Narrazioni diversive: Come il complottismo protegge il potere
Di Tobia Savoca
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Narrazioni diversive - Tobia Savoca
I.
I COMPLOTTI ESISTONO
LA SOTTILE LINEA TRA COMPLOTTO, TEORIE DEL COMPLOTTO E COMPLOTTISMO
Occorre partire da un’affermazione semplice, quasi banale: i complotti esistono. Non tutte le teorie del complotto sono rimaste ipotesi. Alcune sono state «verificate». Basti citare esempi casuali, come l’incendio del Palazzo del Reichstag a Berlino, sede del Parlamento tedesco, la sera del 27 febbraio 1933. I nazisti inventarono che la colpa fosse di un membro del partito comunista per poterli bandire dalla vita politica e assicurarsi il controllo istituzionale. Oppure è possibile ricordare quando la CIA diede vita a un progetto di controllo delle menti (MK-Ultra)³ o realizzò diversi golpe in America Latina (Klein, 2018, p.57, 64). Oppure ancora il più recente DataGate secondo il quale l’NSA, l’Agenzia per la Sicurezza Nazionale americana, spia i cittadini di tutto il mondo.⁴
Gli accordi, segreti e non, al fine di recare un danno a qualcuno, sono un fenomeno frequente nella nostra storia. Non esisterebbero altrimenti i cartelli in economia, la corruzione, il Watergate, la P2, la mafia, la politica e in definitiva il potere. A meno che non si voglia negare tutto questo, e prima ancora di verificare quanto il complotto sia un elemento costitutivo del potere, occorre distinguere tra complotto e teoria del complotto. E la differenza sembrerebbe essere tutta qui: nelle prove che possano stabilire i fatti con un elevato grado di certezza. Sembra facile ma non lo è. Stabilire quali prove siano valide e quali no non può essere una questione sbrigativa. Peraltro la casistica è molto più varia della semplice e dicotomica categorizzazione tra complotto reale e fantasia complottista. Infatti una persona può manifestare dubbi, formulare ipotesi plausibili o illazioni, speculazioni, credere a leggende metropolitane e dicerie, oppure credere a fantasie complottiste. E tanto più apriamo questo ventaglio di posizioni quanto più restituiamo un quadro variopinto della realtà e di quello che pensano le persone.
Quando invece si parla di «complottismo» si intende la patologizzazione della tendenza a individuare complotti ovunque e quindi a elaborare teorie del complotto. Quanto più utilizziamo la categoria «complottismo», tanto più le varie posizioni sopra descritte scompariranno, polarizzando la realtà delle opinioni e riducendo lo spazio di dibattito. Questo è quello che possiamo definire come «complottismo-dispositivo», ovvero come l’invenzione e la diffusione della nozione di «complottista» da parte dei media che serve a screditare la contestazione. Da differenziare dal «complottismo-fenomeno» che è invece quella tendenza a sviluppare ossessivamente fantasie paranoiche con cui spiegare qualsiasi evento attraverso l’azione dei «poteri forti». Si potrà obiettare che il complottismo-fenomeno esista solo perché esiste il complottismo-dispositivo mediatico. Esistono i complottisti solo perchè i media li dipingono così. Io penso che il complottismo-fenomeno esista anche al netto della patologizzazione mediatica. Ritengo che il complottismo descriva un modo di esprimere inquietudini esistenziali e politiche, e che serva progetti politici tanto di repressione quanto di contestazione. Cercheremo quindi di parlare di entrambi i «complottismi», correndo coscientemente il rischio di metterli in egual risalto, mentre nella realtà è molto probabile che le proporzioni siano differenti: il complottismo-dispositivo mediatico ingigantisce l’importanza del complottismo-fenomeno.
LEGITTIMO SOSPETTO O PARANOIA?
Se le prove permettono di discernere tra scoperta di una reale cospirazione e mera fantasia complottista, ciò che permette di scatenare entrambi i processi critici sono le intuizioni e il sospetto. Lo diceva persino colui che è stato ipotizzato come l’artefice di molti mali della Repubblica italiana: «A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina».
Le intuizioni⁵ che stanno dietro una teoria del complotto, lo sforzo di chi cerca di scoprire come funziona il mondo, le ipotesi accusatorie di qualsiasi fatto, mostrano una sana sfiducia nei confronti del potere, fondata sull’esercizio quotidiano dello spirito critico verso qualsiasi informazione. Esse sono il sale di una società vigile e cosciente, soprattutto perché le informazioni provengono da un sistema mediatico alfiere di un potere che produce le sue rappresentazioni delle verità, spesso auto-legittimanti, o che cerca di fare notizia perché piegato alle leggi del mercato. Guai dunque a demonizzare sospetto e spirito critico. A indicare la via dovrebbe essere il giornalismo d’inchiesta. Quello vero. Quello che non ha paura di porre domande a persone che dopo qualche mese si trovano sul banco degli imputati, o addirittura poi condannate. D’altronde tutte le teorie del complotto che sono state poi accertate, sono state scoperte da giornalisti d’inchiesta, da giudici, o da commissioni parlamentari, non da chi svolge un’indagine su Wikipedia o Youtube.
Certo, i «maestri del sospetto» che Paul Ricoeur (1965) ha individuato in Nietzsche, Freud e Marx, grazie al dubbio avevano svelato i meccanismi nascosti dell’essere umano riguardo alla religione, al proprio inconscio e alla società del capitale. Ma si trattava di un sospetto critico, insito nella contraddizione e nella complessità del pensiero, non nella semplificazione mitologica degli eventi. Oggi il sistema mediatico alternativo edificato sui social network ha invece scatenato un delirio opposto: un sospetto iperbolico e un’ossessiva ricerca di eccesso di significato
, nonché un tentativo di risposta immediata e automatica a tutto ciò che non riusciamo a spiegarci, il complottismo appunto. La sintesi del ragionamento e della retorica complottista è la seguente: «Nulla accade per caso. Nulla è come sembra. Tutto è collegato.»
UNA DEFINIZIONE LIBERALE
Ho già accennato al modo principale con cui questo fenomeno complesso è stato studiato fino ad oggi. Dagli anni Quaranta il complottismo sarebbe visto o come patologia cognitiva - una sorta di distorsione della ricostruzione della realtà - o come anomalia logica (Di Cesare, 2021, p. 7). Secondo l’approccio cognitivista, il complottismo avrebbe a che fare con uno scorretto uso degli strumenti che portano o meno alla conoscenza e alla «verità».
Il complotto (non il complottismo) in realtà era già stato studiato da Machiavelli e Burckhardt e considerato come uno strumento dell’agire sociale e politico. Il Principe poteva ricorrere al complotto per raggiungere i suoi fini.⁶ Nell’Ottocento si iniziava a vedere il complotto diversamente, sempre meno come modo di agire nella realtà politica, o di spiegarla. Con l’avvento dello Stato moderno infatti si pensava che i complotti non potessero che fallire, lo Stato li avrebbe scoperti e repressi. Anzi si pensava che soltanto lo Stato fosse in grado di complottare, e quindi nasceva la prima idea di un deep state, uno Stato profondo, nascosto, che opera dietro le quinte.
Ma la vera svolta si ha dagli anni Quaranta in cui si va affermando l’approccio cognitivista. Richard Hofstadter e Karl Popper affrontano e definiscono il complottismo in un modo che ancora oggi ci influenza enormemente: le cause del complottismo sarebbero un problema individuale. La prima definizione di teoria del complotto viene infatti da Popper. È fondamentale ricordare il contesto: siamo all’inizio della Guerra Fredda, Popper è un liberale. Per lui gli individui sono e devono essere lasciati liberi di agire spontaneamente, lo Stato deve garantire funzioni minime.
Per Popper (1945) la «teoria complottistica della società» è quell’idea che vede qualsiasi evento come il diretto risultato delle intenzioni di potenti gruppi o individui. Ritiene questa idea sbagliata non solo perché questo risultato diretto tra intenzioni ed evento sarebbe difficilmente provabile, ma soprattutto perché ritiene che la società non sia così facilmente manipolabile, regolabile, pianificabile con tale precisione. Risulterebbe difficile spiegare la società attraverso i complotti, perché il risultato non è mai scontato e calcolabile. Pur non negando la loro esistenza, egli ritiene che buona parte dei complotti falliscano. Da buon liberale, rifiuta l’idea di una scienza sociale che possa prevedere i risultati intenzionali delle azioni, anzi ritiene che la «buona scienza sociale» dovrebbe occuparsi di indagare le conseguenze non intenzionali delle azioni.
Questa premessa, che potrebbe sembrare inutile storiografia del concetto, invece è un elemento chiave per capire il fenomeno e come si sono approcciati fino a poco tempo fa gli studiosi. La posta in gioco è infatti ideologica e politica: affermare che il «complotto abbia successo», quindi calcolare le azioni degli altri con precisione, significherebbe affermare che la pianificazione sociale ed economica sia possibile ed efficace. Popper, insieme all’amico Hayek, padre e riferimento del neoliberismo odierno, sostengono esattamente il contrario. La pianificazione appartiene ai cattivoni del mondo sovietico e all’intervento statale nell’economia di cui i liberisti sono ferventi oppositori. Per loro la società e il mercato devono essere lasciate libere di agire, perché le istituzioni umane nascono dalle azioni umane, ma non sono il frutto dell’umano progettare: il linguaggio, il mercato e il diritto sono il risultato di una lunga evoluzione nel corso della quale le azioni intenzionali provocano continuamente effetti inintenzionali, dando vita a un ordine spontaneo.
Chiaramente si tratta di una visione politica ben precisa, che vuole restringere il più possibile spazi di discussione politica sull’ordine esistente: la società è così e non ci possiamo fare niente, non possiamo pretendere di cambiarla, né con la politica, né coi complotti. Per questo motivo gli studi odierni, influenzati da queste prime definizioni, suggeriscono il debunking⁷, il fact-checking e la rieducazione cognitiva come ricetta per combattere il fenomeno del cospirazionismo: il problema riguarda lo sguardo che individualmente le persone portano sul mondo. Tanto che per gli studiosi dagli anni Quaranta ad oggi il complottismo sarebbe un modo di conoscere difettoso, un’«epistemologia zoppa» (Sunstein et al., 2009) o una «distorsione cognitiva» (Brotherton, 2017). Poveri imbecilli questi complottisti! Ma in fondo non si potrebbe dire lo stesso per la religione e le ideologie? Sarebbe forse una buona ragione per considerare chi vi crede come un povero scemo da correggere?
SIAMO TUTTI COMPLOTTISTI?
Le distorsioni cognitive, chiamate in inglese bias, che inducono a credere alle teorie del complotto, fanno parte del nostro modo di ragionare. Alcune di queste vengono utilizzate nel marketing per indurre all’acquisto. Chiunque tendenzialmente può cadere vittima di una di queste distorsioni (bias): il bias di intenzionalità, ovvero la tendenza a supporre che gli eventi si siano prodotti per un’intenzione, e non per caso; ad esempio, se c’è un’epidemia di peste, è colpa degli ebrei; se c’è un’epidemia di Covid, è colpa di Soros o Bill Gates. Il biais di proporzionalità, ossia la tendenza a supporre che la grandezza delle cause di un evento debba corrispondere alla grandezza dell’evento stesso. Il bias di conferma, ovvero la tendenza a credere solo alle prove che sostengono quello che già sappiamo, scartando quelle contrarie; ci caschiamo presuntuosamente tutti.
L’approccio cognitivo ha dei limiti evidenti, sia nella soluzione del problema, che nella sua visione della società.
Anzitutto nessuno è escluso dalla tendenza a ricostruire delle versioni di come sono andate le cose. I bias cognitivi sono meccanismi insiti nella mente umana. Mio zio ringrazia. Siamo insomma «tutti un po’ complottisti»: trasformare le informazioni in base alla propria visione del mondo e trovarsi solidali con chi è d’accordo è fisiologico. A maggior ragione se viviamo in un’epoca di infodemia, ovvero nel bel mezzo di un abnorme flusso di informazioni di cui non è facile vagliare l’attendibilità. L’infodemia recente su pandemia e guerra ci ha dato la misura di quanto sia difficile per chiunque barcamenarsi in questo sovraccarico di notizie, tweet e video. A meno che non viviate di certezze, chi negli ultimi anni di guerra e pandemia non ha avvertito uno spaesamento in cui si affermava tutto e il contrario di tutto?
Beninteso, il complottismo non è nato con internet. Appare indubbio che i nuovi media abbiano contribuito all’allargamento di chi può produrre, diffondere e ricevere informazioni. L’intelligenza artificiale sta facendo passi da gigante. Non ci siamo però preoccupati di dotare i nuovi utenti degli strumenti necessari a maneggiarle con cura. Dotare tutti di cellulari è stato come permettere a chiunque di diventare giornalista. Oppure, con una metafora più concreta, come dotare qualsiasi persona di qualunque età, di un camion, senza fargli passare l’esame della patente. I danni che questa persona può provocare con la diffusione di fake news sono giganteschi. Se alcuni ricercatori sostengono che le teorie del complotto siano fiorite soprattutto nell’era di Internet (Morello, 2004), altri obiettano che non ci sarebbero prove che le persone siano più inclini al pensiero cospirativo di quanto non fossero prima dell’invenzione di Internet, sostenendo addirittura che il picco di cospirazionismo si sarebbe osservato negli anni Cinquanta (Uscinski et al., 2018; Klein et al., 2018). Tuttavia, la ricerca indica il ruolo cruciale di Internet nella promozione di comunità online distinte e polarizzate (Bessi et al., 2015) che sono il terreno ideale per la diffusione di verità alternative. Se l’arrivo dei cellulari e di internet potrebbe non essere la causa principale della disinformazione e dell’incomprensione delle informazioni, potrebbe comunque averla indirettamente amplificata.
L’approccio cognitivista degli studiosi parte da un presupposto arrogante. Sostiene che alcuni pensino correttamente e altri in maniera difettosa. Non è proprio così. Le ricerche recenti hanno portato a risultati piuttosto contradditori quando hanno cercato di individuare un profilo tipo del complottista secondo variabili socio-demografiche (età, sesso, categorie socio-educative) e tratti della personalità.⁸ Una maggiore propensione al complottismo sarebbe associata a livelli inferiori di istruzione, ma sarebbe fuorviante ritenere la questione educativa come l’unica causa. La mentalità complottista sarebbe collegata infatti anche ad alcune componenti psicologiche e sociali come bassa autostima, narcisismo (Cichocka et al., 2016), ansia, incertezza (van Prooijen, & Jostmann, 2013; Douglas et al., 2019), ed è maggiormente presente in chi subisce asimmetrie di potere in quanto gruppi vulnerabili che cercano di gestire i pericoli percepiti (Uscinski & Parent, 2014). Questo elemento ci aiuta a capire che considerare il complottismo come causato da motivi cognitivi non è solo un’interpretazione parziale e scorretta, ma è anche una lettura possibile solo da parte di chi vive una posizione di privilegio. Ad esempio, le persone in condizioni di vita più difficili, che