Il cacciatore di terroristi
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Info su questo ebook
Cos’è disposto a fare un padre per salvare il proprio figlio? Dimitri Bontinck è consapevole che i gruppi estremisti jihadisti indottrinano continuamente i ragazzi occidentali, sottraendoli alle loro famiglie. E così, adolescenti radicalizzati scompaiono nel deserto per anni e spesso non fanno ritorno. Dimitri non intende accettare che questo sia il destino di suo figlio: appena diciottenne scappa di casa per unirsi ai combattenti dell’ISIS, ma viene imprigionato ad Aleppo. Quando si rende conto che le autorità del suo Paese, il Belgio, non sono in grado di trovarlo, Bontinck decide di tentare il tutto per tutto: nonostante questo comporti un rischio per la propria vita, parte e raggiunge i campi di battaglia della Siria, dove viene fatto prigioniero e torturato, prima di essere rilasciato e potersi, miracolosamente, ricongiungere con suo figlio Jejoen. Dopo averlo riportato a casa, Bontinck sente però che la sua missione non è finita e da allora continua a condurre operazioni pericolose e segrete per salvare altri ragazzi occidentali irretiti dal brutale califfato islamico.
Un libro sconvolgente
La terrificante strategia del Califfato raccontata da chi l’ha vissuta sulla propria pelle
«Bontinck racconta la ricerca straziante del figlio che si è unito a un gruppo di terroristi dell’ISIS...»
Publishers Weekly
Dimitri Bontinck
Veterano dell’esercito belga, vive ad Anversa. Ha completato sette missioni in Siria durante le quali ha salvato suo figlio, Jejoen, e altri ragazzi che erano stati radicalizzati proprio come lui.
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Anteprima del libro
Il cacciatore di terroristi - Dimitri Bontinck
513
Titolo originale: Rescued from Isis
Copyright © 2017 by Dimitri Bontinck.
All rights reserved.
Traduzione dall’inglese di Stefania Martini
Prima edizione ebook: ottobre 2017
© 2017 Newton Compton editori s.r.l.
Roma, Casella postale 6214
ISBN 978-88-227-1329-2
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
Dimitri Bontinck
Il cacciatore di terroristi
La storia vera di un padre che ha salvato suo figlio dall’Isis
Indice
Prologo. Il seminterrato
Capitolo uno
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
Capitolo cinque
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
Capitolo nove
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
Capitolo quindici
Capitolo sedici
Capitolo diciassette
Capitolo diciotto
Capitolo diciannove
Capitolo venti
Capitolo ventuno
Capitolo ventidue
Capitolo ventitré
Capitolo ventiquattro
Capitolo venticinque
Capitolo ventisei
Capitolo ventisette
Capitolo ventotto
Epilogo
Ringraziamenti
A mio figlio, con la fede nell’amore che vince su tutto e con la speranza per la pace nel mondo
Prologo
Il seminterrato
Continuavo a sentire le parole «Kafr Hamra», giorno dopo giorno. I combattenti siriani che incontravo mi dicevano che dovevo andare in quel villaggio dal nome bizzarro, a nord della città in cui mi trovavo. Kafr Hamra, Kafr Hamra. Tutti gli europei erano lì. Inglesi, francesi, belgi. Kafr Hamra. È la base degli occidentali.
Era come il ritornello di una canzone che non riuscivo a togliermi dalla testa, per quanto ci provassi. «Sei andato a Kafr Hamra?», mi chiedeva la gente, confusa. Tipo, cosa cazzo fai qui ad Aleppo? Vai a Kafr Hamra. Ovviamente.
Ma c’era un problema. Il mio autista e parecchie altre persone mi stavano dicendo di stare lontano da Kafr Hamra. Militanti, giornalisti, cittadini comuni e altri jihadisti erano tutti estremamente decisi. I combattenti che occupavano il villaggio erano paranoici, violenti, imprevedibili, mi dicevano. Non avrebbero reagito bene all’arrivo di un occidentale. Che importanza aveva se stavo cercando mio figlio? A quegli uomini non importava. Non mi dicevano chiaramente cosa avrebbero fatto se uno sconosciuto dal viso pallido avesse bussato alla loro porta, ma non era niente di buono.
Tutti concordavano sul fatto che a Kafr Hamra ci fossero dei combattenti europei. Non era quello il problema. Il problema era: avrai la milza e il viso intatti quando ne uscirai?
Quindi rimandai la decisione. Meglio seguire le altre piste, prima. Archiviai Kafr Hamra come ultima risorsa.
A quell’epoca, ero in Siria da due settimane alla ricerca di mio figlio. Quando avevo superato il confine, avevo provato un’ondata di coraggio inaspettata che mi aveva sospinto nei giorni successivi, spesso caotici e confusi. Era stata come un’iniezione di adrenalina. In realtà, prima di salire a bordo dell’aereo, avevo pensato che in Siria avrei provato l’emozione opposta: una paura totale e paralizzante. Come quando ci si chiede cosa si farebbe in guerra, se si salverebbero i propri amici o se si scapperebbe. Quel tipo di paura.
Invece no. Quando arrivai in Siria, mi sentii come se camminassi a dieci metri da terra: più giovane, più audace, pronto ad assumere rischi che in Belgio avrei considerato folli. Era un dono. Dopo mesi passati a tormentarmi su cosa fare riguardo a Jay, ero sul campo e stavo seguendo le sue tracce. Facevo conoscenze. Ottenevo informazioni; alcune erano inutili, certo, ma altre mi avvicinavano a mio figlio. Stavo mettendo a repentaglio la mia vita, proprio come lui.
Avevo paura? Sì, a volte. Tanta paura. Quando accendevo le schifose Marlboro di contrabbando che si trovano ovunque in Siria, mi tremavano le mani. (Cristo, avrei venduto l’anima per un po’ di vero tabacco Virginia). Ma sinceramente, non mi sentivo così vivo da anni. Dovete credere ai giornalisti quando vi dicono che andare nelle zone di guerra dà dipendenza. Stavo sperimentando i primi effetti di quella droga, ed erano forti.
Ma quelle due parole, «Kafr Hamra», continuavano a risuonare a livello inconscio. Per quanto mi sentissi coraggioso, non volevo andarci. Credevo ai jihadisti che mi dicevano di evitarlo. Alcuni di loro avevano cicatrici, ferite di pallottola che non erano guarite bene. Loro avevano visto battaglie, perso amici, affrontato carri armati e lanciarazzi e gli aeroplani del presidente siriano Bashar al-Assad. Cose serie, che ai miei occhi li rendevano persone serie. Se loro mi dicevano di non fare una cosa in modo certo e sicuro al cento percento, li avrei ascoltati.
Quindi non ci andai. Il coraggio è una cosa, mi dissi, e la stupidità un’altra.
Dopo un’altra settimana, però, non avevo trovato nessun indizio su dove fosse Jay, niente su cui la gente sul campo fosse d’accordo. Non potevo più ignorare Kafr Hamra: tutti i segni puntavano verso quel villaggio. Dovevo affrontare le mie paure, se no cosa stavo facendo in Siria, a parte girare in tondo come un pazzo e dare ai cecchini un viso bianco da puntare nei mirini?
O andavo a Kafr Hamra o andavo a casa.
Dissi quello che avevo deciso di fare al mio autista e ai due giornalisti con cui stavo viaggiando, Narciso e Joanie. Attraversammo Aleppo in direzione del villaggio, superando i vari posti di controllo sorvegliati dai jihadisti lungo la strada. Il mio stomaco si stringeva ogni volta che un combattente si chinava sul finestrino della macchina e ci chiedeva chi fossimo. Io non rispondevo, come mi era stato insegnato. Anche Narciso e Joanie restavano in silenzio. Erano i momenti che temevamo di più.
Ero esausto; mi stavo spellando per le scottature e avevo già perso quattro chili. Sarei stato contento di non vedere mai più un piatto di hummus. Volevo una doccia calda, un bicchiere di buon whisky e un letto vero. Ma non potevo lasciare la Siria senza andare a Kafr Hamra.
Ci avvicinammo alla casa, più grande di quel che mi aspettavo e color sabbia. C’erano due uomini armati che facevano la guardia, i visi coperti da passamontagna. Puntarono i kalašnikov sul cofano della macchina.
«Chi siete?», chiese uno dei due in arabo.
L’autista rispose. «Lui è il padre del belga, che cerca suo figlio».
Gli uomini si consultarono tra loro. Uno dei due corse dentro. Aspettai nella macchina, in preda al bisogno di fumare. Jay era lì dentro? Avrei rivisto il suo viso e l’avrei abbracciato, finalmente? O mi avrebbero detto che era morto?
Il giovane uscì dalla casa. «Solo tu», disse, indicandomi con un dito. «E voi due». I siriani che mi avevano aiutato a trovare il posto. Narciso e Joanie non protestarono. Ebbi l’impressione che fossero contenti di aspettare fuori.
Feci un respiro profondo, aprii la porta della macchina e seguii il giovane. Avevo il cuore che mi martellava nel petto. Vicino alla porta della casa c’era una fila di scarpe. Diedi un’occhiata veloce per vedere se riconoscevo quelle di Jay, ma non volevo che mi vedessero curiosare come un detective di serie
B
, quindi mi tolsi le scarpe e le misi alla fine della fila.
Le mie guide rimasero nell’ingresso mentre entravo nella villa. L’ingresso si apriva su un ampio salotto con dei divani addossati al muro. C’erano i controller di una PlayStation collegati a una console, i cui cavi neri serpeggiavano verso una
TV
a schermo piatto appesa al muro. Dentro c’erano decine di ragazzi, alcuni con dei passamontagna in testa, altri no. I loro sguardi mi seguirono. La stanza era silenziosa.
C’era un uomo seduto su un piccolo divano, da solo. Aveva intensi occhi neri, un naso largo, lunghi capelli scuri e fluenti e una folta barba nera. Sembrava Gesù, sinceramente, il che era un po’ strano, ma del resto era così per tanti combattenti islamici. La sua gamba destra era sollevata sul divano, con un cuscino sotto il ginocchio. Sembrava ferito. Lo scoprii solo in seguito, ma si trattava di Amr al-Absi, il primo emiro in Siria a giurare fedeltà all’
ISIS
, cosa avvenuta solo pochi mesi prima.
La gente di Aleppo mi aveva messo in guardia su quanto era folle questo nuovo gruppo che si faceva chiamare Stato islamico. All’epoca non avevano ancora assunto quel titolo. Ma la gente intuiva che erano diversi dagli altri.
Al-Absi sollevò una mano e mi fece cenno di avvicinarmi. Feci qualche passo. Avevo la sensazione che se mi fossi mosso in modo troppo brusco verso l’emiro – supposi che fosse l’emiro – sarei stato abbattuto da una scarica di proiettili prima di raggiungerlo.
Mi sedetti sul tappeto di fronte ad Absi. Prima che potessi accennare alla mia richiesta, lui parlò. «Non c’è nessun belga nel mio gruppo».
Il mio cuore sprofondò. Pensavo di essere nel posto in cui avrei trovato Jay. Ma quell’affermazione non mi lasciava alcuno spiraglio.
«Ha sentito…», iniziai.
Absi schioccò le dita. All’improvviso, tutto diventò nero davanti a me mentre qualcuno mi infilava un cappuccio sulla testa. Sentii il calore del mio respiro sul mio viso. Un’ondata di panico mi attraversò i nervi. Gridai.
Mani forti mi fecero alzare in piedi con violenza. Fui spinto con la testa in avanti, lontano dall’emiro. Qualcuno urlava alle mie spalle. Cosa stavano dicendo?
Lo scenario che avevo temuto si stava realizzando. Quello che era successo a Daniel Pearl e ad altri occidentali. Rapiti, imprigionati, decapitati. Cercai di liberarmi, ma le mani che mi trattenevano mi stringevano troppo forte.
Sentii sparire il terreno da sotto i piedi. Sbandai in avanti, pensando che mi stessero buttando in una buca. Girai la testa dall’altra parte e mi preparai all’impatto. Ma i miei piedi colpirono qualcosa. Scale. Stavamo scendendo nel seminterrato della casa.
Scesi a quattro zampe cinque o sei scalini. Gli uomini urlavano cose in arabo, con voci arrabbiate. Ci fermammo. L’aria nel cappuccio stava diventando calda. Inspiravo ed espiravo velocemente.
«Cosa state facendo?», gridai.
I jihadisti iniziarono a frugarmi nelle tasche. Trovarono il mio telefono e il passaporto. Li presero, poi mi strapparono via i vestiti. La camicia macchiata di sudore, i pantaloni, i calzini. Qualcosa mi colpì le costole. Un pugno, pensai. Il dolore si diffuse in tutto il busto e mi piegai su me stesso.
«Come sapevi dove eravamo?», gridò una voce in inglese. «Chi ti ha dato la nostra posizione?».
Non riuscivo a respirare. Ansimai alcune parole.
«Me… me l’ha detto un combattente».
«Che combattente? Chi?»
«Non so come si chiama. Ad Aleppo. Era ad Aleppo».
Era vero che non conoscevo il suo nome. Me l’aveva detto più di uno.
«Tuo figlio ti ha dato informazioni riguardo al nostro gruppo? Diccelo!».
Mi bloccai. Voleva dire che mio figlio era lì? E adesso pensavano che fosse una spia? Se era così, era una cosa pessima.
«No, mai!», gridai. «Ho trovato questo posto da solo».
Qualcosa – il calcio di un fucile, penso – mi colpì la tempia. Strisce bianche mi esplosero dietro gli occhi e precipitarono in ogni direzione. Crollai a terra, lasciando cadere la testa in avanti.
Non avere paura, sussurrai a me stesso. Tutti hanno un padre. Tutti riconoscono l’amore di un genitore per suo figlio. È universale.
Attraverso la stoffa potevo vedere una luce intensa che brillava a qualche metro dai miei occhi. Sembrava seguirmi, un alone nell’oscurità. Mi stanno filmando, pensai. Proprio come Danny Pearl. Ebbi una visione fulminea dell’aspetto che avrei avuto nel video: una figura accovacciata, mezza nuda, con un cappuccio nero in testa. Uno di loro ha in mano un coltello, uno degli uomini intorno a me. Aspetta il momento giusto. Un segnale.
È così che finirà, pensai. Morirò senza rivedere mio figlio.
Capitolo uno
Cosa mi portò in Siria nel 2013 per salvare mio figlio dalle grinfie dell’
ISIS
? Furono la genetica e la geografia e una ragazza marocchina e una piccola incrinatura che si aprì nella mente di mio figlio dopo la fine di una relazione. Ma una parte della storia si trova nel mio passato.
Sono nato nelle Fiandre, che è la parte del Belgio in cui si parla olandese, e ho ricevuto un’educazione cattolica. La mia famiglia era costituita da un miscuglio di liberali e di cristiani devoti.
Ho dei ricordi in cui andavo a casa di mio zio e prendevo in mano la copia di un giornale che arrivava con strani timbri stranieri. Leggevo il nome del giornale: «Pravda», con dei caratteri bizzarri. (La linea che tagliava la
A
aveva sempre due sbarre. Fico!). Mio zio credeva che la rivoluzione fosse dietro l’angolo e che presto il mondo sarebbe diventato un posto migliore.
Leggeva la sua «Pravda» e andava ai raduni del Primo maggio. Gli altri parenti andavano in chiesa e pregavano per le anime di chi si era smarrito e lavoravano duramente e facevano volontariato quando potevano. Da entrambi i rami della famiglia mi arrivò la fede che, qualsiasi strada scegliessi nella vita, avrei dovuto aiutare gli altri per migliorare le cose. Fu un’idea rinforzata dalla scuola cattolica che frequentai per anni.
Sono sempre stato un idealista. Ho sempre cercato una causa in cui credere. Volevo che qualcuno mi mostrasse il vero modo per salvare il pianeta, o almeno per salvare un po’ della gente che ci vive.
Ero impaziente di iniziare a vivere. Quando compii diciassette anni, lasciai la scuola e mi arruolai come volontario nelle forze di terra, cioè nell’esercito belga. Fui collocato in un battaglione di fanteria. Secondo me, essere un soldato significava aiutare le persone. Mi sembrava un’idea semplice.
C’era un secondo motivo per cui entrai nell’esercito: i film di guerra americani. Li adoravo, e mi spinsero ad arruolarmi. Platoon. Il cacciatore. Apocalypse Now. Quei film erano talmente vivi che uscivo dal cinema pieno di energia, con la pelle che fremeva. Come sarebbe stato essere in guerra? Come mi sarei comportato? Quasi tutti i ragazzi vogliono essere degli eroi, salvare qualcuno da un destino terribile. Anche io sentivo intensamente quella spinta.
Non mi venne mai in mente che quei film finivano sempre male. Avevo diciannove anni. Le fini non mi interessavano.
All’epoca in cui entrai nell’esercito belga erano in corso le guerre iugoslave, e fui assegnato a una forza di pace delle Nazioni Unite, parte dell’impegno belga nei confronti dell’
ONU
. Sostituii l’elmetto verde con uno blu, e io e i miei amici diventammo osservatori nella zona di guerra. Ero eccitato da morire.
Fummo mandati in Slovenia per mantenere la pace tra le fazioni in guerra. Quel Paese si era dichiarato indipendente dalla Iugoslavia il 25 giugno 1991, e poco dopo era scoppiata una guerra breve e violenta tra l’esercito iugoslavo e i ribelli sloveni. Avevano firmato un trattato di pace, ma l’odio e il risentimento erano rimasti. Eravamo lì per assicurarci che le persone smettessero di uccidersi a vicenda a causa di quelle antiche faide. In quanto osservatori, non dovevamo farci coinvolgere in nessun vero scontro. Eravamo degli spettatori armati. Ma eravamo circondati dalla violenza.
Una volta stavamo viaggiando su un piccolo veicolo blindato bianco con la scritta
UN
dipinta sul fianco in grandi lettere nere. Il rumore degli pneumatici di gomma produceva un ronzio costante sull’asfalto. Era una giornata calda, con un bel cielo blu che si vedeva dallo sportello sul tetto.
Arrivammo a un posto di blocco. Attraverso lo spioncino nella parte anteriore del carro armato vedemmo degli uomini armati che si avvicinavano. E poi, all’improvviso, il muso di un fucile era infilato nel buco.
Il tempo si fermò. Fissai l’acciaio consunto della canna. Non eravamo in un film. Dietro di me non c’era Francis Ford Coppola con la cinepresa, a dirmi come recitare. Il kalašnikov era a una ventina di centimetri dal mio viso e nel caricatore c’erano dei proiettili veri. Quasi non riuscivo a respirare.
L’adrenalina mi diceva di afferrare il fucile e di spingerlo via. Ma non era il momento di fare gli eroi. Il nostro capitano gridò che stavamo contattando il quartier generale e che, se avessero premuto il grilletto, ci sarebbe stato un incidente diplomatico internazionale. Chiamammo il quartier generale. E guardammo la canna del fucile. E cercammo di non fare movimenti bruschi.
Dopo dieci minuti il kalašnikov fu tolto dallo spioncino, ma gli uomini armati continuarono a bloccarci la strada. I nostri comandanti negoziarono con i loro; restammo seduti nel veicolo mentre l’aria della sera si raffreddava. Alla fine, fu raggiunto un accordo e ci fu permesso di proseguire.
Un assaggio di conflitto. Era stato interessante, ma non dimenticherò mai la sensazione fredda e metallica nelle viscere che mi diceva che in pochi secondi sarebbe potuto succedere qualcosa di orribile.
Due mesi dopo eravamo assegnati a un posto di osservazione fortificato, rivolto verso una città di frontiera. C’erano dei sacchetti di sabbia impilati per bloccare il passaggio dei proiettili, e uno stereo portatile suonava musica rock ad alto volume. Qualcuno aveva messo su la cassetta di un album dei Rolling Stones, Aftermath. Ci annoiavamo a morte. Ormai le nostre barzellette erano vecchie; ci eravamo già raccontati tre o quattro volte tutte le storie di quando eravamo finiti nei guai a scuola o di questa o quella ragazza che avevamo rimorchiato.
All’improvviso a un centinaio di metri da noi esplosero dei colpi di arma da fuoco. Riuscivamo a vedere i traccianti. Che venivano nella nostra direzione.
Per qualche motivo, il mio primo ricordo di quel momento è la musica in sottofondo. Paint It Black. «Dun-dun-dun-dun-dun-dun», ripeteva ossessivamente la chitarra di Keith Richards mentre Charlie Watts batteva un ritmo minaccioso. Era così surreale, così giusto. Era come se fossimo in un film di guerra. Iniziammo a ridere come delle iene e a urlarci a vicenda che era proprio come Apocalypse Now. Proprio uguale!
Non ci era permesso rispondere al fuoco, visto che le nostre vite non correvano alcun pericolo reale, almeno finché gli uomini che ci sparavano non avessero migliorato la mira. Comunque, non capivamo da dove venissero gli spari. Ma l’esperienza di farsi sparare addosso fu esilarante. Ci sentimmo come se fossimo stati battezzati. Benvenuti in guerra.
Non sparai a nessuno. Non usai nemmeno la pistola. Ma vidi gente che sparava e che veniva colpita, e vederlo mi iniettò un po’ di antigelo nelle vene. Sarebbe stato importante in seguito. Non che fossi stato davvero messo alla prova in una zona di guerra, non ancora. Ma bisogna abituarsi al rumore dei proiettili e ad avere delle pistole puntate addosso, per andare in posti come la Siria.
Quando ottenni una licenza dall’esercito, decisi di andare in vacanza nell’Africa occidentale. Ho sempre amato visitare luoghi lontani, come non avevo avuto la possibilità di fare da piccolo con la mia famiglia. La Slovenia era stata divertente, ma volevo vedere un posto diverso da qualsiasi altro avessi mai visto.
In Africa tutto mi sembrò nuovo e diverso. I rumori, i sapori, la concezione della vita. Nei piccoli villaggi di un Paese come la Nigeria si sentono le scimmie che scuotono i rami mentre corrono tra gli alberi nella giungla. L’odore di polvere nell’aria, le donne accovacciate sul ciglio della strada che barattano le loro merci, quel tipo di panorama africano che non può essere riprodotto da nessun’altra parte. Ne fui estasiato.
Durante la seconda settimana di vacanza incontrai una donna del posto di nome Helen, una ragazza nigeriana dal sorriso stupendo. Sembrava innocente come una bambina, con grandi occhi castani e un corpo snello. Più tardi scoprii che era tenace, una vera lottatrice, ma all’inizio ebbi voglia di proteggerla. I nostri sguardi si incontrarono e iniziammo a parlare. Parlare portò ad altre cose e, un paio di mesi dopo esserci incontrati, Helen era incinta.
In Belgio le relazioni interrazziali non sono così comuni. Quando la portai a casa, nelle Fiandre, la gente ci guardava per strada, sicuro. Ma il razzismo mi era estraneo. Non mi importava. Amavo Helen, volevo stare con lei e con il nostro bambino.
Helen voleva sposarsi in Nigeria, nel suo villaggio natale. Non ci pensai due volte. Suo padre era una persona importante, il capo di una tribù di spicco a Benin City, nel Sud della Nigeria. La sua famiglia voleva un matrimonio tradizionale. Accettai: chi vorrebbe un noioso matrimonio olandese? Le mie nozze sembravano suggellate dall’avventura – non c’era solo il fascino dell’amore, ma anche quello di nuove sensazioni, nuovi luoghi.
Passai molte ore felici in quel villaggio parlando con gli zii e i cugini di Helen. Volevo sapere tutto: come vivevano i loro antenati? La medicina tradizionale – le erbe e le radici che gli stregoni davano ai malati – funzionava davvero, o era tutto psicologico? Mi spiegarono cose riguardo al vudù, e guardai i santoni che sacrificavano capre e galline, ballando e facendo schizzare il sangue degli animali in ampi archi rossi mentre celebravano le loro cerimonie. Mi offrirono teschi di animali riempiti d’acqua e mi dissero di bere.
Durante la cerimonia io indossavo la tradizionale camicia lunga africana e Helen risplendeva in un vestito tipico dai colori vivaci. Dopo il matrimonio tornammo in Belgio e lì, il 29 gennaio 1995, nacque Jejoen. Lo soprannominai subito Jay. Fu un momento di grande armonia per me. Ero felicissimo di avere un figlio. Ecco qualcuno con cui avrei potuto giocare a calcio, fare sci nautico, con cui avrei potuto parlare di ragazze, quando gli sarebbero interessate.
Era un bambino perfetto.
Capitolo due
Visto che Helen era cattolica, decidemmo di crescere Jay