Un anno in Afghanistan
Di Marco Henry
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Info su questo ebook
Il diario inedito di una guerra mai raccontata così
Uno straordinario racconto in presa diretta, senza mediazioni, il diario di un uomo che ha vissuto per oltre un anno in uno dei peggiori teatri di guerra del pianeta. Responsabile degli approvvigionamenti per i contingenti schierati in Afghanistan, l’autore di questa toccante e vivida testimonianza descrive le difficoltà del suo lavoro, i viaggi quotidiani all’insegna del rischio di attentati, la vita dentro le strutture militari in compagnia di persone di tutto il mondo, gli incontri brevi ma al tempo stesso intensi con la popolazione locale. In un luogo dannatamente ostile e pericoloso, le precauzioni non sembrano mai sufficienti. Ogni spostamento è attentamente programmato e sorvegliato. Ma, purtroppo, non tutto va sempre per il verso giusto. Gli stranieri vengono presi di mira e sono spesso vittime di feroci assalti o attentati kamikaze. Tra paura e forti emozioni, in un mondo sconvolto da un conflitto che sembra non finire mai, Un anno in Afghanistan è una lettura imperdibile per chi voglia capire fino in fondo cos’è la guerra, raccogliendo elementi e riflessioni che TV e giornali non ci hanno mai proposto.
La storia vera di un italiano che ha vissuto per oltre un anno in Afghanistan
Come sopravvivere all’inferno quotidiano della guerra
«Un’esperienza fuori dal comune, un documento prezioso per capire meglio cosa sia davvero un conflitto.»
«Una testimonianza diretta di ciò che accade ogni giorno in un teatro di guerra.»
«Non tutto è orrore. L’autore ci consegna anche un’immagine bella dell’Afghanistan e delle speranze del suo popolo.»
Marco Henry
Ha quarantotto anni, è belga di nascita ma italiano da tutta la vita. Dirigente d’azienda, ha vissuto e lavorato ovunque, dall’Europa all’Africa, dalla Cina al Medio Oriente. Ha partecipato a diverse missioni internazionali di pace in Africa centrale e in Afghanistan. Da sempre la sua vita si divide tra gli impegni di lavoro e un’inesauribile passione per viaggi e avventure. Quando non è in giro per il mondo, vive a Bergamo.
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Anteprima del libro
Un anno in Afghanistan - Marco Henry
Indice
Cover
Collana
Colophon
Frontespizio
Partenza
L’inizio di tutto
Welcome to Kabul!
Scopro il mio lavoro
Una nuova casa
L’ambasciata italiana
Un giorno triste
Amicizie
La mia prima autobomba
Comodità e piccole conquiste
Un giro in città
Paese che vai… usanza che trovi
Dieci motivi per cui…
Arrivederci, Kabul!
Storie di ordinaria burocrazia
Campioni del mondo
Ritorno
Ore 03:05
Herat
Dumping
Tanti perché
Una mattina come tante
Stranieri a Kabul
Incidenti di percorso
La sindrome di Kabul
Stanchezza
Andrea
Trasloco
Questione di parole
Mogli lontane
Il mio capo
Conto i giorni
Buon anno da Kabul, Afghanistan!
Obaid Artest
Una piccola storia
Penne nere
Il veterinario
Notti insonni
Cose che mancano
Tedeschi
Sushi e lenzuola pulite
Metti una sera a cena
Rapimenti, giornalisti e polemiche
Un lungo viaggio
Regole e regolamenti
Bamiyan
Voglia di fuggire
Polizia locale
Brutte esperienze
Paura
Wafa e l’amore
Pensieri e parole
Bilanci
Matrimoni
…E funerali
Viaggio al centro della guerra
Il prigioniero talebano
Una vita dura
Ultimo giorno
Kabul, addio
Dieci anni dopo
Ringraziamenti
em494
Prima edizione ebook: agosto 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-0984-4
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Corpotre, Roma
Marco Henry
Un anno in Afghanistan
Viaggio al centro della guerra
ominoNewton Compton editori
A mio padre,
l’uomo più coraggioso che abbia mai conosciuto.
Partenza
20 aprile 2006
Tra poco supererò il punto di non ritorno. Quando sarò salito a bordo di questo residuo della guerra fredda, sarà troppo tardi per ripensarci.
Nessuna marcia indietro. Nessun rimpianto.
Rivedo le facce degli amici quando, durante una cena a casa mia, ho dato loro l’annuncio: «Me ne vado per un anno in Afghanistan».
Quello sguardo di sorpresa mista a malcelata commiserazione. L’ennesima cazzata da parte di uno che di cazzate se ne intende.
Rivedo la faccia fintamente contrita del mio capo il giorno in cui mi comunicò che il nostro rapporto di lavoro finiva lì. Una frase sussurrata con aria colpevole, senza il coraggio di guardarmi in faccia. Quel mattino di gennaio, sotto un cielo color piombo, la radio l’aveva definito il Blue Monday. Il giorno più triste dell’anno. Il più freddo, il più buio e il più lontano dalle vacanze. Una vera giornata di merda.
Rivedo le lacrime di rabbia di mia moglie, al mio rientro a casa quella sera. Un uomo senza più un lavoro, con un bimbo piccolo, un mutuo e le rate della macchina da pagare e un sacco di progetti andati improvvisamente a farsi fottere.
Rivedo le notti passate a fissare il soffitto, in attesa di un sonno che non ne voleva sapere di arrivare. Tormentato da una decisione troppo difficile da prendere.
Ho trentasette anni. E di colloqui negli ultimi mesi ne ho fatti almeno altrettanti.
«Lei è troppo qualificato».
«Lei è troppo giovane per questo incarico».
«Lei è troppo vecchio per questa mansione».
«Lei è troppo caro».
In un caso, addirittura, uno spiazzante: «Lei ha troppa esperienza».
In ogni caso, sempre troppo
.
Improvvisamente oltre quindici anni di lavoro, di sacrifici, di viaggi e soggiorni all’estero, di settimane di sessanta, settanta ore o più, di ferie passate al telefono, erano diventati uno svantaggio.
Guardo le mie mani nel cono di luce dei riflettori, cerco di tenerle ferme, tese davanti agli occhi. La destra sembra tremare un po’. Forse è solo un’impressione, uno scherzo del caldo e dell’umidità ancora opprimenti, nonostante sia passata mezzanotte da un pezzo. Oppure la paura di volare sopra un mezzo che di sicuro ha al suo attivo troppi decolli e troppi atterraggi e avrebbe bisogno di una bella risistemata.
La verità è che me la sto facendo sotto. Ho accettato un lavoro nel peggiore di tutti i buchi del culo del mondo. Un Paese del quale tutti parlano, ma di cui non sa un cazzo nessuno. Turni di quattordici settimane, seguiti da tre settimane e mezzo di vacanza. Che ci guadagno? Semplice: uno stipendio che in Italia mi potrei solamente sognare. Il punto è che facendo qualche rapido calcolo, starò lontano da casa almeno undici mesi.
Ne ho parlato con Rossana, mia moglie. Lei è una tipa tosta, sicuramente più di me. Mi ha chiesto qualche giorno per pensarci, ma ho capito subito che per lei era un sì. Ci conosciamo da dieci anni e siamo sposati da sei e lei sa che questo – al di là del tema soldi
– è sempre stato il mio sogno. Quello di un lavoro diverso, lontano dai tavoli dei consigli di amministrazione, dai report di fine mese, dai budget, dai completi gessati e dalle scarpe nere e lucide.
Adesso sono qui, su una pista secondaria dell’aeroporto di Dubai, in cerca di un angolo tranquillo dove fumarmi l’ultima sigaretta. Ormai sono in questa città da tre giorni, e finalmente il visto per l’Afghanistan, pieno di timbri e di firme svolazzanti, è incollato su una pagina del mio passaporto. Ho la camicia zuppa di sudore che si appiccica alla schiena, le ginocchia molli.
Gianluca, mio figlio, ha quattro anni e va all’asilo. Salutarlo al terminal delle partenze di Milano Malpensa, senza fargli capire il dolore che provavo, è stata la cosa più difficile delle ultime settimane. Ho trattenuto le lacrime meglio che potevo mentre lo abbracciavo, ed ho lasciato che sgorgassero solo più tardi, di nascosto, mentre passavo i controlli all’imbarco. Devo aver fatto una certa pena a chi mi ispezionava i bagagli: un omone di quasi due metri singhiozzante e con il viso rigato dalle lacrime.
Getto il mozzicone di sigaretta in una pozzanghera d’acqua sporca e oleosa, che, chissà come, non si è asciugata nel caldo del deserto. Cerco un posto per svuotare la vescica prima di imbarcarmi. Ho con me due bottiglie d’acqua, una piena e l’altra vuota. La seconda mi servirà durante il viaggio, poiché l’aereo non ha toilette. Un Antonov an-12, un quadrimotore russo alto come un palazzo a tre piani sotto il quale sono sparsi i miei bagagli.
È quello che hai sempre voluto
, mi ripeto mentre mi avvicino all’aereo, misurarti con qualcosa di diverso, vedere quello di cui sei capace
.
Il pilota mi fa cenno di lanciargli il mio zaino e la mia sacca. Shorts e ciabatte hanno preso il posto della divisa inamidata che indossava poco fa. A bordo non ci sono posti passeggeri, solo pallet carichi di cibo e aiuti umanitari con il logo del wfp trattenuti da spesse reti di nylon. L’odore di cherosene è insopportabile e l’aspetto degli interni è persino peggiore di quanto l’esterno suggerisca.
Il rivestimento della cabina è dipinto a mano in un improbabile e disgustoso color verde-corsia-di-ospedale, e ci sono due strapuntini mezzo sfondati a lato del portello, al quale si accede arrampicandosi su una scala di alluminio tutta storta. Il pilota mi chiede se preferisco viaggiare in cabina, accompagnando il pessimo inglese con ampi cenni delle mani per farsi capire. Accetto volentieri, pentendomene immediatamente. Dalla cabina pendono cavi elettrici fissati con nastro adesivo, orbite vuote sul cockpit che un tempo alloggiava strumenti che spero con tutto il cuore non fossero essenziali. Il navigatore sta calcolando qualcosa, la rotta o il carburante, non saprei, con un portatile ibm dallo schermo in bianco e nero. Non sono un esperto d’informatica ma direi che l’ultima volta che ne ho visto uno è stato parecchio tempo fa. Non c’è traccia di apparecchiature moderne né di cinture di sicurezza.
Uno dopo l’altro i quattro motori prendono vita, tossicchiando e sputando fumo nero. L’aereo vibra come una vecchia lavatrice. Qualche minuto di riscaldamento e comincia a spostarsi sulla pista. Pigramente si posiziona e i motori cominciano a salire di giri. Il frastuono è insopportabile. Di colpo il pilota molla i freni e l’aereo riprende a muoversi con una lentezza esasperante. Il rullaggio è infinito e so che la pista prima o poi finirà nella sabbia. Il pachidermico aeromobile sembra quasi non farcela, i motori continuano a urlare ma rimane incollato a terra. Alla fine, con mio grande sollievo, si alza, lentissimo, le vecchie eliche che fendono l’aria calda del deserto e le ruote che si staccano con un sussulto. Adesso, davvero, non si torna più indietro.
Prendo un respiro profondo e chiudo gli occhi.
Passo la nottata insonne, tra la lettura di un libro di Gino Strada, Pappagalli verdi, e frequenti visite alla cabina del navigatore, un piano più in basso: un cunicolo di oblò di vetro immerso in una pozza d’inchiostro. In un inglese stentato mi spiega la rotta: Abu Dhabi, l’Oman, il Pakistan. Un giro pazzesco per evitare l’Iran, che ha appena vietato il sorvolo agli aerei con destinazione l’Afghanistan. Il russo bofonchia qualcosa circa l’Iran e i maledetti arabi. Vorrei spiegargli che gli iraniani non sono propriamente arabi ma persiani, e non parlano arabo ma farsi, una lingua antica come la loro cultura millenaria, ma immagino che non sia disponibile ad ascoltare una lezione di storia.
Alle prime luci dell’alba il sole nascente rivela il paesaggio aspro dell’Afghanistan, fatto di montagne spoglie, brulle, spruzzate di neve e pochi villaggi sparsi.
Voliamo bassi su Kabul. La città sembra fatta di polvere. Tutto ha lo stesso colore delle montagne circostanti: una sfumatura indefinibile di beige. Chiunque abbia creato questa città doveva aver finito i colori. Non si vede un filo d’erba, un albero, solo case basse con il tetto piatto. L’aereo si abbassa lentamente sopra la pista e atterra con un tonfo sordo, i motori urlano e infine si spengono. Benvenuto in Afghanistan!
L’inizio di tutto
11 settembre 2001
Credo chiunque ricordi quel giorno: dove si trovava, cosa stava facendo, che cosa ha pensato, cosa ha provato.
Io mi trovavo in viaggio di lavoro in Svezia. Un viaggio piuttosto lungo e noioso da affrontare in auto. Le notizie mi arrivavano da casa, da mia moglie inchiodata davanti al televisore, con in braccio mio figlio nato da pochi giorni. Le immagini delle torri che crollavano davanti ad un mondo attonito e annichilito scorrevano sullo schermo.
Ricordo chiaramente di aver detto che questa cosa avrebbe cambiato la nostra vita. Non avrei mai potuto immaginare quanto.
Domenica 7 ottobre 2001 seduto davanti al televisore assistevo in diretta all’inizio del bombardamento aereo sull’Afghanistan, il cui obiettivo era quello di colpire le forze talebane e di al-Qaeda. Era così irreale e così simile a un videogioco da non sembrare vero. Forse non ero neppure cosciente che era appena cominciata una guerra. Una guerra lunga, crudele e dagli esiti incerti. Una guerra in un posto lontano, troppo lontano per riguardarci in qualche modo.
Ancora non potevo sapere che quella guerra un giorno sarebbe stata anche la mia.
I primi attacchi vennero registrati nella capitale Kabul, a Kandahar, residenza del leader talebano – il mullah Omar – e nei campi d’addestramento della città di Jalalabad, al confine con il Pakistan.
Il 9 novembre gli americani bombardarono l’importante città di Mazar-i Sharif, nel nord del Paese, che venne quindi conquistata e saccheggiata dalle milizie dell’Alleanza del nord, guidata a lungo in passato dal comandante Massoud, eroe nazionale afghano, morto appena due giorni prima dell’attacco alle Torri Gemelle.
Nella notte del 12 novembre le forze talebane, col favore dell’oscurità, abbandonarono Kabul. L’esercito dell’Alleanza giunse presso la città nel pomeriggio successivo, dove la resistenza era costituita ormai solo da uno sparuto gruppo di soldati, nascosti in un parco cittadino. Ora anche Kabul era in mano alleata. Nel giro di ventiquattr’ore vennero prese anche tutte le province lungo il confine iraniano, tra cui la città di Herat.
Il 16 novembre iniziò l’assedio alla città di Kunduz, che cadde definitivamente tra il 25 e il 26 novembre. Il 26 l’attacco fu sferrato alla roccaforte talebana di Kandahar.
Il 7 dicembre il mullah Omar riuscì a sfuggire alla cattura da parte degli americani. Leggenda vuole che si allontanò a bordo di una motocicletta, per rifugiarsi nella regione dell’Oruzgan. Osama Bin Laden e i suoi fedelissimi resistevano sulle montagne di Tora Bora, nascondendosi nelle grotte. Il 12 dicembre, dopo una falsa richiesta di tregua chiesta dai talebani per poter riconsegnare le armi, i combattimenti ricominciarono.
Il 17 dicembre, con la conquista delle ultime grotte, ufficialmente la coalizione conquistò il Paese e gli ultimi talebani rimasti ripararono in Pakistan.
Il 20 dicembre, con una risoluzione dell’onu, venne istituita l’isaf, l’International Security Assistance Force, con il compito di stabilizzare il Paese, garantire la sicurezza del neonato governo del presidente Hamid Karzai e supportare la costituzione e l’addestramento del nuovo esercito afghano.
Fin qui una breve cronaca dei fatti più importanti di quegli ultimi mesi del 2001.
Ora, cinque anni dopo quegli avvenimenti, Kabul mostra ancora tutte le ferite della guerra. Una guerra in realtà iniziata molto tempo prima. L’invasione russa, la guerra civile, il governo fantoccio di Babrak Karmal, il dominio talebano sono tutte tappe di un dramma unico che ha visto come vittime milioni di donne e uomini.
Sembra che l’Afghanistan non abbia conosciuto altro che la guerra. Che ne ha fatto uno dei Paesi più poveri al mondo. Un Paese a cui mancano strade, ponti, fognature, energia elettrica, scuole.
Ma soprattutto un Paese a cui manca un futuro.
Sappiamo che un giorno la missione internazionale di pace se ne andrà, e c’è da chiedersi cosa ne sarà di questa gente. Si sentirà finalmente libera? O sarà solo l’inizio di una nuova guerra, l’ennesima ferita su un corpo che ha già troppe cicatrici?
Welcome to Kabul!
21 aprile 2006
La scritta è rozzamente dipinta a mano sul marmo sbeccato che orna la porta a vetri del fatiscente terminal dell’aeroporto di Kabul. Non appena si solleva l’enorme portello posteriore vengo investito da una zaffata di aria calda, densa di polvere e di odori poco piacevoli.
Mentre getto sull’asfalto la sacca con tutti i miei averi, molti libri e pochi vestiti, si avvicina, annunciato da una nuvola di polvere, un pick-up malridotto, da cui scende il mio comitato di benvenuto: un australiano robusto e sorridente in jeans e scarponi e un poliziotto afghano imbacuccato in una divisa verde di lana, troppo pesante e di parecchie taglie più grande.
Mentre l’australiano, con le sue mani enormi, carica i bagagli nel cassone senza troppe cerimonie, il poliziotto esamina con scrupolo maniacale ogni singola pagina del