Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La ragazza nel giardino del tè
La ragazza nel giardino del tè
La ragazza nel giardino del tè
E-book581 pagine8 ore

La ragazza nel giardino del tè

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller La figlia del mercante di tè

Numero 1 in Inghilterra

Adela Robson è una studentessa che sogna di calcare il palcoscenico, in un’India in cui l’impero è prossimo alla morte. Quando scappa dalla scuola con Sam Jackman, sa che sta andando incontro a una nuova vita. Ma quello che il futuro ha in serbo per lei non è ciò che Adela immaginava. Anni dopo, a Simla, la sede estiva del governo del Raj, Adela può abbandonarsi a ogni tipo di divertimento che la società degli anni Trenta è in grado di offrirle. Ma proprio quando le sue ambizioni sembrano sul punto di diventare realtà, conosce un principe, affascinante ma viziato, e quell’incontro scatena una serie di eventi dalle conseguenze devastanti. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Adela è in Inghilterra, in un Paese in cui ha vissuto da bambina, ma di cui non ha ricordi. La sua vita ormai sembra senza speranza, non ha nemmeno un amore a cui aggrapparsi. E ha un terribile segreto da nascondere. Solo il coraggio e la volontà di resistere la terranno a galla in tempi tanto bui, fino a quando potrà tornare a quella che, almeno nel suo cuore, è la sua vera patria.

La storia di una donna che vive sulla sua pelle l'evolversi del Paese, dal tramonto dell'impero alla seconda guerra mondiale

«Da appassionata di romanzi storici, posso dire che questo ha tutte le caratteristiche che rendono grande il genere. In primo luogo, la magica cornice delle lussureggianti piantagioni di tè. È stato come visitare l’India, circondata dalla sua antica bellezza, vedere l’Himalaya e i luoghi che solo quel Paese può offrire…»

«Ho amato questa storia e i suoi personaggi: forti, appassionati, leali. Una lettura che mi sento di consigliare.»
Janet Macleod Trotter
È cresciuta nel Nordest dell’Inghilterra. È autrice di sedici bestseller, inclusa la popolare Jarrow Trilogy, e di un memoir, Beatles & Chiefs, presentato alla BBC Radio Four. La Newton Compton ha pubblicato La figlia del mercante di tè, finalista al Romantic Novel Award, La promessa sposa del mercante di tè e La ragazza nel giardino del tè.
LinguaItaliano
Data di uscita8 feb 2017
ISBN9788822705044
La ragazza nel giardino del tè

Correlato a La ragazza nel giardino del tè

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica storica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La ragazza nel giardino del tè

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La ragazza nel giardino del tè - Janet MacLeod Trotter

    Capitolo 1

    Shillong, India, 1933

    Adela udì un grido: proveniva dal dormitorio. Si precipitò su per la scala di legno scuro facendo due gradini alla volta e irruppe nella stanza. Un gruppetto di ragazze era raccolto attorno al letto più lontano e ne punzecchiava l’occupante.

    «Devi berlo», ordinò Nina Davidge. «Devono farlo tutte. Il trimestre scorso io ne ho bevuto il doppio».

    «Forza, Flora, bevilo!».

    «Flora puzzolente!».

    «Se non lo bevi, ti chiameremo Stecco».

    «Vi prego, smettetela», piagnucolò Flora Dunlop. «Non ha un buon odore».

    «Non ha un buon odore», disse Margie Munro, scimmiottandone il cantilenante accento indiano. «Quanto sei chee-chee!».

    «È per il tuo bene», insistette Nina, ficcandole l’intruglio sotto il naso. «Altrimenti non potrai essere una di noi. Ti insegneremo come diventare una brava, piccola memsahib e imparare i nostri usi. È per questo che i tuoi ti hanno mandata qui, no? Tenetela ferma, ragazze!».

    Adela rimase lì impalata, con il cuore che le martellava nel petto, mentre le compagne afferravano le braccia pelle e ossa e la lunga treccia della nuova arrivata. Nina mentiva, dicendo di avere bevuto lei stessa quell’intruglio: quando era giunta in quella scuola, all’inizio del trimestre estivo, si era sottratta a ogni tipo di cerimonia di iniziazione. Aveva detto loro che le sue ossa delicate avevano bisogno di caldo, e che quella era l’unica ragione per cui si trovava in quel buco di scuola che era la Saint Ninian, insieme alle figlie di sottufficiali e boxwallah. Altrimenti, a sentire Nina, sarebbe stata in un collegio a casa, in Inghilterra, con ragazze della propria classe sociale. Per Flora sarebbe stato meglio sottomettersi e farla finita; dopodiché magari Nina l’avrebbe lasciata in pace. Ma la ragazza si stava ribellando, divincolandosi per liberarsi, urlando e protestando.

    Margie si accorse di Adela e le gridò: «Ehi, Foglia di Tè! Vieni ad aiutarci».

    Adela fece una smorfia. Fino all’ultimo trimestre, la bella e paffuta Margie, figlia di un sergente dell’esercito, era stata la sua migliore amica. Poi la bella e alta Nina, che invece era figlia di un colonnello in pensione, aveva fatto allegramente capolino, con i capelli biondi raccolti in una lucida coda di cavallo, reclutando Margie perché eseguisse i suoi ordini. Per qualche ragione, a Nina Adela non piaceva, anche se lei aveva fatto di tutto per essere gentile.

    Margie aveva provato a rimanere amica di entrambe, ma quel trimestre aveva iniziato a chiamarla con l’irritante soprannome inventato da Nina, Foglia di Tè, solo perché i suoi genitori gestivano una piantagione.

    Nina si voltò. «Sì, Foglia di Tè. Porta qui il tuo sederino e aiutaci a somministrare a questa stupida paziente la sua medicina».

    Adela esitò. Se si fosse unita a loro, magari poi Nina sarebbe diventata sua amica.

    «No, aiutami!», strillò Flora, lanciandole un’occhiata implorante, gli occhi sbarrati per l’angoscia.

    Adela corse verso di loro.

    «Brava, Foglia di Tè». Nina ridacchiò maliziosa. «Tienile indietro la testa».

    «Da’ qua», disse Adela, afferrando la tazza portaspazzolino piena di un liquido schiumoso che odorava di urina. Non osava nemmeno immaginare che cosa potesse esserci dentro. «Ci penso io».

    Nina rimase così sorpresa che le cedette la tazza. Le altre sghignazzavano, ripetendo: «Giù, giù! Innaffia la Flora! Innaffia la Flora! Innaffia la Flora!».

    Flora Dunlop, che era figlia di un capostazione, la fissava come un cervo terrorizzato preso in trappola. Poi strizzò forte gli occhi, preparandosi al peggio. Adela provò un forte senso di colpa, come la prima volta che aveva sparato a un’antilope con il fucile che suo padre le aveva regalato per il suo undicesimo compleanno. «Non piangere, Adela». Suo padre le aveva asciugato le lacrime. «Nella giungla, ogni animale è una preda».

    Ma Flora non era una preda; quelle tredicenni la stavano prendendo di mira come un branco di sciacalli che fiutavano la debolezza dell’infelice nuova arrivata, e tutto perché sua madre era indiana. Allontanandosi da lei, Adela si girò su se stessa e gettò il disgustoso intruglio addosso a Nina.

    Ci fu un silenzio esterrefatto. Fino a quel preciso istante, la stessa Adela non aveva idea di che cosa stesse per fare. Nina farfugliò scioccata. Le altre allentarono la presa e Flora riuscì a liberarsi. Margie si portò una mano alla bocca per soffocare una risata nervosa.

    Con un’occhiata assassina, Nina si lanciò urlando contro Adela.

    «Ti odio!». Le afferrò la lunga treccia scura e la tirò forte, graffiandole il volto come un gatto selvatico.

    Adela si difese, spingendo Nina sul letto.

    «Ti sta bene», ansimò, mentre si azzuffavano. «Sei solo una prepotente».

    «E tu sei una mezzosangue, proprio come Flora!», urlò Nina, affondandole le unghie nel decolleté. «Non piaci a nessuno. Tua madre è una meticcia e tuo padre un mascalzone!».

    Adela trasalì infuriata. Come osava parlare in quel modo dei suoi genitori? Afferrò le lunghe dita pallide di Nina e vi affondò i denti. La ragazza cacciò un grido assordante, che fece accorrere la giovane responsabile del dormitorio.

    «Che cosa diamine sta succedendo?», chiese la signorina Bensham.

    Le altre ragazze si dispersero, raggiungendo i rispettivi letti. Adela si sollevò giusto in tempo per vedere Flora sgattaiolare fuori dalla stanza senza farsi notare. Nina scoppiò a piangere.

    «Mi ha aggredito», singhiozzò.

    La signorina Bensham si avvicinò agitata. «Ragazza mia, hai i capelli fradici». Arricciò il naso per l’odore acre.

    «È stata lei!». Nina sprofondò nel morbido abbraccio della giovane. «E mi ha m-morso la m-mano».

    «Oh mamma, si vedono i segni dei denti! Adela, è vero?».

    Adela rispose con il silenzio e un’aria di sfida.

    «Ragazze?». La signorina Bensham guardò le altre nella stanza. «Che cosa è successo?»

    «Signorina», disse Margie, «Adela si è semplicemente avventata su Nina».

    «Che cosa ti ha preso?». La giovane donna sembrava profondamente sconvolta.

    Adela esitò. Se avesse fatto la spia su quello che le altre stavano combinando con Flora, loro si sarebbero vendicate. Almeno Flora era scappata.

    «Ha insultato i miei genitori», disse Adela.

    «Non è vero», protestò Nina, gli occhi azzurri pieni di biasimo.

    «Sì che è vero!».

    «Nina, che cosa hai detto?». La signorina Bensham la allontanò a distanza di braccio, osservandola attentamente.

    «Niente, signorina», rispose la ragazza, tirando su con il naso. «Non li conosco nemmeno, i suoi genitori».

    La signorina Bensham sembrava non sapere che cosa fare.

    «Non è colpa mia, signorina», piagnucolò Nina. «Adela ce l’ha con me, perché le dà fastidio che io sia amica di Margie».

    «Dovete essere tutte amiche allo stesso modo, ragazze. Adesso vai a sciacquarti i capelli, Nina, prima del tè. Tutte le altre escano immediatamente dal dormitorio; non dovreste essere qui di pomeriggio». Le ragazze corsero verso la porta. «Tu no, Adela Robson. Tu vieni con me».

    Mentre Adela seguiva la responsabile fuori dal dormitorio, Nina le fece una linguaccia e un gesto volgare che solo lei vide.

    * * *

    Quando si rifiutò di spiegare il proprio comportamento alla signorina Bensham, Adela fu mandata dalla direttrice, la signorina Gertrude Black. Il suo ufficio odorava di lucidante per mobili e fiori: un misto di cera d’api e delle calendule e cosmee selvatiche rosa che si trovavano in un vaso azzurro su una libreria accanto alla porta. Per un istante, il profumo catturò l’attenzione di Adela, che dimenticò perché si trovava lì.

    Non era la prima volta che veniva trascinata davanti alla signorina Black, rossa di capelli e vestita di marrone. Nossignori. Tre anni prima, alla sua prima settimana di scuola, Adela aveva provocato il panico tra le ragazze e il personale portando di nascosto nell’edificio, in un cesto del bucato, il suo cucciolo di tigre, Molly. Quando suo padre era tornato e aveva riportato a casa Molly senza di lei, Adela aveva pianto per ore. Poi c’era stata la volta in cui aveva versato una brocca d’acqua da una finestra del piano di sopra sulla testa di un missionario in visita. Al tramonto, aveva scambiato la figura allampanata per quella di uno degli irritanti ragazzi della Saint Mungo, che si sfidavano di continuo a chi aveva il fegato di tirare sassi alle finestre del dormitorio delle ragazze.

    Senza chiederle di sedersi, la signorina Black la osservò da sopra gli occhiali con la montatura d’osso.

    «Devo dire, Adela, che sono sgomenta, nel vederti ancora una volta davanti alla mia scrivania. E sono ancora più esterrefatta di sentire che questa volta non si tratta solo di problemi causati dal tuo solito entusiasmo, bensì di un’aggressione a un’altra ragazza. È assolutamente inaccettabile. Ho visto i segni dei denti sulla mano di Nina, e sua madre mi ha già telefonato chiedendo la tua espulsione. Dammi una buona ragione per cui non dovrei farlo».

    Adela si sentì bruciare le guance. «Nina Davidge è una prepotente!».

    «Fammi un esempio».

    Adela era sul punto di raccontarle di come Flora stesse per essere costretta a bere la disgustosa pozione, ma si trattenne. Non voleva trascinare la nuova arrivata nel suo litigio con Nina, o la figlia del colonnello se la sarebbe semplicemente presa con entrambe. Flora sarebbe stata convocata e costretta a raccontare tutto su Nina.

    «Dice cose scortesi», rispose Adela. «È stata orribile nei confronti di mia madre e ha chiamato mio padre mascalzone».

    La signorina Black sollevò perplessa le sopracciglia. «Non è certo una cosa carina da dire. Però ricorda il vecchio adagio: Pietre e bastoni possono rompermi le ossa, ma le parole non mi feriranno mai. Non devi essere ipersuscettibile. Parlerò con Nina. Mi aspetto che voi siate d’esempio per le ragazze più giovani. Avete tredici anni e siete alle superiori, adesso, quindi fareste meglio a comportarvi come si conviene alla vostra età».

    La preside si sistemò gli occhiali sul naso. «Nel frattempo, sarai punita per il tuo comportamento che tanto poco si addice a una signora. Non ti sarà permesso partecipare alle partite di hockey del torneo interno delle medie, la signorina Bensham ti assegnerà invece dei lavori extra di cucito. Hai bisogno di un periodo di calma riflessione. Se dovesse succedere di nuovo una cosa del genere», la avvertì la signorina Black, «non esiterò a chiamare i tuoi genitori e ad allontanarti dalla scuola».

    A quella minaccia, a Adela si strinse lo stomaco; se fosse stata mandata a casa con disonore, i suoi ne sarebbero stati molto delusi. Eppure una parte di lei era pronta a sfidare la sorte; niente le sarebbe piaciuto di più che lasciare le rigide regole della Saint Ninian e tornare alla sua amata casa a Belgooree.

    * * *

    Per quanto frustrante fosse la sua punizione – Adela detestava cucire e desiderava solo essere fuori alla fresca aria autunnale – vi si sottopose senza protestare, sperando che i problemi con Nina si sarebbero presto risolti. Forse la figlia snob del colonnello aveva detto quelle cose cattive sui suoi genitori solo nella foga del momento. Adela era sicura che non poteva pensarle, perché non erano vere.

    Ma i problemi non si risolsero. Nina era vendicativa. Adela aveva mal giudicato quanto si fosse sentita umiliata, sia per l’inattesa doccia sia per essere stata pubblicamente trascinata davanti alla signorina Black. La compagna si mise a chiamarla «piccola codarda» e fece in modo che le altre non le rivolgessero più la parola.

    «Non ti parliamo più», le disse Margie, «perché sei stata orribile con Nina».

    «Ma ha cominciato lei», protestò Adela.

    «Non ti sento!», gridò Margie, correndo via e lasciandola a rammendare lenzuola nella sala comune.

    Solo Flora Dunlop le sorrideva cautamente, quando entrava in classe o nel dormitorio, e, una volta che si fu resa conto che Adela non le serbava alcun rancore per l’accaduto, fu felice di parlarle della sua vita in una famiglia di ferrovieri. Suo padre era capostazione presso il trafficato scalo di Sreemangal, nel distretto produttore di tè del Sylhet, e un immigrato scozzese di seconda generazione. Sua madre, invece, proveniva dalla vicina località di villeggiatura montana di Jaflong. Adela li aveva visti scaricare a scuola un’entusiasta Flora, all’inizio del trimestre: un uomo gioviale dal volto rubizzo e una bella donna con un sari verde lime che spiccava come un corvo in un campo di neve, perché nessuna altra madre indossava il costume locale.

    «Sono stata a pescare a Jaflong con mio padre», si illuminò Adela. «È un bel posto, e le barche da pesca sono come gondole… proprio come a Venezia».

    «Sei stata a Venezia?», chiese Flora, strabuzzando gli occhi.

    «No, ma ho visto delle foto. E un giorno ci andrò: viaggerò per tutto il mondo e diventerò una famosa attrice».

    «E come ci riuscirai? I tuoi sono molto ricchi?»

    «No», ammise Adela. Liquidò l’ostacolo con un gesto della mano. «Sposerò un principe o un viceré, e lui mi porterà in giro per il mondo. Trascorreremo le estati in Europa, o magari in America… Sì, avremo una casa a Hollywood, così potrò essere la protagonista degli ultimi film in uscita».

    Flora si mangiucchiava l’estremità della treccia. «Io voglio diventare infermiera e guarire la gente».

    Adela la guardò con commiserazione. «Non riesco a pensare a niente di peggio: tutto quel sangue e dover svuotare padelle e lavare i sederi degli uomini».

    Flora trasalì. «Quello non voglio farlo».

    «Sarai costretta. Il fratello di zia Tilly è un medico e dice che è quello che devono fare le infermiere. Le chiama angeli, ma a mio parere sembra più un lavoro infernale».

    «Adela!».

    «Be’, sto solo dicendo la verità. Credo che dovresti diventare dottoressa, invece, così potrai comandare tutte le infermiere e indossare abiti più belli, e potrai comunque guarire la gente».

    «Non ci avevo pensato». Il volto minuto di Flora assunse un’aria pensosa. «Non penso che le ragazze come me diventino dottoresse».

    «E perché mai? È ovvio che sei intelligente. Sei qui solo da un mese e sei la prima della classe in quasi tutte le materie… Non c’è da stupirsi, se non piaci a Nina la comandina. Era lei la prima in tutto, lo scorso trimestre… Tranne che per il premio di canto, che ho vinto io».

    Adela mise da parte il lavoro di cucito e andò alla finestra. Fuori, le foglie di un grande platano orientale brillavano di un rosso vivo nel tranquillo sole autunnale. Moriva dalla voglia di essere a casa tra i suoi monti, a Belgooree: a cavalcare per la piantagione su Macchia, il suo cavallo pezzato; a sparare alle anatre lungo il fiume con suo padre; oppure, dopo un giro di ricognizione per la foresta di sal, a tormentare Mohammed Din, il loro khansama, per ottenere avanzi di pollo per Scout, il suo cane da montagna. Tutto, pur di non starsene rinchiusa in quella scuola a cucire senza sosta, con tutte a parte Flora, la nuova arrivata, che la evitavano.

    Quanto odiava la Saint Ninian! Odiava le lezioni e il dover star seduta in silenzio a imparare l’algebra e i nomi di re e regine ormai morti da tempo. La scuola era sopportabile solo quando era fuori a correre e praticare qualche sport sul campo da gioco mezzo spelacchiato, o a divertirsi nel boschetto con Margie e le altre. Un tempo faceva ridere l’amica con le imitazioni degli insegnanti. Ma ora lei non le parlava più.

    Adela, in verità, doveva ammettere che le cose con Margie avevano iniziato a cambiare molto prima della lite con Nina. La loro amicizia era stata tiepida per tutto il trimestre. Margie non era andata a stare da lei a Belgooree, quell’estate, come aveva fatto in occasione delle precedenti vacanze; era andata invece a Simla, sui contrafforti dell’Himalaya, con Nina e sua madre. «Siamo state a una festa nel giardino della residenza del viceré», si era vantata, «e Nina ha avuto una parte in una produzione al Gaiety».

    Adela si era consumata d’invidia al pensiero che Nina si fosse esibita su un vero palcoscenico con un pubblico pagante e – se doveva credere a quello che diceva – davanti al viceré in persona! Quella ragazza recitava come una capra. Avrebbe dovuto essere lei, Adela Robson, con la sua bella voce intonata e le sue gambe da ballerina, a intrattenere le persone più importanti d’India, i «divini»: l’élite di funzionari governativi britannici che trascorreva la stagione calda a Simla.

    Ma non sarebbe mai successo, non se continuava a rimanere rinchiusa in un collegio a Shillong. Lì, l’unica opportunità di recitare era nelle rappresentazioni scolastiche, davanti alla direttrice e, occasionalmente, al fratello missionario, il dottor Norman Black, che aveva contribuito a fondare la scuola e veniva a fare da giudice delle competizioni interne… a meno che non fosse via, a diffondere il Vangelo tra i pagani.

    Adela fece un sospiro impaziente. Se solo non si fosse intromessa tra Nina e Flora. Da quel giorno la sua vita a scuola si era fatta assolutamente insopportabile.

    «Tutti i tuoi problemi sono colpa mia. Mi dispiace», si scusò Flora.

    Adela si girò. La ragazza la stava osservando con i tristi occhi marroni.

    «Non devi dispiacerti», disse Adela.

    «Avrei dovuto semplicemente bere quella roba disgustosa e farla finita».

    «No, hai fatto bene. Non è una tradizione… È solo una cosa inventata da Nina. Di solito ci limitiamo a fare il sacco nel letto e a chiudere le nuove arrivate in lavanderia, fingendo che sia stregata».

    «Non importa… Qualunque tradizione andrà bene», concluse Flora, scuotendo la testa. «Voglio solo essere accettata».

    * * *

    «Non c’è nessuna parte, per te», dichiarò Nina inesorabile. «Gira tutto attorno alla regina Elisabetta I e a Maria, regina di Scozia. Io sono Elisabetta e Margie farà Maria. Abbiamo già deciso».

    Adela le guardò sbigottita. Si erano avvicinate al suo banco, sul quale stava combattendo con le equazioni, il suo quaderno un mosaico di buchi nei punti in cui aveva cancellato i calcoli errati. Le altre avevano già tutte finito i compiti e si erano spostate nella sala comune. Margie distolse lo sguardo; persino lei sembrava in imbarazzo.

    «Non è giusto!», protestò Adela. «Non potete semplicemente scegliere le parti migliori: dobbiamo votare».

    «L’abbiamo fatto. Dopo la partita di hockey. Tu non c’eri».

    «Non lo sapevo…».

    «Be’, ora lo sai».

    Adela si sentì d’un tratto piena di rabbia per quell’ingiustizia. Balzò in piedi e afferrò Nina, che stava per andarsene.

    «Perché sei così cattiva?», gridò.

    Nina si irrigidì, come se Adela fosse contagiosa. «Toglimi le mani di dosso, o chiamo aiuto».

    Adela la lasciò andare. «Dimmelo! Perché non possiamo essere tutte amiche?».

    Il volto di Nina si contrasse in una smorfia di disgusto. «Tu non sei come noi; non lo sarai mai. Fingi di essere britannica, ma non lo sei».

    «Certo che sono britannica. Il fatto che sia nata in India non fa di me un’indiana».

    Nina sorrise maliziosa. «Non lo sai, vero, Foglia di Tè? Non posso crederci che nessuno te l’abbia detto».

    «Detto cosa?». A Adela si chiuse lo stomaco. Il luccichio negli occhi azzurro pallido di Nina metteva paura.

    «Ti mancano due anna per fare una rupia… Chiedilo a tua madre». Poi si avvicinò e disse, tra i denti: «E tuo padre è un furfante che ha piantato mia madre all’altare, quindi non sarò mai e poi mai tua amica!».

    Sventolando la bionda coda di cavallo, Nina le voltò le spalle. «Andiamo, Margie, abbiamo le prove».

    Tremando per lo sgomento, Adela le guardò marciare fuori dalla stanza.

    * * *

    Quella sera, Adela non riusciva a prendere sonno, tormentata dalle parole offensive di Nina. Che cosa intendeva dire? «Ti mancano due anna per fare una rupia» era un insulto che si rivolgeva agli euroasiatici – o anglo-indiani, come si definivano ora le famiglie di razza mista, come quella di Flora – ma lei, Adela, non aveva sangue indiano. I Robson erano britannici al cento per cento, e sua madre era figlia di Jock Belhaven, un soldato inglese diventato coltivatore di tè. Quello che la faceva più arrabbiare, in ogni caso, era il commento offensivo su suo padre; lui non avrebbe mai piantato nessuno all’altare e aveva sempre amato solo sua madre. Zia Tilly, che viveva nell’Assam, raccontava come tra i coltivatori di tè fosse risaputo che Wesley Robson adorava la sua Clarissa e aveva rinunciato alla sua carriera alle prestigiose tenute Oxford per gestire la remota piantagione nei monti Khasi solo per compiacere la bella Clarrie Belhaven.

    Il giorno seguente, stanca e irascibile per non avere dormito, Adela affrontò Margie nel bagno.

    «Non crederai a tutte quelle sciocchezze sui miei genitori, vero? Tu li hai conosciuti, Margie. Non hai fatto che dire quanto ti piacessero».

    La ex amica sembrava a disagio. «Non dovrei parlare con te».

    «Margie! Dimmi solo che non credi a Nina».

    Margie la guardò freddamente. «Le credo».

    «Perché?»

    «Perché ho sentito le stesse cose dalla bocca della signora Davidge. Lei dice tutto a Nina».

    «Che cosa ha detto?». Adela le bloccò la strada. «Dimmelo. Ho il diritto di saperlo».

    «Bene», concesse Margie. «Ma poi non dire che non te la sei cercata. La signora Davidge ha detto di essere stata fidanzata con tuo padre e che lui l’ha piantata in asso per fuggire con la figlia meticcia di un boxwallah che era già stata sposata».

    «La figlia meticcia di un boxwallah…?». Adela si sentì mancare il fiato.

    «La signora Davidge ha detto che comunque è stata una fortuna, in quanto lei ha finito per sposare un ufficiale di un prestigioso reggimento Gurkha, invece di ritrovarsi in un angolo sperduto di mondo con un coltivatore di tè senza un soldo».

    Margie spinse via Adela, che la guardò andare via a bocca aperta.

    * * *

    Adela non piangeva quasi mai, ma quel giorno corse al boschetto a sfogarsi dietro il grosso tronco di un pino. Alla fine si accucciò, costringendosi a calmarsi. Si rifiutava di credere alle parole velenose di Margie. Una donna adulta come la signora Davidge di certo non avrebbe detto cose tanto calunniose, soprattutto davanti all’amica della figlia. Aveva intravisto la madre di Nina il giorno della consegna dei premi di merito a scuola: era una donna magra, con un vestitino stretto elegantemente in vita da una cintura e un grande cappello di paglia con un fiocco in tinta posato su una ordinata permanente bionda. Era rimasta tutto il tempo aggrappata al braccio di un uomo molto più vecchio di lei, che indossava un topee in stile militare e una distesa di medaglie, presumibilmente il padre di Nina. Si chiamava Henrietta: Adela aveva sentito quando l’avevano presentata. Aveva un’aria talmente sofisticata che lei aveva provato un colpevole senso di sollievo all’idea che sua madre non si fosse sentita abbastanza bene da fare l’accidentato viaggio di due ore in macchina da Belgooree. Avrebbe indossato uno dei suoi vecchi abiti da tè e un cappello fuori moda, del tipo che nessuno indossava più da prima della Grande Guerra.

    In compenso, dalle tenute Oxford era arrivata zia Tilly con il burbero zio James, e il suo adorato padre era venuto da Belgooree, bellissimo nell’abito di lino bianco completato da un fedora marrone. Adela si era sentita molto orgogliosa nel salire sul podio e ricevere la piccola coppa d’argento per il canto.

    Chissà se suo padre e la madre di Nina si erano parlati, quel giorno? Zia Tilly aveva chiesto di essere accompagnata a visitare la scuola, così Adela non era stata con Wesley tutto il tempo. Il pensiero che suo padre potesse aver provato dei sentimenti per un’altra donna la faceva sentire strana. Sapeva che sua madre era già stata sposata; gestiva una sala da tè a Newcastle e l’aveva chiamata Sala da Tè Herbert, dal nome del primo marito. I genitori di Adela non ne avevano fatto segreto. Ma queste nuove, offensive accuse erano un’altra cosa.

    All’improvviso, fu colta da un bisogno impellente di correre via, di sfuggire alla malignità di Nina e delle sue seguaci, e alle rigide regole del collegio. Aveva nostalgia di casa, delle attenzioni eccessive di sua madre e della compagnia di suo padre.

    «Che cosa fai qui?».

    Sollevando lo sguardo, Adela vide Flora che la scrutava ansiosa. Si asciugò gli occhi.

    «Odio questo posto», ammise. «L’unica cosa che non vedevo l’ora di fare era partecipare alla competizione scolastica di teatro, e ora non farò nemmeno quella. Nina ha detto cose orribili sui miei genitori, e Margie e tutte le altre ragazze mi odiano».

    «Io non ti odio», la corresse Flora, accucciandosi al suo fianco. «Credo che tu sia la ragazza più gentile di tutta la classe… anzi, dell’intera scuola. Non dimenticherò mai il modo in cui hai preso le mie difese.

    Gli occhi di Adela si riempirono di nuovo di lacrime. «Grazie». Fece scivolare un braccio attorno alle spalle ossute della ragazza.

    Flora continuò: «Pensavo che la Saint Ninian sarebbe stata come la scuola nello chalet di quei romanzi che papà mi portava a casa dalla biblioteca: un gruppo di ragazze che vivono insieme un sacco di avventure. Ma non è affatto così, vero?»

    «Non lo so, non li ho mai letti. Però, da come ne parli, non sembra che assomigli alla Saint Ninian. Quando Margie era la mia migliore amica, immagino che non fosse poi così male, ma ho sempre preferito giocare con i maschi. Mio cugino Jamie era un vero spasso… fino a che non è stato mandato a scuola in Inghilterra».

    «In Inghilterra?»

    «Sì, A Durham, nel Nord dell’Inghilterra. Non che io ci sia mai stata».

    Flora la guardò con occhi scuri e solenni. «Sarò la tua migliore amica, se ti va. Non sono carina come Margie e non sono un maschio…».

    Adela scoppiò in una risata nasale. «No, lo vedo che non sei un maschio».

    Flora sghignazzò, succhiandosi i capelli. Adela considerò l’idea. Flora non era timida come sembrava: si era ribellata, quando le ragazze avevano cercato di costringerla a bere la pozione di Nina. Ed era uscita a cercarla, nonostante dovesse sapere che parlare con lei l’avrebbe resa ancora meno popolare agli occhi di Nina e delle altre. Aveva una forza interiore e una gentilezza innata. A Adela la ragazza della ferrovia piaceva sempre di più.

    «Sai cantare e ballare?», chiese.

    Flora sorrise. «Mamma dice che sono il suo piccolo usignolo, e a Sreemangal ho preso lezioni di danza classica».

    «Ottimo». Adela si alzò in piedi. «Iscriveremo un nostro numero alla competizione scolastica. Non c’è niente che lo vieti».

    Flora la guardò a bocca aperta. «Ma che cosa diranno le altre?»

    «A chi importa?», rispose Adela con un sorriso, aiutando la ragazza pelle e ossa ad alzarsi. «La cosa importante è che saliamo su quel palcoscenico e dimostriamo loro che non ci hanno battute».

    Capitolo 2

    «Buongiorno, signore». Sam Jackman diede al dottor Black una forte stretta di mano. Il suo bel volto espressivo sorrise di piacere, sotto un malandato cappello verde alla Buster Keaton portato in modo giocoso molto indietro sulla testa.

    «È stato molto gentile, da parte tua, giovanotto, venirmi a prendere alla stazione», disse Norman Black, felice di vedere il figlio del suo vecchio amico, il capitano di piroscafo Jackman. Il ragazzo era cresciuto, diventando un uomo alto e atletico, e tuttavia i suoi tratti infantili, così come i maliziosi occhi nocciola, strizzati in un sorriso, lo facevano sembrare più giovane dei suoi ventisei anni.

    «Mi ha fatto piacere», disse Sam, prendendo la logora valigia del missionario dal muscoloso facchino che la portava sulla testa e dandogli una mancia come ringraziamento. «E non vedo l’ora di ostentare la mia cinepresa Kodak. Credo che riprendere il lavoro della scuola sia un’idea grandiosa».

    «Be’, il filmato della vita sul fiume che mi hai mandato era fatto così bene», disse Norman entusiasta, «che ho pensato fosse un modo eccellente per aiutare mia sorella a trovare fondi per la Saint Ninian. Ha bisogno di donazioni per coprire le borse di studio delle ragazze svantaggiate.

    Sam sorrise. «Una causa meritevole», commentò, pensando a come il gentile dottore lo avesse aiutato a pagare la sua retta scolastica.

    Fece strada a grandi passi, conducendo il suo vecchio mentore verso un’automobile polverosa: una vecchia berlina aperta che aveva vinto a un coltivatore di tè in una partita a carte tra ubriachi a Guwahati, ma questo il buon dottore non era necessario che lo sapesse.

    La scimmia di Sam saltava su e giù sul sedile del conducente, suonando il clacson.

    «Vedo che Nelson è ancora in forze». Gli occhi infossati e il volto rugoso di Norman tradivano un certo divertimento.

    «Questo è Nelson III». Sam presentò la scimmia. «Il primo Nelson è morto di vecchiaia, mentre il secondo è fuggito con una giovane femmina che aveva la metà dei suoi anni».

    La scimmia strillava per l’eccitazione, cercando di prendere dalla testa del missionario il cappello di feltro scuro. Sam la rimproverò in un colorito indostano, al che l’animale saltò sulla spalla del padrone, afferrandolo per le orecchie.

    Con un forte scoppio dal tubo di scappamento, i due uomini si avviarono su per la tortuosa strada che portava alla Saint Ninian, chiacchierando ad alta voce per sovrastare lo stridio degli ingranaggi e lo sferragliare dell’automobile che arrancava. Sam non vedeva il dottor Black da più di sette anni – il missionario era stato in Scozia per cinque e nel Sud dell’India gli ultimi due – ma gli sarebbe sempre stato grato per la sua bontà. Norman Black si era interessato al suo benessere fin da quando sua madre lo aveva abbandonato all’età di sette anni, separandosi da suo padre e tornando in Gran Bretagna senza di lui.

    «È me e il caldo dell’Assam che non sopporta», gli aveva detto suo padre, «non te, ragazzo». Ma quell’evento aveva capovolto il suo mondo come un terremoto.

    «Mi dispiace che tuo padre sia morto», gridò Norman sopra il motore sotto sforzo. «È stata una cosa molto improvvisa?»

    «Sì», ammise Sam, provando un familiare senso di perdita. «Era una mattina come le altre. Avevamo fatto colazione sulla barca e stavamo guardando il sole sorgere. Papà ha detto che si sentiva girare la testa ed è andato a sedersi un minuto nella timoniera. L’ha trovato Nelson III. Il suo cuore aveva semplicemente ceduto».

    Norman gli diede una pacca sulla spala in segno di vicinanza. «Allora non avresti potuto fare niente, per lui, smettila di sentirti in colpa».

    Sam gli lanciò un’occhiata grata. La capacità del missionario di leggergli nel pensiero era sbalorditiva. Dopo due anni e mezzo, Sam si biasimava ancora per non essere andato a controllare suo padre prima. Era troppo preso dalla stupefacente alba dorata.

    «Grazie», disse.

    Norman cambiò argomento, descrivendo i suoi recenti viaggi e facendo ridere Sam, come ai vecchi tempi.

    Norman Black, che aveva spesso attraversato il Brahmaputra sul Cullercoats, il traghetto dei Jackman, in viaggio verso le famiglie più isolate dei coltivatori di tè per amministrare la sua medicina e una dose di salvezza, era sempre stato uno dei favoriti di Sam. L’uomo non lo aveva mai trattato come una seccatura, come facevano altri adulti. Profondamente ferito per il rifiuto della madre, Sam era sempre stato un bambino difficile e oltremodo turbolento, ma Black era stato paziente con lui, facendolo sentire speciale.

    Era stato grazie alla generosità del dottore che Sam, all’età di dieci anni, aveva ricevuto una buona istruzione. Black l’aveva mantenuto alla Lawrence School, vicino a Simla, nell’Himalaya occidentale – a tre giorni di viaggio da casa – dove il ragazzo era stato felice. Sam aveva rifiutato la disciplina militare, ma aveva sviluppato una passione per il tennis e il cricket ed era stato contento dei propri studi e dell’opportunità di imparare l’agricoltura. Dava una mano in un caseificio locale e andava a Simla a sentire le conferenze sulla rotazione delle colture e la silvicoltura. Avrebbe voluto con tutto il cuore sostenere il concorso per il Servizio civile ed entrare nel dipartimento dell’Agricoltura del governo, ma, a sedici anni, dopo che ebbe preso l’attestato scolastico, suo padre l’aveva richiamato a casa perché lo aiutasse con il traghetto.

    «Mi manchi, ragazzo», aveva detto Jackman. «Potrai fare il contadino quando sarò morto e sepolto».

    Ma, quando l’uomo se ne era andato, più di due anni prima, Sam aveva continuato come sempre, a pilotare il piroscafo di famiglia come aveva fatto suo padre. Probabilmente avrebbe continuato ad affrontare i banchi di sabbia e le vorticose correnti del potente Brahmaputra fino a che non fosse stato vecchio e grigio quanto Norman Black.

    Accostarono davanti al cancello di ferro della Saint Ninian, dove Nelson saltò sul clacson. Il frenetico strombazzare fece accorrere il custode ad aprire. Dall’altra parte, era allineato un gruppo di ragazze in uniforme, pronte a dare il benvenuto al distinto ospite.

    Norman scese dall’auto a parlare con ognuna di loro – c’era una mezza dozzina di ragazzine – e, man mano che lui stringeva loro la mano, le studentesse si producevano in un piccolo inchino.

    «Proprio come un membro della famiglia reale», lo prese in giro Sam.

    «Porta dentro la macchina, io intanto raggiungo l’ingresso della scuola con le studentesse», disse Black.

    «Possono salire dietro», propose Sam. «Andiamo, ragazze, saltate su».

    Dopo un attimo di esitazione, la ragazza più alta, una bionda snella con due occhi azzurri ammiccanti, scivolò sul sedile dietro a Sam, e le altre la seguirono. Le due che non riuscirono a strizzarsi sul sedile posteriore si appollaiarono dietro, sul baule.

    Sam sorrise. «Tenetevi strette», disse. Arrivarono davanti all’ingresso principale in una cacofonia di clacson e risatine, facendo accorrere Gertrude Black, la quale li accolse con parole di rimprovero che tradivano però l’evidente piacere di vedere il fratello maggiore.

    «Santo cielo, che baccano! Signor Jackman, è stato molto gentile ad accompagnare il dottor Black. Lasci pure lì la valigia, qualcuno del personale la verrà a prendere. Ragazze, tornate subito dentro a prepararvi per l’ispezione. Norman, caro, è così bello vederti».

    Sam prese dal baule la cinepresa e una borsa piena di pellicole.

    La ragazza bionda, che si stava voltando per andarsene, rimase senza fiato. «Quella serve a girare dei film?»

    «Sì», rispose Sam, sorridente. «Riprenderò come si svolgono le giornate nella scuola».

    «E la competizione di teatro?».

    Lui le fece l’occhiolino. «Farò di voi delle star del cinema».

    La ragazza ricambiò il sorriso, e le altre presero a gridare eccitate, facendo strillare anche Nelson. La signorina Black batté le mani per richiamarle all’ordine.

    «Dentro, ragazze! Anche tu, Nina Davidge». Diede alla ragazza alta e bionda un’occhiataccia di avvertimento.

    La ragazza non si arrese. «Devo mostrare al signor Jackman la scuola, signorina direttrice?»

    «No, grazie, Nina. Lo farò io dopo pranzo».

    Nelson scelse quel momento per balzare giù dall’automobile e correre in direzione delle ragazze. Afferrò la giacca di Nina, che lanciò un urlo. Sam li raggiunse, allontanando la scimmia, e Nina e le altre studentesse scapparono via tra grida e risatine.

    «Mi dispiace molto», disse Gertrude. «Non so che cos’abbiano, oggi. Di solito le ragazze non sono così indisciplinate».

    «No, mi scuso io per il comportamento poco galante di Nelson», disse Sam, mettendo il guinzaglio alla scimmia e tenendola vicina a sé.

    «Forse, cara sorella», abbozzò Norman ridendo, «non avrei dovuto portare tra di loro un giovanotto tanto avvenente. Ma magari reciteranno doppiamente bene, per la telecamera».

    * * *

    «E ha dei favolosi occhi color nocciola», raccontò Nina alle compagne incantate, «e un sorriso malizioso. È una specie di regista. Assolutamente divino… a parte quella orribile scimmietta che puzza di bazar».

    Adela stava ascoltando dall’altra parte della stanza; anche se molte delle ragazze avevano ripreso a parlarle (inclusa Margie, quando Nina non era a portata d’orecchi), non faceva più parte del gruppo. Lei e Flora si facevano compagnia a vicenda e avevano provato in segreto il loro numero nella stanza della biancheria della signorina Bensham, la quale doveva essere dispiaciuta per loro, perché aveva permesso che usassero il suo grammofono a manovella e aveva aggiunto il loro numero a sorpresa al programma. Avrebbero fatto un’imitazione comica di Charlie Chaplin, al termine della quale si sarebbero tolte giacche e cappelli e avrebbero ballato il Charleston: un ballo più all’antica di quello che avrebbero voluto, ma la collezione di dischi della signorina Bensham era limitata.

    Nina stava ancora parlando del bel regista che aveva accompagnato il dottor Black.

    «Non ho mai sentito parlare di un regista che se ne va in giro con una scimmia», intervenne Adela. «Non può essere uno famoso».

    «Nessuno ti ha chiesto niente, Foglia di Tè», la aggredì Nina. «Comunque, la cosa non ti riguarda, dato che non reciti con noi». Si girò verso le altre. «E so di piacergli… Mi ha fatto l’occhiolino!».

    «E i registi non realizzano personalmente i film», insistette Adela. «Se non ha portato con sé un cameraman, non è un vero regista, no?».

    Nina attraversò infuriata la stanza e la colpì con violenza al petto con una delle sue lunghe dita. «Quello che hai da dire non importa a nessuno. Sei solo gelosa del fatto che verrò ripresa, non è così? Sarò io a diventare famosa, un giorno… non la piccola Foglia di Tè da chissà dove. Quindi chiudi il becco, due anna!».

    Adela sostenne il suo sguardo senza rispondere né accennare una smorfia per il colpo, che le aveva fatto male. Aspetta e vedrai, pensò, sprezzante. Prima della fine della giornata, la star sarebbe stata lei, e non l’odiosa Nina.

    * * *

    Sam seguì di buon grado la temibile Gertrude Black, filmando ciò che lei riteneva volessero vedere i potenziali benefattori della scuola: la cappella gotica, il campo da hockey, il laboratorio di scienze con le sue provette e i tabelloni alle pareti, e la biblioteca discretamente fornita.

    Norman si era stancato da un po’, eclissandosi per andare a parlare con le ragazze.

    «Non crede che ai vostri sostenitori piacerebbe vedere delle immagini delle ragazze impegnate nella vita di tutti i giorni?», suggerì Sam. «Mangiare nel salone da pranzo o giocare a scacchi nella sala comune: quel genere di cose. Non posso inserire il sonoro, ma posso mettere dei sottotitoli che spieghino i vari momenti».

    «I nostri benefattori vogliono sapere dell’eccellente lavoro che facciamo con le ragazze qui alla Saint Ninian e dell’educazione – un’educazione cristiana – che impartiamo loro. Questo non è un campo estivo».

    «No», mormorò Sam, «lo vedo».

    Gertrude Black lo guardò attentamente. «Intendo dire che non vogliamo che la gente pensi alla Saint Ninian come a una specie di scuola di perfezionamento. Le nostre ragazze vengono preparate per affrontare il mondo e diventare giovani donne produttive: insegnanti e amministratrici, o quantomeno mogli e madri intelligenti per l’Impero».

    Sam rise. «Credo proprio che l’Impero sia in via d’estinzione».

    La signorina Black lo guardò scandalizzata. «Spero proprio di no. Non sarà uno di quei giovani inglesi radicali che sostengono il movimento per l’autogoverno dell’India?».

    Sam scrollò le spalle. «Credo a quello che diceva sempre mio padre: l’India appartiene agli indiani e noi l’abbiamo solo in prestito».

    «Non sono d’accordo», replicò Gertrude. «Abbiamo ancora tante cose da darle, possiamo fare tanto bene… Uomini come mio fratello, che offrono un servizio disinteressato. Non possiamo semplicemente abbandonare gli indiani, rinunciare e tornare a casa».

    Vedendola sconvolta, Sam disse con più delicatezza: «Ci stiamo muovendo verso una maggiore indipendenza per gli indiani, signorina Black. Credo che sia più una questione di quando ce ne andremo, che di se lo faremo. Ma magari non accadrà finché saremo in vita noi. Le cose girano molto lentamente, sul Brahmaputra, come soleva dire il mio vecchio padre».

    «Citare suo padre sembra piacerle molto; non ha opinioni sue?». La direttrice lo sfidava con lo sguardo. «E che cosa ha intenzione di dare all’India, signor Jackman, in cambio dei benefici ricevuti con un’educazione imperiale di prima classe?».

    Sam scoppiò in una mesta risata. «Aiuterò lei e il dottor Black a fare un filmato per promuovere la Saint Ninian».

    Il volto severo di Gertrude si contrasse in un breve sorriso. «Allora basta filmare edifici. Ha ragione sul fatto di mostrare le ragazze nei momenti di svago. La competizione scolastica di teatro dimostrerà come traducano la loro conoscenza della storia, della geografia e della letteratura in una rappresentazione dal vivo. Andiamo nel salone centrale, sospetto che vi troveremo anche il mio loquace fratello».

    Sam seguì la direttrice. Gli ci sarebbe voluto qualcosa da bere. Sperò che la competizione non prendesse l’intero pomeriggio e di potersene andare presto. Neppure Nelson, legato nel capanno del materiale sportivo, avrebbe sopportato ancora a lungo la reclusione.

    * * *

    Il salone era animato da bisbigli eccitati e dai fruscii delle ragazze del pubblico che si agitavano sulle sedie nell’attesa che la serie di mini-tableau vivant e rappresentazioni venisse messa in scena. Alcune delle ragazze più grandi stavano requisendo le prime file. Sam aveva posizionato la cinepresa su un treppiedi vicino al palcoscenico, ma su un lato, in modo da non bloccare la visuale alle ragazze più basse sedute dietro. Guardando il programma composto da quattro performance teatrali più un numero a sorpresa, gemette tra sé, sperando di potersi dare alla fuga prima che facesse buio.

    «Temo che dovremo accendere le lampade del salone», disse ai Black. «Non c’è abbastanza luce naturale, qui dentro».

    «Non è un problema», assicurò Norman. «A parte questo, hai tutto quello che ti serve?».

    Sam annuì. «Non mi fermerò dopo la competizione: non posso lasciare Nelson troppo a lungo nel capanno».

    Il dottore disse: «Capisco. Verrò a farti visita tra una settimana circa, andando a Tezpur. Avrai già il film sviluppato, per allora?»

    «Dovrò mandarlo a Calcutta: ci vorranno probabilmente due settimane».

    Norman gli afferrò le braccia. «Grazie per quello che fai, Sam. Lo apprezziamo molto».

    «Vediamo prima come riesce», disse il giovane con un sorrisino ironico.

    All’improvviso, alle loro spalle si sentì un grido. Girandosi, gli uomini videro Nelson correre verso di loro, dondolandosi da uno schienale all’altro delle sedie, tenuto al guinzaglio da una ragazza sorridente, dall’aria maliziosa e con una grossa treccia nera.

    «Ho trovato Nelson III nel capanno del materiale sportivo», disse la studentessa a corto di fiato, con la scimmia che la trascinava veloce in direzione di Sam. Nelson balzò sulla spalla del padrone, leccandogli la guancia, felice di rivederlo. «Qualcuno l’aveva legato».

    Sam arrossì. «Be’, sì, sono stato io… Grazie… Ehm… Ci conosciamo? Cioè, come fai a conoscere Nelson?».

    Adela guardò Sam Jackman; avrebbe dovuto capirlo, che era lui l’uomo con la scimmia. Tutti i coltivatori di tè conoscevano il capitano di piroscafo con un debole per la fotografia e un macaco Rhesus come animale da compagnia. Non tutti sapevano che Sam aveva avuto tre animali uguali, ma Adela certe cose le notava.

    «Sono Adela Robson… la figlia di Wesley e Clarrie, di Belgooree», lo imbeccò. «Non ti ricordi di me? L’ultima volta ci siamo visti più di un anno fa, quando sono andata a stare da zia Tilly alle tenute Oxford; non è la mia vera zia, solo la moglie di un cugino dalla parte dei Robson».

    «Ma certo che mi ricordo», disse Sam con un sorriso frettoloso.

    Adela sentì una punta di delusione; era chiaro che mentiva.

    «Be’, Nelson si ricorda, vero, amico?». Solleticò il mento della scimmia.

    Nelson si buttò con una risata tra le sue braccia.

    «Che cosa ci fai, qui, con quella creatura?». La signorina Black arrivò di corsa. «Dovrebbe stare fuori».

    «Ci penserò io, signorina direttrice», disse svelta Adela. «Mi conosce».

    «Non sei nella rappresentazione del tuo dormitorio?»

    «No, signorina».

    «La cosa mi sorprende», disse Gertrude accigliata.

    «Be’, se non ti dispiace controllarlo tu», intervenne Sam, «te ne sarei grato… ehm… Della?»

    «Adela», lo corresse la ragazza.

    «Adela», ripeté Sam con un sorriso, «sarebbe molto gentile da parte tua».

    Lei gli sorrise a sua volta. «Sarà un

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1