicuramente il secolo che vide New York diventare la più importante città americana, sarà necessario aspettare il secolo successivo affinché diventi la più importante al mondo. Per capire quest’ascesa bisogna partire da dove la colonia olandese è nata, la strada del muro difensivo: Wall Street. Qui nel 1792 nacque il New York Stock Exchange, la Borsa di New York, la cui crescita vertiginosa si fermò solo con il crollo del 1929. Se all’inizio furono il porto e l’arrivo di emigranti a far emergere New York, in seguito la borsa di Wall Street e la vittoria della seconda guerra mondiale la fecero diventare una capitale globale.

    Il momento in cui New York scalzò Londra e Parigi nell’immaginario dell’epoca fu con la costruzione dell’Empire State Building, che spostò totalmente il baricentro dell’innovazione architettonica dall’Europa agli Stati Uniti. La costruzione del grattacielo fu resa possibile grazie all’utilizzo dell’ascensore, il primo dei quali era stato installato sempre a New York nel 1857, presso il civico 488 di Broadway. Poter espandere verso l’alto la metropoli significava non solo poter moltiplicare la ricchezza, ma creare una città come non era mai stata vista fino a quel momento, fatta di veri e propri canyon urbani. Iniziò così la sfida tra le grandi imprese americane a costruire il grattacielo più alto. Contemporaneamente vennero eretti il Rockefeller Center, il Chrysler Building, che insieme all’Empire State Building sono ancora oggi i più iconici di New York. Ma sicuramente l’Empire ha un primato particolare, perché fu un’impresa ingegneristica folle per la velocità. Il cantiere aprì il 24 settembre 1929 e il grattacielo venne inaugurato il primo maggio 1931. Un vero record, se consideriamo che furono completati 4 piani a settimana. L’Empire fu un vero e proprio successo americano. All’epoca era il grattacielo più alto del mondo, il primo a superare i 100 piani, e quello costruito più velocemente. Purtroppo non fu facile dare in affitto i suoi spazi, perché l’America si trovava in difficoltà dopo la Grande Depressione, e per questo venne definito Empty State Building. Il suo primato durò fino al 1973 quando le Torri Gemelle glielo strapparono. I newyorkesi amano l’Empire State Building perché ogni notte si illumina di colori diversi, in onore a qualche evento americano o internazionale, e soprattutto perché è visibile da tantissimi punti della città. Con l’Empire era terminato definitivamente quel complesso d’inferiorità verso l’Europa, continente che era vissuto dalla borghesia americana come ineguagliabile per storia e bellezza. Non è un caso se, prima dei grattacieli, molte costruzioni newyorkesi erano un tripudio di colonne neoclassiche, come il Metropolitan Museum, il Grand Central, la Federal Hall. Se dunque la Borsa di Wall Street aveva reso New York ricchissima, se i grattacieli l’avevano resa unica (insieme a Chicago), l’ultimo ingrediente, forse il più importante, è stato il cinema. King Kong che si arrampica sull’Empire State Building inaugura nel 1933 una serie di film che vedranno New York come protagonista, fatti di supereroi, eventi catastrofici e storie romantiche.

    New York è diventata New York soprattutto per la sua capacità di rappresentare il desiderio di libertà dei suoi abitanti e dei nuovi arrivati, in modo da garantire quella ricerca di felicità che è un diritto espresso nella Costituzione americana. Difficile trovare un’altra città che esalti così tanto le differenze dei suoi abitanti. Ogni eccentricità è benvenuta, ogni cultura è rappresentata, ogni stile di vita trova accoglienza, un terreno fertile che libera e potenzia la creatività. Nel Queens trovi tutte le cucine del mondo, a Manhattan ogni mese c’è una parata per festeggiare una nazionalità diversa, a Williamsburg convivono gli hippie e gli ebrei hassidici. Sarà per questo che appena si arriva a New York è facile sentirsi a casa, perché se Parigi è francese, Londra è britannica, Tokyo è giapponese, New York va al di là degli Stati Uniti, e finisce per diventare la vera e propria capitale di tutte le terre emerse. New York è italiana come cinese, indiana come francese, New York è semplicemente la capitale di tutti. Ed è soprattutto terra di libertà.

    Prima hanno trovato la libertà gli schiavi afroamericani, che hanno visto in New York uno degli epicentri del movimento antischiavista. Qui venne fondata l’American Antislavery Society (Società americana contro lo schiavismo), e durante la guerra di secessione americana (1861-65) tra il Nord abolizionista e il Sud schiavista degli Stati Uniti, New York ha dato il più grande contributo all’abolizione della schiavitù. Nell’800 e nel ’900 poi ha accolto ondate di migranti, a cui è dedicata una statua, quella della Libertà. Basta leggere l’iscrizione alla sua base, un vero inno all’immigrazione: Mandatemi loro, i senzatetto, gli scossi dalle tempeste, e io solleverò la mia fiaccola accanto alla porta dorata. Una poesia bellissima di Emma Lazarus. Poi non possiamo dimenticare il grande contributo dato all’emancipazione delle donne; basti pensare che a New York nel 1921 Margaret Sanger organizzò la prima clinica di controllo delle nascite con uno staff composto esclusivamente da dottoresse. A questo vanno aggiunti i miti cinematografici, da Marilyn Monroe ad Audrey Hepburn che riuscirono a rendere New York la città dell’emancipazione femminile. La gonna che si alza di Marilyn, la civetteria di Audrey Hepburn venivano proiettate nei cinema di tutto il mondo, e queste due immagini contribuivano a una rivoluzione dei costumi globale. E in ultimo la grande forza con cui New York si è schierata sempre al fianco dei diritti dei gay, delle lesbiche, dei trans. Basti pensare ai moti dello Stonwall Inn con cui nel 1969 iniziò proprio a New York il movimento per i diritti delle minoranze sessuali discriminate, fino ad arrivare ai matrimoni gay nel 2009.

    Non è tutto oro quel che luccica. La storia di New York parte da una tragedia che non può essere dimenticata: quella dei nativi. Si ritiene che tra i 55 e i 100 milioni di nativi morirono a causa dei colonizzatori, come conseguenza della conquista, della perdita dei territori, del mutamento degli stili di vita e soprattutto delle malattie contro cui i nativi non avevano difese immunitarie, mentre molti furono oggetto di deliberato sterminio poiché considerati barbari. Qui c’erano i nativi americani, questa era la loro terra. E la loro quasi scomparsa merita di essere ricordata. New York l’ha fatto con un museo importante ad accesso gratuito dedicato a loro: il National Museum of American Indian, il museo nazionale dei nativi americani, che si trova a Wall Street. Non si può tornare indietro, ma nel raccontare New York la tragedia dei nativi americani non va dimenticata.

    La sua unicità

    Chi arriva a New York ha una sensazione che è difficile provare altrove. Una sensazione di familiarità, come se tutti i film, le serie tv, i reality che abbiamo visto, e che hanno New York come protagonista, ce l’abbiano avvicinata, l’abbiano innestata dentro di noi: nessuno si sente estraneo o distante. Almeno nessun italiano. Per capire perché New York sia unica, e così differente da ogni altra città, bisogna partire da questo, da questa familiarità, che è una sensazione comune soprattutto all’inizio, durante i primi passi nella metropoli. Girare con lo sguardo all’insù per cercare i grattacieli, lasciarsi travolgere dai suoni della metropoli, dai clacson, dalle sirene. Prendere per strada un hot dog, ascoltare un sassofono a Central Park, vedere la gente che corre col caffè in mano al mattino per andare al lavoro. Compariamo New York all’immagine che ce n’eravamo fatta, ed è difficile rimanerne delusi. Nel 1966 Pasolini ne scriveva parole entusiaste, intervistato da Oriana Fallaci: È una città magica, travolgente, bellissima. Una di quelle città fortunate che hanno la grazia. Come certi poeti che ogni qualvolta scrivono un verso fanno una bella poesia. Mi dispiace non essere venuto qui molto prima, venti o trent’anni fa, per restarci. Non mi era mai successo di innamorarmi così di un paese. Fuorché in Africa, forse. Ma l’Africa è come una droga che prendi per non ammazzarti, una evasione. New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono, ecco, a vent’anni.

    L’entusiasmo contagia fin dall’inizio, e si impara subito a girarla senza bisogno di aiuto, soprattutto nella parte di New York dove la griglia di strade orizzontali e verticali, numerate, rende facilissimo orientarsi. La semplicità è una delle chiavi che ci avvicinano a questa metropoli. Basta gettarsi in un taxi qualsiasi, e dare l’indirizzo come se giocassimo a battaglia navale. Andare sulla Quinta Avenue, tra la 45ima e 46ima Strada. Così come diventa facilissimo muoversi con l’unica metropolitana al mondo aperta ventiquattr’ore al giorno, uno dei sistemi metropolitani più diffusi al mondo. È vero che molte stazioni sono fatiscenti, che possono dar fastidio i topi che si vedono sui binari. È anche vero che spesso le corse di notte sono a intervalli di 20 minuti. Ma rimane pur sempre un sistema che funziona senza fermarsi mai, che ti garantisce un servizio che nessun’altra metropoli al mondo fornisce. Sono stato in viaggio di recente a Tokyo, quando la metropolitana sta per chiudere a mezzanotte inizia una corsa disperata per prendere l’ultimo treno. Chi non riesce a farcela in tempo, non prende il taxi che è costoso, ma spesso va a passare la notte negli Internet Cafè. A New York sarebbe impossibile perché non esiste l’ultimo treno, e non sei costretto a rimanere per strada. La linea A copre una distanza di 40 chilometri, senza mai lasciare la stessa città. Ad ogni ora puoi arrivare dal Bronx a Coney Island, come nel film I guerrieri della notte, al costo di un biglietto che costa quanto un espresso. Una metropolitana che abbatte la distanza tra centro e periferia ti tranquillizza, soprattutto all’inizio, e soprattutto per chi viene a cercare lavoro qui: puoi abitare lontano e andare a lavorare a Manhattan senza alcun problema.

    Poi ci sono i taxi che non costano tanto, e sono sempre presenti per le strade di Manhattan, e infine l’ultima vera rivoluzione. Le App come Uber, Lyft, Via, Juno che ti permettono a costi sempre minori di spostarti da un punto all’altro in auto, con un conducente. Tra tutte le offerte disponibili, e grazie all’alta competizione, mi è capitato di andare dal Queens a Manhattan in Uber al costo di una corsa in metropolitana. Certo, sono corse condivise, magari con altri passeggeri che fanno un tragitto simile al tuo, magari si perde un po’ di tempo in più per le deviazioni, ma è pur sempre un grande aiuto che semplifica la fruizione della città. Me ne rendo conto ogni volta che torno in Italia, dove muoversi in una grande città di notte è difficile e costoso, soprattutto senza avere un’automobile.

    Se la familiarità dipende dai film che abbiamo visto, la semplicità è una conseguenza della storia di New York. Fin dal principio questa metropoli è stata pensata non solo per essere la più grande città americana, ma anche la più accogliente. Come già abbiamo sottolineato, New York è nata da un piano regolatore futuristico in cui si è prevista un’espansione quasi inarrestabile della città. E questa espansione si è avverata grazie alla grande quantità di emigranti giunti fin qui. In una città pensata per chi arriva, sentirsi a casa diventa facilissimo, anche perché New York è tanto italiana quanto messicana, tanto francese quanto cinese.

    Nel Queens si parlano oltre 800 lingue fluentemente, nei suoi angoli si possono trovare ristoranti di ogni cucina. Nel 2010 il «New York Times» scoprì che c’era un unico abitante a parlare il mamuju indonesiano. A Manhattan ci sono parate che celebrano le comunità migranti più numerose, tra cui quella italiana, durante il Columbus Day. Ad Astoria nel Queens vi sembrerà di essere nelle taverne greche, ma se vi spostate di qualche passo arrivate nella piccola Egitto. All’angolo dell’Empire State Building c’è la piccola Corea, mentre nei vicoli di Flushing sempre nel Queens vi sembrerà di essere in Cina. A Williamsburg convivono nello stesso quartiere sia gli ebrei hassidici che giovani artisti e bohémien, tutti uniti da un’unica grande convinzione: New York è di tutti. Non è una convivenza sempre facile, ma ciò che unisce tutti coloro che sono qui è questa storia comune di sradicamento e rinascita. Si viene a New York per trovare un’opportunità di vita. Non è un caso che nella poesia di Emma Lazarus, la Statua della Libertà viene chiamata Mother of Exiles, madre degli esuli. E se si visita questo monumento, è d’obbligo fare anche una tappa a Ellis Island, l’isola che accoglieva gli emigranti, con un record di un milione di persone arrivate nel 1907.

    A New York ci sentiamo a casa, la barriera che separa il viaggiatore dal luogo in cui arriva scompare. Lo stesso Pasolini nella stessa intervista scriveva: "Non mi sentivo straniero, imparai subito a girare le strade neanche ci fossi nato: eppure la riconoscevo. I giovani hanno un gusto favoloso: guarda come sono vestiti. Nel modo più sincero, più anticonformista possibile. Non gliene importa nulla delle regole piccolo-borghesi o popolari. Quei maglioni vistosi, quei giubbotti da poco prezzo, quei colori incredibili. E così se ne vanno, orgogliosi, coscienti della loro eleganza che non è mai un’eleganza mitica o ingenua. Questa è la cosa più bella che ho visto nella mia vita. Questa è una cosa che non dimenticherò finché vivo. Devo tornare, devo star qui anche se non ho più diciott’anni. Quanto mi dispiace partire, mi sento derubato. Mi sento come un bambino di fronte a una torta tutta da mangiare, una torta di tanti strati, e il bambino non sa quale strato gli piacerà di più, sa solo che

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