Lord Byron. Lezione d’amore
Di Cloe Incanto
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Anteprima del libro
Lord Byron. Lezione d’amore - Cloe Incanto
Cloe Incanto
Lord Byron
Lezione d’amore
Prima Edizione Ebook 2017 © R come Romance
ISBN: 9788893470872
Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione
www.storieromantiche.it
Edizioni del Loggione srl
Via Paolo Ferrari 51/c
41121 Modena – Italy
romance@loggione.it
http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it
Cloe Incanto
LORD BYRON
LEZIONE D’AMORE
INDICE
CAPITOLO II
CAPITOLO III
CAPITOLO IV
CAPITOLO V
CAPITOLO VI
CAPITOLO VII
CAPITOLO VIII
CAPITOLO IX
CAPITOLO X
CAPITOLO XI
CAPITOLO XII
CAPITOLO XIII
CAPITOLO XIV
CAPITOLO XV
CAPITOLO XVI
CAPITOLO XVII
CAPITOLO XVIII
CAPITOLO XIX
CAPITOLO XX
CAPITOLO XXI
CAPITOLO XXII
CAPITOLO XXIII
CAPITOLO XXIV
L’autrice
Catalogo
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CAPITOLO I
Bologna, 9 agosto 1819
Rosa scostò le tende per aprire le finestre e cambiare l’aria nella stanza.
Il cliente che la occupava fino a un’ora prima aveva l’abitudine di fumare sigari e aveva impregnato, con il loro odore acre, anche le stuoie del pavimento oltre alle tende.
«Per fortuna è bella stagione, e se laviamo le tende e strigliamo bene le stuoie si asciugheranno in fretta» disse rivolta a Filomena che stava togliendo il copriletto e i lenzuoli dal letto.
«Anche le coperte puzzano» constatò Filomena, storcendo il naso.
«Cosima ha detto che vuole veder brillare questa stanza come un diamante» le ricordò Rosa, iniziando a pulire le stuoie.
«Non ho mai visto un diamante in vita mia» rise Filomena.
Cosima era la signora delle serve
, come la chiamava Mariano, il responsabile dell’albergo. Dal suo umore volubile dipendeva il loro destino. Sofia, una ragazza che veniva dalla campagna e lavorava all’albergo Pellegrino da alcune settimane, era stata mandata via in malo modo, con due ceffoni ben assestati da Cosima, il giorno prima. La signora delle serve
sosteneva di aver sorpreso Sofia a rubare.
Rosa sospettava fossero invece state l’insolenza della ragazza e quell’aria di sfida con cui guardava Cosima ad aver segnato il suo destino.
«Ti aiuto» Filomena si chinò accanto a Rosa e iniziò a strofinare le stuoie con vigore.
«Vedrai che Mariano darà la stanza a qualche giovanotto di passaggio» disse Rosa. «È la stanza più piccola dell’albergo e bisogna fare troppe scale per arrivarci e poi è lontana dalle altre. Le signore non la vogliono perché non possono vedere cosa fanno gli altri ospiti dell’albergo.»
Filomena rise e strofinò a lungo un punto particolarmente sporco nell’angolo di una stuoia. Nel farlo, mise in mostra una parte del suo collo.
«Hai una macchia rossa» disse Rosa, toccando l’amica.
Filomena allontanò la mano di Rosa e cercò di coprirsi con la maglia sdrucita.
«Quel vecchio voglioso» sbuffò, «se mia madre se ne accorge mi fa legnare da mio fratello Ernesto.»
Rosa guardò l’amica, provando un misto di tenerezza e rabbia. Conosceva quella ruga profonda che solcava la fronte di Filomena. Si formava quando era terrorizzata, come adesso, all’idea che la madre capisse la natura di quella macchia.
Rosa e Filomena si conoscevano da sempre. Nate e cresciute a Borgo San Pietro, avevano giocato nelle altane, fra panni stesi e polvere.
Filomena era l’unica femmina di un nugolo di figli che i Neri avevano sfornato con continuità, per dieci anni consecutivi.
Avevano smesso solo perché il padre era finito in carcere per aver picchiato a sangue e ridotto in fin di vita un facchino durante una rissa esplosa davanti al Palazzo della Zecca.
«Come genitori ho dei conigli» ringhiava Filomena, che non si rassegnava alla miseria più nera.
Ora poi che si erano dovuti trasferire, dopo l’incarcerazione del padre, a Borgo Pratello, Filomena cercava con ogni mezzo di raggranellare denaro per tornare nell’unico posto che considerava casa, Borgo San Pietro, e trovare un giovane che non passasse tutto il tempo in osteria a ubriacarsi e avesse voglia di lavorare.
«E sposarmi, senza fare la coniglia» aggiungeva Filomena, ridendo sguaiatamente.
Rosa e Filomena non avrebbero potuto essere più diverse. Non solo fisicamente.
Filomena era di costituzione robusta, con seni grossi e occhi neri tondi. Rosa era bionda, esile, con gli occhi azzurri e un naturale portamento altezzoso, che sapeva mascherare bene all’occorrenza, come con Cosima.
A Borgo San Pietro si mormorava che il padre fosse un ufficiale napoleonico di stanza a Bologna durante l’occupazione francese.
Rosa non aveva mai conosciuto il padre. Quando era nata, il suo presunto padre era già tornato in Francia e di lui non si era più saputo nulla.
Sua madre l’aveva svezzata sulle sponde del torrente Aposa, dove lavava i panni per i ricchi della città.
Da quando era nata ed era stata in grado di capire, la madre rompeva i suoi lunghi silenzi, inframezzati da borbottii, per ricordarle di tenere le gambe chiuse
e stare lontana dai libri
, che considerava uno strumento del diavolo.
«Rosa, mi hai sentito?»
Rosa si riscosse e fissò Filomena che stava rincalzando il lenzuolo sotto il materasso.
«Devo coprire la macchia, se mia madre la vede mi uccide» ripeté, con occhi supplici.
«Per la tua macchia mi è venuta un’idea, ma prima finiamo di pulire la stanza, altrimenti chi la sente Cosima.»
Filomena la gratificò di un sorriso speranzoso e si diresse verso il pitale.
Sapeva quanto la sua amica odiasse occuparsene.
Filomena voleva bene a Rosa e le era riconoscente. Sapeva che aveva avuto il lavoro all’albergo Pellegrino per merito di Rosa, che aveva tessuto le sue lodi. Sapeva essere convincente la piccola Rosa, senza alzare la voce.
Quello che guadagnavano però non bastava alla sua famiglia e per il progetto che le stava a cuore: tornare a Borgo San Pietro e sposare un bravo giovane. Per questo doveva sottostare alle voglie di vecchi viziosi. Pagavano bene, anche se giacere con loro era piacevole come vuotare pitali.
Filomena continuò a strofinare ogni angolo della stanza fino a quando brillò, come voleva Cosima la signora delle serve
.
Filomena e Rosa ammucchiarono le tende e i lenzuoli in un angolo della stanza.
«Li prendiamo dopo» disse Rosa, aprendo la porta e sbirciando sul pianerottolo per accertarsi che non ci fosse nessuno.
Non c’era nessuno, raramente saliva qualcuno fin lassù. La camera era isolata dalle altre e angusta.
«Scendiamo al piano di sotto» mormorò Rosa, «la camera della contessa Murial è la seconda a destra. Sono sicura che ha quello che ci serve per nascondere la tua macchia.»
Scesero le scale, attente a non fare rumore.
Arrivate davanti alla camera della contessa Murial, Rosa sussurrò all’orecchio di Filomena: «Aspettami qui, se arriva qualcuno avvertimi con due colpi alla porta.»
Filomena annuì, mentre Rosa sgattaiolava nella stanza. Sentiva i rumori arrivare attutiti dai piani inferiori: stralci di conversazioni, di cui non riuscì ad afferrare il senso, risate sommesse, rumore di piatti.
Pochi minuti