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Non lasciarmi: Numaparasi
Non lasciarmi: Numaparasi
Non lasciarmi: Numaparasi
E-book194 pagine2 ore

Non lasciarmi: Numaparasi

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Info su questo ebook

L'amore è un usuraio di sentimenti, è uno strozzino, guai a cadere nelle sue grinfie. È una sanguisuga che ti spinge a vaneggiare la felicità sotto un treno in corsa. Ma è anche un miraggio che ti spinge a sognarlo quando non l'hai. E allora l'amore diventa una sirena che ammalia, un kraken che trascina nei suoi abissi accarezzando e ghermendo le vittime con i suoi lunghi tentacoli: la gelosia, il desiderio, la mancanza, la ripicca, la dipendenza emotiva.
ROMANZO TERZO CLASSIFICATO A R come ROMANCE 2022
LinguaItaliano
Data di uscita26 lug 2023
ISBN9788893472234
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    Anteprima del libro

    Non lasciarmi - Riccarda Riccò

    cover.jpg

    Riccarda Riccò

    NON LASCIARMI

    NUMAPARASI

    Prima Edizione Ebook 2023 © R come Romance

    ISBN: 9788893472234

    Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione

    img1.png

    www.storieromantiche.it

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave 60

    41121 Modena – Italy

    romance@loggione.it

    http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it

    img2.jpg

    La trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.

    Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.

    Riccarda Riccò

    NON LASCIARMI

    NUMAPARASI

    Romanzo

    Indice

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

    9

    10

    11

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    13

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    49

    50

    L’autrice

    Catalogo

    "Così partiamo, partiamo che il tempo

    potrebbe impazzire

    E questa pioggia da un momento all’altro

    potrebbe smettere di venir giù"

    (Francesco De Gregori)

    1

    Sofia tornò a guardare il gocciolamento della flebo, la sacca trasparente di liquido fisiologico, il tubicino che prima di terminare nell’ago cavo infilato nella sua vena sul dorso della mano sinistra si stringeva, prima in una specie di morsetto, poi in un connettore finale.

    Di nuovo il deflussore, una goccia alla volta; ne ascoltò il rumore tic, tic, tic, tic, cadenzato e rassicurante come un vecchio orologio di sua nonna.

    E la macchia di sangue scuro coagulato sotto al cerotto appiccicato al braccio, meno rassicurante.

    Poi riguardò la sala d’attesa, il distributore di bevande, il tavolino di vetro con sopra tanti opuscoli sul cuore, tanti cuori rossi su quei dépliant, la sua amica Chicca sorridente che faceva Ciao, un attaccapanni nell’angolo, due sconosciuti con i cellulari in mano, il faccione in primo piano di Gianguido che sbocciava un mezzo sorriso.

    Ancora i due sconosciuti, velocemente, ancora la Chicca che mandava un bacio, una donna al distributore che aspettava la bevanda, il ronzio della bevanda in preparazione e infine Brenno, il Lupo, in disparte, serio, in piedi contro il muro, lo sguardo in basso.

    Un secondo su Brenno e niente più.

    Sofia riaprì il primo filmato, quello della flebo. Lo riguardò velocemente, lo chiuse. Aprì di nuovo quello della sala d’attesa, che le aveva mandato Gianguido sul cellulare.

    Lei aveva pensato che fosse assurdo che lui e la Chicca sorridessero come se fossero a un aperitivo, mentre lei aveva appena avuto una lavanda gastrica e una somministrazione di carbone a dosi ripetute. Neanche le avesse letto nel pensiero, Eravamo tranquilli perché i medici ci avevano detto che il trattamento precoce aveva evitato le fasi letali dell’avvelenamento le aveva scritto subito dopo avere inviato i filmati.

    E allora perché Brenno non rideva per niente, ma anzi aveva l’espressione di uno che va al capestro? In quel secondo in cui era stato ripreso, sembrava un Lupo messo alla forca.

    Riaprì il secondo video, fermò il filmato su quel secondo di Brenno e fece uno screenshot. Nonostante la faccia provata, aveva sempre un grande fascino. Almeno avrebbe potuto guardare la foto tutte le volte che voleva, almeno avrebbe potuto guardare una foto, almeno avrebbe potuto ricordarlo così, per sempre. Almeno.

    Sofia riaprì il secondo filmato, sentendosi come una di quelle anziane che ripetono le stesse cose mille volte.

    Sì, era vero quello che Gianguido le aveva detto. Grazie al ricovero immediato si era scongiurata la sindrome falloidea, i gravi stati di disidratazione con squilibri elettrolitici, l’insufficienza epatica e renale, la sofferenza cerebrale. Non c’era stato bisogno di emodialisi per filtrare le scorie metaboliche. Era bastata la lavanda gastrica e una buona idratazione, anche perché alla fine di amanita ne aveva ingoiata ben poca.

    Se Brenno non fosse arrivato a salvarla lei sarebbe stata spacciata, anche perché quella donna malefica di Isabel era molto più alta e possente di lei, quindi, veleno fungino o no, l’avrebbe comunque facilmente soffocata.

    A che punto poteva portare la gelosia, quella figlia malsana ma potente dell’amore, capace di accecare gli occhi e la mente di chi colpiva. A quali conseguenze. Isabel ne era un esempio lampante: ammalata di Brenno al punto da volere uccidere chi poteva portarglielo via.

    Ma lei, Sofia, la vittima designata, doveva essere felice perché era ancora viva, era stata fortunata, sfacciatamente fortunata, come le aveva detto sua madre. Sua madre... manco si era presentata in ospedale... una volta avvisata di quanto accaduto e che sarebbe bastato poco per rimetterla in piedi, le aveva giusto fatto una telefonata con la voce contrita e poco convincente. Suo padre non c’era e forse non aveva neanche saputo cosa fosse successo. In compenso i genitori di Gianguido erano andati a trovarla nei pochi giorni in cui era rimasta sotto osservazione in ospedale, portandole un mazzo di rose azzurre e una scatola di cioccolatini. Sei come nostra figlia avevano detto, sarai la moglie di Gianguido e sei come nostra figlia.

    Lei non aveva detto niente. Li aveva guardati dal letto bianco del Policlinico, come se fosse stata su una nuvola in cielo, il mondo sotto, piccolo e lontano.

    Erano passate più di due settimane e Sofia sfacciatamente fortunata non si sentiva per niente. E neanche solo fortunata. Non aveva più rivisto Brenno, come aveva promesso in punto di morte. Aveva rinunciato a lui per sempre, in cambio della salvezza e della vita, e questa privazione la faceva sentire morta. Si sentiva addosso tutta l’inutilità della sua esistenza e il futuro lo viveva come l’attesa del secondo tempo di un film che ti fa schifo, quelli che non sai se augurarti che migliorino, o sperare che siano uguali all’inizio, per alzarti e uscire dal cinema.

    Non aveva raccontato a nessuno del suo fioretto fatto in punta di morte. Fioretto. Un piccolo segno di devozione, un sacrificio, una rinuncia, un voto a Dio: rinunciare a Brenno Capedri detto il Lupo, in cambio della salvezza.

    Ma il fioretto era anche l’arma da punta con cui si tira di scherma, il bottone posto in cima alla spada.

    Sofia sentiva il suo cuore trafitto, su un tavolo, sbattuto lì senza vita, come quei cuori nelle foto dei dépliant in sala d’aspetto.

    Senza entrare troppo nei particolari, quella storia del voto a qualcuno l’aveva raccontata, in realtà: alla Chicca che le aveva fatto una risata in faccia, e Sofia non se lo sarebbe aspettato, perché si professava cattolica e praticante tanto quanto lei.

    Vivi la tua storia con il Lupo, non pensarci le aveva detto più di una volta, Stai insieme al Lupo, mettiti con lui, rivoluziona la tua vita, quello che conta davvero è l’amore, tu con lui sei felice come io non ti ho mai vista.

    Sofia era un po’ sorpresa, perché da un consiglio di piccola avventura per non pensarci più, come le aveva detto all’inizio, la Chicca adesso insisteva per una storia vera, lunga e ufficiale con Brenno Capedri, il Lupo. Non era da Chicca, sempre molto razionale e venale. Tante volte le aveva enumerato tutti i pro dello stare insieme a Gianguido Ferrari Cocchi, figlio del prefetto, la posizione economica, l’inserimento in società, le conoscenze giuste. Era Gianguido l’uomo giusto per lei, le ripeteva. Adesso sembrava invece allontanarla dal suo fidanzato, spingerla di nuovo in montagna, in quella casa sperduta di Capedri, sulle pendici dell’Appennino tosco-emiliano dove aveva soggiornato qualche volta durante la sua supplenza a scuola.

    Sofia capì che in questo modo la Chicca dimostrava una vera amicizia e che era l’unica a pensare al suo bene e alla sua felicità.

    2

    Gianguido Ferrari Cocchi era felice. Tutto era tornato alla normalità come piaceva a lui, cioè come doveva essere: Sofia era di nuovo da lui. Forse non come prima, anzi di sicuro in modo diverso, perché quella che aveva davanti era una donna cambiata. Gianguido non sapeva esattamente cosa le fosse successo, anche se qualche forte dubbio l’avesse. Una trasformazione così intensa spesso avveniva quando c’era di mezzo l’amore.

    Ci aveva pensato tanto, tutte quelle notti in cui non riusciva a dormire, rigirandosi nel letto, mentre non sapeva bene dove lei fosse. Cercava allora di scacciare le idee più fantasiose, accendendo la lampada e mettendosi a leggere qualche thriller.

    A volte invece, soprattutto quando la mattina dopo aveva qualche udienza in tribunale e doveva svegliarsi presto con la mente lucida, cercava il sonno in qualche goccia di En, come era successo la sera prima.

    Si fermò al rosso del semaforo e si guardò nello specchietto. Si accarezzò il mento liscio di rasatura, si passò le mani sui capelli castani chiari tagliati di fresco, illuminati dal sole mattutino. Mise a posto i polsini della camicia in modo che spuntassero le iniziali ricamate del suo nome. Nonostante le benzodiazepine aveva un bell’aspetto e si sentiva vincente.

    Gli tornò in mente quando Sofia aveva cercato in tutti i modi di parlargli e lui non aveva neanche voluto sentire, ma per contro le aveva regalato un anello in oro bianco con solitario, dicendole che avrebbero parlato più avanti. Figurarsi se a lui andava di ascoltare chissà quale inutile e sicuramente patetica confessione, chissà quale storiella da rotocalco rosa. No. Non aveva nessuna importanza stare a rimuginare su cosa o chi, il fine ultimo era di avere Sofia con lui.

    Come in un processo legale quello che non bisognava perdere di vista era il risultato finale, tutto il resto era un percorso che poteva riservare colpi di scena, prove fatte scivolare fuori dalla manica all’ultimo momento, testimoni imprevisti. Ma l’importante era vincere, e lui aveva vinto. Non voleva tornare a scartabellare tra le pieghe della sua storia per capire perché e percome.

    La causa l’aveva vinta lui, come sempre accadeva.

    Lui e Sofia si sarebbero sposati, finalmente, e avrebbero incarnato la perfetta famiglia altolocata di una cittadina ricca della motor valley. Lei era la moglie ideale, senza tante sfumature rock che sembravano andare tanto di moda, ma allo stesso tempo capace di farlo sentire sempre anticonformista al punto giusto, a proprio agio, sempre adatta, mai sopra le righe.

    Nell’ultimo periodo aveva dato senza dubbio prova di svariati squilibri con quella storia della supplenza in quel posto assurdo di cui lui non aveva nemmeno mai voluto ricordare il nome, ma ormai era una parentesi finita, andata, faceva parte del passato. E il passato non esiste più. Inoltre, cosa mai poteva significare un piccolo incidente di percorso, una cotta passeggera, volendo esagerare, una notte in un letto sbagliato? Un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più. Figurarsi se uno come lui doveva stare a sindacare su un dettaglio così ininfluente di fronte a una vita intera di coppia che si sa, è e sarà molto lunga, con tutto quello che questo comporta.

    Sofia era stata di certo sviata da qualche paesaggio o personaggio montano che nulla aveva a che fare con il loro mondo e i loro interessi. Gli era bastato dare un’occhiata a quel soggetto di dubbia origine che aveva bofonchiato un nome impronunciabile, per capire con quale fauna la sua fidanzata si fosse scontrata ultimamente.

    Brando? Brendo? Brenno? Un Bruto che almeno aveva avuto la prontezza di chiamare l’elisoccorso per portare in salvo la sua Sofia.

    Che cosa fosse successo a quest’ultima, perché si trovasse in un bosco a ingoiare dei funghi velenosi, perché fosse stata messa in salvo proprio da quel selvaggio con gli scarponi e i tagli in faccia, gli interessava relativamente. Tutto faceva di sicuro parte dell’intreccio di quel film di dubbio gusto che Sofia aveva vissuto in quel luogo ridicolo degli Appennini.

    Gianguido ingranò la marcia della sua Porsche Cayenne e si diresse verso il tribunale. Guardò il grosso orologio che aveva al polso e dopo circa dieci minuti parcheggiò di fronte al solito bar. Respirò forte l’aria calda musicata dal tubare delle tortorine. Amava Corso Canal Grande, i suoi imponenti palazzi, il teatro comunale Luciano Pavarotti. Amava Modena e i suoi tempi cadenzati di città borghese.

    Aveva tutto il tempo per fare una colazione leggera e sostanziosa prima di varcare l’aula. Salutò un paio di colleghi che stavano fumando sotto il portico, diede una pacca sulla spalla di un avvocato amico che stava uscendo dal locale con un ehilà vecchio e ordinò al barista spremuta d’arancia, yogurt greco e croissant ai cereali. Infine fece uno strappo alla regola concedendosi anche un pezzo di bensone. Seduto al tavolo diede un’occhiata veloce ai titoli del Carlino, sfogliò la Gazzetta dello Sport, controllò sul cellulare le ultime mail arrivate e aprì whatsapp scorrendo i vari ultimi messaggi per fermarsi sul profilo di Sofia.

    Aveva effettuato l’ultimo accesso la sera prima, tardi.

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