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Ed è di nuovo estate
Ed è di nuovo estate
Ed è di nuovo estate
E-book171 pagine2 ore

Ed è di nuovo estate

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Info su questo ebook

La magia dell’estate che arriva ogni volta come un dono apre la porta all’amicizia tra due ragazzine: Nennella e Malietta. Sono gli anni Sessanta, in un paesino campano in riva al mare arriva una famiglia povera, le bambine della casa di fronte accolgono festose i nuovi venuti. Si forma così una banda di ragazzi che cominceranno a crescere insieme tra corse dietro l’aquilone e giochi sulla spiaggia. Nennella e Malietta molto diverse caratterialmente vivono entrambe la mancanza di una figura paterna. Nennella cerca di aiutare l’amica in ogni modo possibile, insieme affidano alle stelle i loro sogni e si confidano i loro primi amori, ma saranno poi quelli giusti… lo scopriranno crescendo in un’amicizia che rimarrà nel tempo a consolidarsi ogni estate. 
LinguaItaliano
Data di uscita7 gen 2023
ISBN9788893472333
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    Anteprima del libro

    Ed è di nuovo estate - Liliana Tuozzo

    cover.jpg

    Liliana Tuozzo

    ED È DI NUOVO ESTATE

    Prima Edizione Ebook 2023 © R come Romance

    ISBN: 9788893472333

    Immagine di copertina su licenza Adobestock.com, elaborazione Edizioni del Loggione

    img1.png

    www.storieromantiche.it

    Edizioni del Loggione srl

    Via Piave 60

    41121 Modena – Italy

    romance@loggione.it

    http://www.storieromantiche.it e-mail: romance@loggione.it

    img2.jpg

    La trama di questo romanzo è frutto della fantasia dell’autore.

    Ogni coincidenza con fatti e persone reali, esistite o esistenti, è puramente casuale.

    Liliana Tuozzo

    ED È DI NUOVO ESTATE

    Romanzo

    INDICE

    1

    2

    3

    4

    5

    6

    7

    8

     9

    10

    11

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    13

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    28

    29

    30

    L’autrice

    Catalogo

    1

    I nuovi vicini

    La vecchia palazzina di Via Marconi stava per essere di nuovo aperta. Ogni volta che, nella casa di fronte alla nostra, venivano ad abitare nuovi inquilini, io e mia sorella Sisina speravamo che ci fossero dei bambini della nostra età, con cui poter giocare.

    Seminascoste dietro i cespugli di gelsomini, che delimitavano casa nostra, spiavamo il movimento in strada.

    L’abitazione era stata imbiancata di recente, quindi era prevedibile che, da un momento all’altro, qualcuno sarebbe arrivato. La costruzione non era molto grande e comprendeva un unico piano. In compenso, però, aveva due entrate: un grande portone di colore marrone, che affacciava sul vicolo, a cui si accedeva tramite una breve scalinata e una porta laterale che sbucava in un giardino con poche piante. Il tutto rinchiuso in un cancello, sigillato con catena e catenaccio.

    Oltre quell’inferriata c’erano i palloni che finivano lì dentro, quando i ragazzi giocavano, e che non si potevano recuperare se non scavalcando le sbarre del cancello. Mia madre però aveva vietato ai miei fratelli e a mio cugino di farlo e quando lei stabiliva una cosa: era legge.

    Tutto era avvolto nel silenzio, come sempre.

    Ma quando arrivano questi vicini… pensavo.

    Stavamo quasi per rientrare, quando finalmente vedemmo un furgone bianco seguito da una vecchia 500 che si fermarono proprio accanto alla casa di fronte.

    Riprendemmo subito la nostra postazione, rimanendo a guardare.

    Un via vai di gente che trasportava mobili, casse e scatoli di varie dimensioni. Dall’auto scesero, prima un uomo e poi uno alla volta quattro bambini e infine una donna col pancione.

    Nascoste dietro i cespugli di gelsomino, rimanemmo, a lungo, a guardarli, mentre scaricavano le loro cose.

    Una ragazzina bionda andava avanti e indietro, trasportando buste e borsoni. Ogni tanto aiutava la madre, col grosso pancione, che faceva fatica nei movimenti.

    «Malietta» diceva la donna, chiamandola ogni momento, «piglia puro chesto!¹»

    Gli altri bambini, quasi tutti biondi come la prima, in piccola processione contribuivano al trasloco secondo le proprie forze.

    Quello che doveva essere il più piccolo, col moccio al naso e le ginocchia sbucciate, se ne stava seduto su un gradino davanti al portone di casa.

    Giocherellava con qualsiasi cosa gli capitasse a tiro: un vecchio pupazzo, una pantofola, caduta dalla borsa della madre, un tappo di plastica.

    «Tummasì, statte fermo nu poco!» lo ammoniva la madre, «… e lievete a miezo, ca me fai cadè²»

    Il padre, mingherlino e piccolo di statura, con l’aiuto di due uomini, organizzava il trasporto del mobilio, ammassato sul furgone.

    Era tutta roba che aveva bisogno di essere sistemata. Gli sportelli di un mobile non chiudevano bene e sbattevano, ripetutamente, nel trasporto, sembrava che suonassero.

    «Chiano» disse lui, «che chesso addà campa’ n’at’ dieci anni.³»

    I facchini risero sotto i baffi, ma lui era così contento, che non colse la loro ironia.

    Tutti, in verità, mostrarono entusiasmo per la nuova casa.

    «Mammà comm’è bella!» disse la bimba, con le treccine bionde, uscendo dal portone e dirigendosi verso la madre.

    La donna, che indossava le ciabatte, trascinava le gambe gonfie e, ogni tanto, carezzava il pancione sorridendo e sbuffando.

    Sembrava una ragazzina, con i capelli tagliati corti e il vestito che si sollevava un po’, al di sopra del ginocchio, quando camminava.

    «Vatte a riposà. Mò, ce penzo je⁴» disse la figlia maggiore.

    La madre annuì e lentamente salì i gradini.

    Quando il furgone del trasloco, finalmente, ripartì, vuoto, i nuovi inquilini erano tutti entrati nella loro casa.

    Come al solito, nostra madre cuciva, accanto alla finestra aperta, nel suo laboratorio di sartoria, che affacciava sul cortile, dove c’era sempre luce. Ci precipitammo da lei, contente ed eccitate.

    «Mammà, hai visto? Sono venuti dei bambini nella casa di fronte. Perché non prepari una pizza, come sai fare tu? Così gliela portiamo e gli diamo il benvenuto.»

    Lei sorrise, accennando di sì con la testa. Accantonò il suo lavoro e andò in cucina a impastare la farina, con quell’arte napoletana che aveva ereditato dalla nonna e che rendeva speciale un alimento, che piaceva a tutti e riempiva la casa di festa.

    Quando tutto fu pronto, ci chiamò: «Nennella, Sisina, vogliamo andare?»

    Poi si guardò intorno: «Chiama pure tuo fratello, così viene pure lui» mi disse, prima di uscire di casa.

    Pasqualino il più piccolo della famiglia giocava, in cortile, con un vecchio camioncino di plastica.

    Lo chiamammo. Mia madre gli ordinò di lavarsi le mani e poi ci incamminammo.

    Lei con la teglia in mano ancora calda e noi tre, dietro di lei, salimmo i gradini e bussammo al portone della casa di fronte.

    Venne ad aprirci la ragazzina più grande… quella che la madre aveva chiamato Malietta. Ci guardò sgranando gli occhi. Aveva un grembiule legato in vita, evidentemente, stava riordinando la casa.

    «Siamo le vostre vicine» disse mia madre, «tua mamma ci sta’… volevamo darvi il benvenuto.»

    Attratti dall’odore della pizza tutti i ragazzini, svelti, si affacciarono sull’uscio. Poi apparve la madre, trascinandosi in piccoli passi attraverso la stanza e disse tutta festante: «Trasise, trasite… accomodatevi. Io so’ Carmela.⁵»

    «Io sono Ninetta, queste le mie figlie Nennella e Sisina, e lui è Pascalino» disse mia madre, facendo le presentazioni.

    La donna preparò le sedie per noi e, in seguito alle sue insistenze, sedemmo.

    Mentre Carmela divideva la pizza ci raggiunse il marito, un po’ imbarazzato: era entrato in canottiera, non pensando di trovare gente.

    «I nostri vicini, Toni’!» ci presentò sua moglie e lui fece un piccolo inchino, scusandosi e andò a rimettersi la camicia.

    Tornò subito e, dal modo in cui divorò il suo pezzo di pizza, capimmo che doveva avere molta fame, come, tra l’altro, avevano dimostrato anche la moglie e i figli.

    Mia madre lanciò uno sguardo significativo a me e mia sorella e, con molto garbo, disse che noi avevamo un’altra pizza pronta, a casa, e che aspettavamo di mangiarla la sera. Per cui tutte rifiutammo l’invito a servirci, accettando solo un bicchiere d’acqua. Tranne Pasqualino che, sebbene mamma lo guardasse storto, prese con piacere il suo pezzo.

    «Stai aspettando tuo marito che viene?» disse Carmela, ancora col boccone da ingoiare.

    «Veramente sono vedova, da quattro anni» rispose mia madre.

    Le risate che avevano cominciato a riempire la casa si spensero all’istante.

    «Scusa» disse la donna e allungò una breve carezza sulla mano di mia madre.

    Le figlie ci guardarono sentendosi quasi in colpa. I due maschietti, invece, insieme a mio fratello, continuavano a mangiare e a rincorrersi attorno alla tavola.

    Per smorzare l’imbarazzo, mamma disse: «Ora sistematevi, siete stanchi. Noi abitiamo nella casa di fronte. Per qualsiasi cosa, se avete bisogno, chiamateci.»

    «Ci vediamo domani. Il pomeriggio dopo aver fatto i compiti, noi siamo sempre nel cortile qui fuori» dissi alle due ragazzine bionde, che annuirono e ci sorrisero.

    Pasqualino non voleva venire a casa, avrebbe preferito andare con i nuovi amici a recuperare i palloni in giardino. Mia madre per convincerlo gli promise di comprargli un pupazzo, che lui desiderava da tempo.

    Quando entrammo in casa, mio fratello cominciò a fare capricci, voleva per forza andare a comprare il giocattolo.

    «Pascali’, quando consegno i vestiti e mi pagano ci andiamo» disse mamma spazientita.

    Lei faceva sacrifici e, sebbene noi fossimo bambini, dovevamo adeguarci alla vita che con fatica riusciva a offrirci.

    Mio fratello maggiore, Raffaele, detto Filuccio, aveva quattordici anni e andava a imparare il mestiere di elettricista e, nello stesso tempo, studiava per prendere il diploma di terza media; per far contenta mamma che diceva sempre: «Po’ sempe servi’!»

    Ero una ragazzina assennata, consapevole della mia condizione di orfana, però paragonata alla ragazzina della casa di fronte mi sentii egoista. Avevo pensato di fare amicizia soprattutto per giocare, invece, avrei dovuto prendere esempio da lei che aiutava la madre e farlo anch’io.

    Da un lato, il mio mondo bambino mi chiamava alla spensieratezza, ma, nello stesso tempo, mi rendevo conto che crescere senza un padre esigeva anche delle responsabilità.

    Quando provai a dire a mia madre che volevo aiutarla, lei si limitò a darmi compiti poco faticosi.

    «Sei ancora piccola, pensa a studia’ e a pazzia’.»

    Mi potevo ritenere davvero fortunata. Avevo per madre una donna d’acciaio, che ci incoraggiava a non rinunciare alla lieta bellezza dell’infanzia.

    Una lacrima scese leggera. Avevo dieci anni e la vita, per me, era ancora una salita da scalare.

    2

    Malietta

    La mattina dopo Carmela arrivò a casa nostra, ansimando e trascinando con sé Tommasino, che, si capiva dalla sua irrequietezza, avrebbe preferito rimanere a casa.

    «Signora Ninè, buongiorno!» disse, massaggiandosi il pancione.

    «Scusa, siccome che non ci siamo ancora sistemati… mica mi puoi dare un poco di latte pe’ ‘e creature» disse mostrando Tommasino.

    «Ma certo!» fece mamma, «te lo prendo subito.»

    Carmela svelta la trattenne per un braccio.

    «Non sia pe’ comando, ma biscotti ne tenete? Chisti tenno fame e je non pozzo ine a fa’ la spesa, vedete come stò⁶» continuò, mostrando il pancione prominente.

    Mamma sorrise e andò a prendere il latte e i biscotti.

    Il piccolo Tommasino non vedeva l’ora di andar via e tirava la madre per la gonnella. Mio fratello, Pascalino, che era appena entrato nella stanza cominciò a fare le smorfie al bambino, che senza scomporsi gli rispose a tono, ripetendo ogni sua mossa.

    Quando mia madre tornò col latte e i biscotti smisero all’istante, però, Tommasino, prima di andar via, si voltò e fece un’ultima boccaccia.

    Io e mia sorella sedute sul divano, avevamo osservato la scena e ci eravamo divertite un

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